LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI RIVELA MINOR OTTIMISMO DI QUANTO ESPRESSO DAGLI INDICI DI BORSA

Per chi si chiede come andrà l’economia globale nel 2018 c’è un modo semplice di provare a rispondere: provare a guardare dove si orientano le grandi case di investimento nel mondo. Non soltanto è utile conoscere il loro livello di fiducia, la quota investita in azioni rispetto a ciò che è investito in titoli a reddito fisso e a quale percentuale di cassa mantengono la loro liquidità, ma soprattutto è interessante conoscere la ripartizione dei loro portafogli per settori industriali, quanta quota parte è investita in titoli proc-ciclici e quanta in titoli anti-ciclici (cioè che crescono o che decrescono quando l’economia “tira”). Ebbene i dati più recenti, relativi allo “stance” di Febbraio differiscono molto da quelli di solo un mese prima:

REDDITO FISSO

come ci si poteva attendere dai corsi dei titoli obbligazionari (tutti in discesa) la quota di titoli a reddito fisso non è cresciuta nei portafogli istituzionali, ma non sembra nemmeno essere scesa, dal momento che l’attesa generale è quella di una fortissima correlazione tra gli andamenti di azioni e obbligazioni (oltre il 90%);

LIQUIDITÀ IN PORTAFOGLIO

ciò che dunque sale è invece la cassa netta detenuta (al di sopra delle medie storiche) sul totale del portafoglio di investimenti (segnale di cautela di fronte all’incertezza dei mercati) ma soprattutto aumenta l’intenzione dei gestori di portafogli di liquidare talune posizioni appena possibile sfruttando eventuali rimbalzi delle quotazioni. Evidentemente l’ipotesi alla base è che il mercato azionario è ancora troppo caro;

SETTORI INDUSTRIALI

un forte segnale di avversione al rischio è la rinnovata preferenza per comparti notoriamente “difensivi” quali la sanità, le telecomunicazioni, le “utilities” (acqua, energia, servizi pubblici ecc…) mentre solo un mese fa ad essere favoriti erano soprattutto I comparti “pro-ciclici” come la meccanica e l’elettronica e le nuove tecnologie. E’ evidente che la scelta riflette l’aspettativa generale di un rallentamento dell’economia, mentre le statistiche sino ad oggi sembrano indicare il contrario.

MERCATI

dietro-front anche per i mercati emergenti, sui quali fino al mese scorso molti gestori di portafogli avevano puntato, evidentemente perchè si teme che la liquidità del mercato -chiaramente in restrizione- possa affliggere prima le piazze più remote del globo. Questo normalmente è un segnale di aspettativa di rafforzamento del Dollaro (principale moneta estera di scambio per i paesi emergenti) mentre non è un buon segnale per l’euro, che riflette l’andamento dell’Europa, che annovera le principali nazioni esportatrici di costruzioni, impianti e tecnologie industriali, le quali evidentemente non beneficeranno della ridotta disponibilità di capitali nei paesi emergenti. Tuttavia non possiamo evitare di notare che invece sono mesi che il Dollaro continua a scendere e che questo fatto tutto sommato controbilancia la fuoriuscita dei capitali dai paesi emergenti.


IL “GURU” DI OMAHA

interessante curiosità viene dall’orientamento di portafoglio del più famoso di tutti I gestori di investimento azionario: il quasi novantenne Warren Buffett. La sua notoria avversione ai titoli finanziari e a quelli tecnologici viene ribaltata dai fatti: il bilancio di Berkshire Hathaway vede nell’ultimo trimestre 2017 un accrescimento significativo della partecipazione in Apple (tecnologia) e in banche come Wells Fargo, Bank of America, Bank of New York Mellon e US Bancorp. Altro settore dove ha effettuato una pesante scommessa è quello dell’agricoltura, incrementando negli ultimi mesi la quota di azioni già detenuta in Monsanto. In effetti è difficile dargli torto: Apple sta performando molto bene e risulta una delle società più solide e meglio gestite di Wall Street, la tendenza al rialzo dei tassi si sta confermando e ne risultano inevitabilmente favorite le banche che vedono crescere la loro forbice (tra tassi attivi e tassi passivi) e infine i prezzi delle principali derrate alimentari stanno crescendo e ciò favorisce i titoli del settore.


