PERCHÉ LA BORSA CONTINUERÀ A PERFORMARE

La Compagnia Holding
Non ci sono soltanto argomenti a favore delle borse a causa della liquidità dilagante dei mercati in queste ore: la narrativa delle cause per le quali i mercati finanziari dovrebbero continuare a brindare nonostante le difficoltà dell’economia reale e il forte incremento dell’inflazione dei prezzi si è recentemente ampliata ad una moltitudine di fattori, soltanto alcuni dei quali vengono normalmente presi in considerazione dagli operatori di mercato. Eppure rischiano di essere quelli che conteranno di più…

 

Chi compra e vende in Borsa infatti ha soltanto parzialmente la possibilità di informarsi sui macro-trend di lungo periodo e forse non vi è nemmeno troppo interessato dal momento che resta sempre valida la famosa massima di John Maynard Keynes: “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Eppure talvolta può avere senso guardare anche oltre l’orizzonte per chiedersi dove va il mondo, soprattutto quando nel breve termine le nebbie dell’incertezza lo avvolgono e una serie di segnali di possibile inversione del ciclo mettono paura e costringono chi ne rimane interdetto a cercare di comprendere meglio ciò che succede.

Le borse notoriamente tendono ad anticipare le grandi tendenze di fondo, anche quando queste anticipazioni possono rivelarsi contraddittorie e rischiano di venire ribaltate. È la natura dei mercati ed è il motivo per il quale, di tanto in tanto, la volatilità dei loro corsi si impenna e arrivano tempeste. Difficile predirle con certezza e ancor più difficile è mettersi al riparo quando arrivano.

Questa volta la congiuntura economica non potrebbe apparire più in contraddizione con l’andamento dei mercati finanziari, così come lo è addirittura una serie di segnali che, storicamente, li hanno accompagnati ad importanti ribassi, quali la prospettiva di un rialzo dei tassi d’interesse, quella di un vistoso ribasso dei rendimenti “reali” (cioè al netto dell’inflazione), e persino quella di una possibile riduzione dei profitti aziendali.

Se in passato tutti questi indicatori avrebbero riempito di timori chi investe per professione o per gestire i propri risparmi, oggi sembra che le famose “regole del pollice” possano non funzionare più come una volta, almeno nel breve termine. Se poi ci aggiungiamo che la vera causa di ciò risiede probabilmente nelle tendenze di lungo termine (cioè quelle che poi nessuno guarda davvero quando opera) ecco che il disorientamento cresce e ci si può chiedere con angoscia se stiamo vivendo in un mondo rovesciato (e di conseguenza quanto potrà durare).

Probabilmente si, una serie di coordinate dell’intelletto appaiono oggi saltate o in seria difficoltà a fornire indicazioni utili e, nonostante tutto quanto sopra possa indicare con decisione la prospettiva di un consistente ribasso dei mercati e rialzo dei tassi d’interesse, non si trova (quasi) nemmeno uno spaventapasseri pronto a scommetterci seriamente. Tutti sanno che l’albero della cuccagna non ha esaurito i suoi frutti, sebbene si possa soltanto tentare vagamente di comprenderne le ragioni:

  • Le banche centrali non vogliono e non possono allentare davvero la presa sugli acquisti di titoli a reddito fisso (quantomeno quelli che finanziano i debiti pubblici) perché è la politica che -indirettamente- glielo impone. Dunque i mercati rischiano di restare a lungo piuttosto liquidi, nonostante ogni tanto qualche portavoce dei “prestatori d’ultima istanza” provi a fare “buh”! e faccia finta di andare nella direzione opposta.
  • I profitti aziendali non scenderanno davvero e non hanno alcuna prospettiva seria di ribasso nonostante il peggioramento tangibile dell’economia reale. I motivi: probabilmente perché non vivono al “ground zero” come gli altri comuni mortali: il 60-70% del valore di capitalizzazione totale dei maggiori indici borsistici è composto di grandi e grandissime conglomerate multinazionali, il cui potere di mercato tende soltanto a crescere e le cui risorse tecnologiche tendono soltanto ad aumentare. Morale: comprate titoli di larga capitalizzazione e state attenti agli altri, soprattutto quando esprimono un basso contenuto tecnologico. Le innovazioni in arrivo rischiano di radere al suolo la vecchia industria e di continuare ad arricchire le imprese più capaci di “cavalcare la tigre”!
  • È in arrivo (nonostante i debiti pubblici) una montagna di denaro pubblico e di garanzie governative a favore dei grandi investimenti infrastrutturali che porteranno forti salti di qualità nello sviluppo delle città, dei mezzi di comunicazione e dei sistemi logistici e di trasporto. Non perché qualche politico illuminato lo abbia voluto strenuamente, bensì per la mole di interessi che vi risiedono attorno. I grandi “contractors” non potranno che continuare a guadagnare, così come i banchieri che li assistono e i fornitori strategici che li controllano di fatto (a partire da quelli che li approvvigionano di energia, materie prime e semilavorati strategici, o che cercano e forniscono risorse umane. Anche i titoli di questi ultimi perciò sembrano molto bene impostati ma… attenzione! Soltanto quelli più importanti e più globalizzati!
  • Il Green Deal è tutt’altro che morto dopo la pandemia epocale che stiamo tutt’ora subendo: anzi rischia di esaltarne i diktat e le priorità politiche, dunque anche su questo fronte c’è da attendersi una montagna di investimenti pubblici e privati, grandi incentivi fiscali e grandi monopoli e oligopoli di fatto che nessuno si sognerà di sanzionare (per il momento almeno). Ne beneficeranno ovviamente tutti i settori più esposti alla cosiddetta “sostenibilità” ambientale, a partire dai produttori di veicoli elettrici e di energie da fonti rinnovabili, fino a chi gestisce l’ecologia e il riciclo dei materiali (anche se in misura minore).
  • Infine ancora una volta la tecnologia. Ma non quella de’noantri! Quella epocale e “spaziale”: l’intelligenza artificiale, la grande cybersecurity, la robotica, l’informatica quantistica e iper-performante sui “big data”, la fabbricazione delle batterie del futuro e dei sistemi di conservazione dell’energia e, soprattutto, la ricerca medica e farmacologica più avanzata. I titoli dei gruppi (grandi e piccoli) capaci di accreditarsi come i campioni di questi settori non potranno che volare alle stelle, indipendentemente dalla loro effettiva capacità di trasformarsi in grandi produttori profittevoli. Di nuovo: almeno per il momento! Di questi operatori c’è un grande bisogno anche se è chiaro a tutti che prima o poi la festa arriverà alla sua conclusione naturale…

Morale: non è difficile prevedere che di fronte a “cotanto consesso” di candidati a guadagni stellari per tutti gli altri non resteranno che le briciole, se resteranno. E, a prescindere dal fatto che siano quotate in borsa o meno, le imprese più profittevoli, più estreme e con maggiore di capacità di crescere verticalmente e globalmente saranno ovviamente le altre preferite. Per esempio dai grandi fondi di private equity, che arrivano dove non arriva la Borsa e dove non ha senso che arrivi il Venture Capital. Insomma la grande finanza sembra destinata a vincere dovunque, sempre per il momento. E dove non arriva la grande finanza è probabile che resti soltanto un deserto.

E in Borsa sono quotate soprattutto le imprese migliori, gli indici di borsa sono composti dalle imprese più grandi e più globalizzate. E circa la metà di tutta la capitalizzazione di borsa dell’indice Standard & Poor 500 (a Wall Street) è fatto da imprese iper-tecnologiche. Difficile pensare che – nella lotta per la sopravvivenza –  avranno la peggio, così come è difficile prevedere un futuro roseo per le borse dei Paesi Emergenti o delle repubbliche più piccole dell’Unione Europea, persino quando le quotazioni delle rispettive borse hanno ancora un bel diverso di performance da recuperare, come nel caso dell’Italia.

Se vi piace vincere facile dunque bisogna riuscire a scommettere sui titoli quotati, sulla grande finanza, sui settori favoriti e sulle grandi trasformazioni epocali. Al momento è così, mentre rischia di essere molto “grigia” per tutti gli altri, per la piccola industria di stampo tradizionale e per le imprese familiari che non hanno acceso ai monopoli e oligopoli garantiti dalla politica. E tutto questo sempre per il momento. Quando sarà passato questo momento nessuno sa bene cosa succederà. E non mi stupirebbe osservare una specie di cataclisma che si abbatterà sul mondo. Ma quelli della mia generazione rischiano di non vivere abbastanza a lungo per riuscire ad osservare il ritorno alla realtà. Oggi è quella virtuale che vince su tutto!

Stefano di Tommaso




LE STARTUP AMERICANE FANNO CASSA

La quotazione in borsa di Uber Technologies sembra la perfetta occasione per fare qualche considerazione di fondo sulla schiera di “unicorni” (così vengono chiamate le nuove imprese dell’era digitale che superano la valutazione di un miliardo di dollari) i cui sopravvalutatissimi titoli stanno per riversarsi ancora una volta a Wall Street, sulla scia della nuova ondata di liquidità che le banche centrali continuano a immettere sui mercati.