MORALE

la corsa delle borse degli ultimi anni è stata accompagnata da un prolungamento del ciclo economico positivo ben oltre le più rosee aspettative che, anche per la sua lunga durata è riuscito a sincronizzare l’economia americana (il cui orologio va notoriamente avanti di mesi rispetto al resto del mondo) con quella europea e quella dei principali Paesi in via di sviluppo. Questa sincronia ha dato nuovo impulso alla crescita economica globale e, ovviamente, gli indici delle borse di tutto il mondo non hanno potuto che registrare l’ottimismo che si andava diffondendo. Oggi però i principali investitori, nonostante le buone notizie sul fronte dell’economia reale, ritengono ugualmente le borse sopravvalutate e orientano verso la prudenza la composizione dei loro investimenti, rivolgendosi verso titoli anticiclici e aumentando la quota di liquidità.

È interessante notare che questo non significa necessariamente che le borse scenderanno ma solo che tra gli investitori si diffonde maggior prudenza visto che possono permetterselo. I recenti lauti guadagni possono infatti far dimenticare loro il rischio di beneficiare meno delle prossime risalite. E, così come è già accaduto nell’ultimo anno e mezzo, questo fatto è positivo perché riduce la possibilità di eccessi speculativi e aiuta a dare stabilità al mercato azionario.

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso

 




QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso




I CONSUMI DEI MILLENNIALS RIVOLUZIONANO L’INDUSTRIA

LE NUOVE GENERAZIONI RIVOLUZIONANO I CONSUMI, L’INDUSTRIA E LA DISTRIBUZIONE. MEGLIO PER OGNI OPERATORE ECONOMICO E FINANZIARIO ATTREZZARSI PER TEMPO INTERPRETANDO LE NUOVE TENDENZE E CERCANDO DI CAVALCARLE

C’è un profilo di uomo nuovo che appare oggi sempre più distintamente all’orizzonte delle categorie sociologiche e comportamentali: quello dei “millennial”, cioè di quei ragazzi e ragazze che appartengono alle ultime generazioni, nate o cresciute a cavallo del nuovo millennio. In questi anni i millennial stanno terminando gli studi o si sono da poco avviati alla vita lavorativa, iniziano a costituire un insieme a sé di percettori di reddito e comunque si sono distinti da da tempo come nuova categoria di consumatori e, come forse non era così scontato immaginare fino all’altro ieri, condividono un sistema di valori, un insieme di preferenze e una serie di aspirazioni per il futuro che appaiono fortemente discordanti con quelle delle generazioni precedenti.

È dunque inevitabile che questo impatterà non poco sulle tendenze di fondo dell’industria, dei consumi e della distribuzione come è altrettanto inevitabile che ne rimarranno segnate molte altre tendenze, da quelle della moda, ai servizi, alla politica e alla cultura, con ovvie conseguenze sui settori dell’intrattenimento, dell’elettronica , del software e delle telecomunicazioni, come nell’ambito dei trasporti e dei beni di consumo durevole, sino agli investimenti finanziari.

UN’ONDA LUNGA NEI CONSUMI E NELLA DISTRIBUZIONE

Più che una vera e propria rivoluzione culturale -che per certi versi ne deriverà presto e inevitabilmente- il fenomeno legato alle differenti categorie comportamentali e aspirazionali dei millennial al momento si profila come un’onda lunga sul fronte dei consumi, uno tsunami silenzioso ma imponente, in grado di sradicare molta parte dell’attuale comparto manifatturiero, di rovesciare buona parte dei criteri del marketing e della pubblicità e di radere al suolo la quasi totalità dei precedenti sistemi di distribuzione e commercio. E se questo sarà il portato della silenziosa quanto travolgente sovversione in corso è forse bene che non la analizzino e se ne preoccupino soltanto i sociologi, i filosofi e gli artisti, ma anche e soprattutto gli economisti, i politici e gli imprenditori.

Che non si tratti -solamente- di uno dei mille volti della digitalizzazione dell’economia, della sua transizione verso il commercio elettronico, la condivisione in rete delle informazioni e la diffusione globale della conoscenza di una nuova lingua universale come l’inglese (tutti fenomeni assolutamente reali e dirompenti ma che appartengono invece alla generazione precedente) lo testimoniano alcuni cambiamenti di costume che ci apprestiamo ad esaminare con attenzione per cercare di delineare meglio ciò che sembra possa accadere all’economia del nuovo millennio.

COME CAMBIANO I GUSTI E LE ABITUDINI

L’Abbigliamento per esempio. Lo si è iniziato a notare con la ripresa economica che, avviata oltre oceano alla fine dello scorso decennio, arriviamo a toccare con mano sul fronte dei consumi solo negli ultimi dieci-venti mesi nel vecchio continente. Nonostante la spesa per consumi si riprenda, il settore dell’ “apparel” (che nell’accezione più comune comprende oltre agli articoli del tessile/moda in senso stretto anche gli accessori, i gadgets ornamentali e le dotazioni destinate all’esercizio fisico o al corredo d’abbigliamento ad uso lavorativo) sembra addirit8andare in senso opposto: verso il baratro.

I gusti e la cura della persona nelle nuove generazioni sembrano semplificarsi, limitarsi, tendere insomma all’essenziale, deprimendo le vendite ed esaltando l’essenzialità, il riciclo e l’omologazione dei prodotti che essi tendono ad acquistare. In poche parole è come se l’intero comparto dell’abbigliamento avesse perduto il suo fascino agli occhi delle nuove generazioni.

Le conseguenze economiche di una tale tendenza sono ovviamente dirompenti, soprattutto per Paesi e sistemi economici come il nostro, che tendono a contare non poco su questo comparto e sul design che lo anima. Quanto questo fenomeno di costume possa in ultima analisi farsi anch’esso risalire alle conseguenze ultime della digitalizzazione e della globalizzazione è arduo dire. E poi esula da questa indagine. Ma il dato di fatto rimane: se i consumi di questo settore crollano, interi sistemi-paese ne sono minacciati.

I numeri parlano chiaro soprattutto negli Stati Uniti d’America, che usualmente anticipano sempre le tendenze del resto del mondo: L’abbigliamento nel 2016 ha costituito soltanto il 3,6% del totale della spesa del consumatore medio americano, contro il 5,1% pagato per l’intrattenimento, l’8,5% per la salute e il 12,6% per il cibo.  Accorpando diversamente i dati viene fuori che la spesa per “esperienze” (dove comprendiamo viaggi, ristoranti e altre attività tipicamente di gruppo) ha raggiunto invece il 18% del totale mentre la sola spesa per le “tecnologie” (ivi compresi gli abbonamenti alle tv online e ai servizi online) supera il 3% (cioè quasi quanto l’intero comparto abbigliamento, accessori e calzature). E visto che parliamo della spesa del consumatore medio americano dobbiamo considerare ancora il basso impatto su quella media delle tendenze emergenti, legate alle preferenze delle nuove generazioni (ancora più dirompenti).

Ma legato al declino delle vendite nell’abbigliamento e negli accessori di moda e di costume vi sono quelli ancora più vistosi del commercio e della distribuzione tradizionale. Una vera ecatombe di negozi che chiudono, grandi magazzini e centri commercio che si ristrutturano (lasciando sempre più spazio al gioco, all’intrattenimento e alla cura della persona) grossisti e distributori internazionali che lasciano il loro spazio di mercato alle nuove forme di consumo online e alle grandi (e dilaganti) organizzazioni/società multinazionali che si occupano sempre più direttamente della vita, dei consumi, della sanità e delle assicurazioni del loro personale (soprattutto quello meglio retribuito).