 


Secondo una stima indipendente al momento si possono contare più di 340 di quegli “unicorni” quando ce n’erano circa un decimo in numero solo cinque anni fa (39 per l’esattezza), la maggior parte dei quali (21 per l’esattezza) oggi sono già quotati in borsa, cambiandone radicalmente i connotati.


Non che sia andata così male: se prendiamo l’andamento delle famose FAANG (Facebook Amazon Apple Netflix e Google), le loro quotazioni negli ultimi tempi hanno corso ben più dell’indice più usato per valutare l’andamento della borsa americana, come si può leggere dal grafico qui riportato:


Ma la proliferazione di queste società (gli “unicorni” sono soltanto la punta dell’iceberg di un’intera generazione di startup che hanno trovato risorse presso gli investitori privati) e delle loro favolose valutazioni è probabilmente anche il risultato della ricerca spasmodica -da parte degli investitori- di nuove più rischiose opportunità su cui investire la montagna di liquidità sulla quale essi sono seduti. Nel 2018 per la prima volta gli investimenti complessivi nelle startup tecnologiche da parte degli americani hanno superato i 100 miliardi di dollari !


Solo pochi anni fa qualcuno aveva denunciato il fenomeno del cosiddetto “savings glut”(cioè la congestione dei risparmi, che non erano mai stati così alti a causa del miglioramento delle condizioni generali di vita, dell’invecchiamento progressivo della popolazione ricca, eccetera…) facendo notare al tempo stesso che le opportunità di investimento mobiliare non si erano moltiplicate allo stesso ritmo, spingendo in tal modo al rialzo i titoli a reddito fisso (e al ribasso i loro rendimenti) e a nuove vette le quotazioni delle principali borse del pianeta. Già questo fenomeno può spiegare in buona parte la montagna di quattrini che si riversano sugli investimenti più rischiosi.

Ma come si può riuscire a distinguere tra l’oceano di nuove iniziative quelle che faranno le migliori performances, quando supereranno la fase iniziale di perdite di bilancio? La risposta più onesta è che molto spesso non si può. Quello che oggi conta di più tra le vincenti della loro categoria è piuttosto la loro capacità di attrarre risorse finanziarie per crescere dimensionalmente.

Uber da questo punto di vista, con la sua teorica valutazione di 100 miliardi di dollari è la perfetta prova di tale affermazione! Dopo dieci anni di sonore perdite economiche (ha bruciato circa 20 miliardi di dollari) il suo giro d’affari, 11,3 miliardi nel 2018, è salito del 42% rispetto al 2017, che invece aveva visto il raddoppio rispetto a 2016. Il numero di utenti mensili è balzato del 34% a 91 milioni nell’ultimo anno e sua volta era cresciuto ben di più, del 51%, nel 2017. Le risorse finanziarie di cui è stata dotata hanno infatti permesso a Uber di espandere il proprio modello di business a qualsiasi servizio dove avrebbe potuto utilizzare dei collaboratori esterni per fare consegne, di qualsiasi cosa, nonostante la quasi totalità di quei servizi sia in perdita.

Lyft, che si è quotata in Borsa pochi giorni fa a livelli ben più bassi (24 miliardi), ha semplicemente spinto meno sull’acceleratore perchè aveva meno risorse da spendere per la sua crescita. E la notizia che le operazioni di quotazione sembrano andare benone sta spingendo Pinterest, l’ennesimo social network in forte perdita, a scaldare anche lei i motori per la borsa!

È quello che recentemente gli economisti hanno battezzato come “esuberanza irrazionale”: l’eccesso di ricchezza (e di aspettative sulla crescita economica) porta a scommettere su nuovi modelli di business persino laddove non c’è alcun indicatore che possa far presumere razionalmente la prospettiva di un profitto. Ovviamente la misura di questa esuberanza è cresciuta soprattutto negli ultimi anni, insieme con la ricchezza degli investitori, come si può vedere dal grafico:


Ma il fenomeno della montagna di liquidità che -aperte le cateratte della borsa- si riversa sugli unicorni al momento della quotazione ha molti altri risvolti sociali e industriali. Innanzitutto quello sulla competitività con i loro concorrenti del passato: inutile far notare che il momento è drammatico per tutti coloro che si occupano di consegne locali “alla vecchia maniera” nelle città dove Uber o Lyft sono presenti. Nessuno di loro dispone delle risorse che hanno questi colossi per perdere ancora denaro! E’ chiaro che per tutti gli altri i margini si schiacciano e il modello di business in può più prescindere da internet e dalla pubblicità online, cosa che a sua volta riduce le entrate pubblicitarie dei giornali locali, delle televisioni regionali e delle affissioni.