Quello che si vede ad occhio nudo nella maggiore informalità dell’abbigliamento anche sul posto di lavoro si esprime in una vera e propria rivoluzione delle catene di negozi: crescono quelle in formato GDO (grande distribuzione organizzata) orientate al risparmio e all‘essenziale e si riducono quelle frequentate dal consumatore medio, i multimarca e persino il lusso. Presto la cravatta sarà un ricordo delle generazioni passate ma persino l’abbigliamento di scopo (tute da lavoro, divise, accessori di sicurezza ecc…) si comprime insieme al numero di persone occupate nell’industria manifatturiera (sempre più automatizzata), nell’agricoltura e nell’artigianato.

Ma anche nell’intrattenimento (musica, cinema, discoteche, club, ristoranti ecc…) è in atto una rivoluzione silenziosa e dilagante. Si sa che i millennial sono persone piuttosto schive, poco amanti dell‘ ostentazione e dei fenomeni da baraccone, dei ristoranti e del lusso esteriore (cerimonie di battesimo, compleanno, matrimonio e funerale comprese). I loro archetipi,si chiamano Mark Zuckerberg (Facebook), Jeff Bezos (Amazon), o se vogliamo proprio parlare di “mummie” redivive allora prendiamo il fondatore di Virgin, Richard Branson.

I millennial fanno relativamente poca attività fisica ma mangiano cibo integrale e biologico e assumono poco alcool, parlano le lingue straniere e il linguaggio delle macchine / della tecnologia ma sembrano amare la sobrietà, l’intimità, gli spazi funzionali e ordinati, i ritrovi segreti, i viaggi e gli appuntamenti all’altro capo del mondo, i messaggi in codice e i simboli, soprattutto quando sottemdono a una combinazione di culture, popoli, spiritualità e salute mentale.

COME CAMBIANO GLI INVESTIMENTI E LE PREFERENZE

Difficilmente comprano automobili e case (piuttosto le affittano per brevi periodi) mentre spendono fiumi di risorse in tecnologie di ogni genere e investono i loro denari sui mercati finanziari. Detestano però le banche tradizionali, i titoli a reddito fisso e la medicina tradizionale. Sembrano (ma è presto per dirlo) voler dedicare molto più tempo alla cura della salute, alla prevenzione dall’invecchiamento e si preparano a una cultura più consapevole e universale, ma anche più “tribale”, con la riscoperta delle antiche tradizioni di famiglia e il gusto per la ricerca delle proprie origini.

Cercano consigli online, trovano ogni genere di pubblicazioni e notizie gratis sulla rete e comunicano (per iscritto) come matti tra loro ma parlano meno e disertano le folle. Ma dopo che hanno trovato la loro aspirazione sembrano più fedeli alle loro idee, più orientati al lungo termine (anche perché si attendono in media una vita ultracentenaria) e in generale più favorevoli ad investire per l’utilizzo delle nuove tecnologie.

Difficile racchiudere nelle poche parole di un articolo tutto quello che ne potrà conseguire in termini di consumi, di infrastrutture, di investimenti e di tendenze sociali ma una cosa è certa: il futuro che sembra delinearsi sarà quantomai dirompente per quasi tutti i business tradizionali, per i beni di lusso, i locali notturni e le professioni liberali, i beni di consumo durevole e l’edilizia. Difficile anche presumere quali settori sembrano “tirare” maggiormente, perché il fenomeno è piuttosto recente. Ma se va avanti così è agevole pronosticare il successo di coloro che condurranno ricerche di mercato: ce ne sarà bisogno praticamente per chiunque!

Stefano di Tommaso