Ma la cosa più buffa sono i prezzi delle case, che nelle città più interessate (San Francisco e Los Angeles) alla pioggia di denaro che si sta riversando da Wall Street sono già in passato schizzati alle stelle e ancora una volta si apprestano a crescere. Molti dei beneficiari delle gigantesche valutazioni hanno infatti dormito in un appartamento in comune con molti altri giovani fino a poco tempo fa, e adesso vogliono spostare sull’economia reale i guadagni realizzati su quella “di carta”.

Rischia di andare un po’ come per l’oro del Portogallo, arrivato nel diciassettesimo secolo assai copioso dalle colonie d’oltreoceano, è stato capace di bruciare l’economia reale nel giro di pochi anni, arrestandone il normale funzionamento. Ma per fortuna questa volta il fenomeno sociologico è ben più esteso. Da ogni parte del mondo si investe e si è investito nelle società che sono destinate a cambiare per sempre il volto industriale del mondo. E i frutti che ne derivano vanno anch’essi in tutte le direzioni.

Se poi sarà davvero una manna o viceversa risulterà essere stata una (pericolosissima) moda del momento, lo sapranno soltanto i posteri. Per ora possiamo soltanto cercare alche paragone, come ad esempio la statistica degli ultimi 55 anni qui sotto riportata, che distingue tra imprese valutate poco in relazione ai loro elevati profitti (primo istogramma), quelle dell’indice più diffuso della borsa americana (secondo) e quelle valutate molto e con bassi profitti (terzo):


È chiaro che partire dal 1963 può essere un po’ distorsivo, ma è altrettanto vero che abbiamo già visto scoppiare la bolla speculativa delle “dot.com” dei primi anni ‘90 ed è piuttosto elevato il rischio che anche stavolta la bolla delle aspettative scoppi prima che il nuovo corso si consolidi.

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LE BORSE CORRONO

L’economia globale ha frenato abbastanza bruscamente alla fine del 2018, poi tra mille sussulti e distinguo sembra essere tornata a innestare la marcia in avanti (in quasi tutto il mondo salvo che in Europa), ma la ripresa delle quotazioni delle borse mondiali, dopo il calo registrato nel 2018 ha superato le più rosee aspettative. Perché? La risposta più breve è: perché le banche centrali hanno cambiato atteggiamento e oggi la liquidità sovrabbonda sui mercati. Ma in realtà lo scenario è più complesso.

 

I MOTIVI DI TIMORE A FINE 2018

Per cercare di interpretare correttamente la situazione corrente bisogna innanzitutto notare come alcuni tra i maggiori timori che erano comparsi al momento della picchiata delle borse di tutto il mondo (a fine dicembre 2018) stanno perdendo la loro ragion d’essere mano mano che i mesi passano:

  • prima quelli sulle guerre commerciali internazionali (a partire dalla madre di tutte le battaglie: la Cina contro l’America),
  • poi i timori derivanti dall’eccesso di rigore praticato dalla Federal Reserve nel perseguire la normalizzazione della politica monetaria (e dal conseguente scontro con il Presidente Trump),
  • per seguire con quelli derivanti dalle conseguenze di una lite profonda tra la Gran Bretagna e il resto d’Europa (la prima è importatrice netta dalla seconda),
  • e per finire con le possibili tensioni che sarebbero conseguite a una crisi dei debiti pubblici (a partire da quelli italiano e americano).
    Con la conseguenza quasi scontata di una potenziale revisione al ribasso del giudizio delle agenzie di rating internazionali, di materia per far tremare le borse ce n’era perciò proprio a bizzeffe.

LA MINI-RECESSIONE D’AUTUNNO

A tutto ciò si aggiungeva lo sconcerto provocato dalla mini-recessione d’autunno (che sembrava essere arrivata senza alcun preavviso e che pareva precludere ad una decisa anticipazione della conclusione dell’attuale ciclo economico positivo e all’arrivo di una nuova recessione globale). Recessione tecnica invece, rivelatasi poi per quello che in realtà è forse sempre stata: uno scossone di assestamento o poco più, persino in Italia, dove il primo trimestre 2019 sembra già puntare oltre la parità.

IL PANORAMA SEMBRA DECISAMENTE MIGLIORATO

Tutti coloro che si informano regolarmente sanno perciò che buona parte dei mal di testa che conseguivano all’accumulo di nuvoloni neri e che avevano scatenato un panico da nuova tempesta perfetta nella finanza mondiale oggi sembrano invece dileguarsi, quantomeno nelleaspettative: la Cina e l’America (ma soprattutto quest’ultima, che ha smesso di cannoneggiare anche nei confronti del resto del mondo) stanno mostrando fermamente che vogliono trovare un esito positivo ai negoziati. La FED ha detto chiaramente che non intende accollarsi la responsabilità di una nuova recessione e che dunque i prossimi aumenti dei tassi d’interesse sono rinviati a data da destinarsi. La Gran Bretagna ha abbandonato l’idea di sbattere la porta alla Commissione Europea rinviando a tempi migliori l’uscita dall’Unione (tra due mesi ci saranno le elezioni per il rinnovo dei vertici d’Europa) e infine le agenzie di rating si sono guardate bene dall’infierire sull‘eccesso di debiti pubblici, astenendosi dal peggiorare i loro giudizi e, più di ogni altro fattore, il timore che il mondo stesse viaggiando verso una nuova recessione sembra quantomeno rintuzzato da una serie confortante di nuovi dati macroeconomici che paiono smentire i gufi che annunciavano un‘ imminente apocalisse.

MA NON BASTA PER GIUSTIFICARE LA CORSA DEI LISTINI

Tutto bene dunque? Più o meno si, fatta salva l’ovvia considerazione che quelle sopra citate sono tutte delle “mezze buone notizie”, non il grilletto che può aver scatenato la nuova corsa all’oro della finanza mondiale! In molti casi l’allarme è stato infatti soltanto rinviato.

Non per niente l’inflazione resta ai minimi storici, i tassi d’interesse a lungo termine sono andati in direzione opposta a quelli a breve termine (sono scesi) e tutti sanno che, tempo un anno o due, l’inversione della curva dei tassi (quelli a lungo termine dovrebbero normalmente restare ben al di sopra di quelli a breve, per remunerare la minor liquidità) prelude all’inversione del ciclo economico.

Se invece dal picco negativo di Dicembre scorso (meno di tre mesi fa) le principali borse sono cresciute circa del 20% qualche altro motivo ci deve pur essere e i più concordano che la risposta risieda nella politica monetaria delle banche centrali, le quali non hanno soltanto cambiato atteggiamento (come la FED) ma in molti altri casi hanno addirittura ripreso a pompare liquidità, a partire da quella cinese, fino a quella europea, passando dalla Bank of Japan che non ha letteralmente mai smesso di farlo.

LA LIQUIDITÀ INNANZITUTTO

Altro che normalizzazione monetaria dunque, siamo di fatto agli antipodi, anzi peggio che agli antipodi, perché -anche a causa della maggior offerta di moneta da parte delle altre banche centrali che non trova riscontro in altrettanta fiducia nelle borse locali- Wall Street in questi mesi non solo è cresciuta parecchio (vedi grafico qui sopra), ma ha anche continuato a rosicchiare quote di mercato alle altre grandi borse, attirando capitali dal resto del mondo sia perché esprime grandi qualità (liquidità, trasparenza e controlli, eccetera) che per il fatto che il Dollaro è rimasto da tempo in tendenza ascendente contro praticamente tutte le altre valute.

L’indice europeo paragonabile allo Standard&Poor 500 riportato qui accanto è infatti l’Eurostoxx 600 qui sotto, che evidentemente si è mosso con più moderazione e in leggero ritardo.

 

Tra l’altro l’afflusso netto di capitali in zona Dollaro non fa che rinforzare quella divisa, che resta chiaramente in un canale ascendente, come mostra il grafico della sua quotazione contro Euro qui accanto riportato.

La liquidità dunque è ciò che fino ad oggi ha continuato a sostenere i listini di borsa, anche tenendo conto del fatto che i titoli a reddito fisso mancano oramai del primo dei due aggettivi: il reddito, e che per questo motivo molti investitori scelgono i titoli azionari per avere dai dividendi la cedola che non esiste più per quelli obbligazionari.

MA QUANTO PUÒ DURARE ?

Ma quanto può durare questa bonanza? La domanda è per definizione senza risposte certe ma possiamo provare a guardare qualche dettaglio interessante negl’indici che misurano la produttività del lavoro, dal momento che il rialzo del costo della manodopera già registrato in America può diffondersi nel resto del mondo anche se esso non sembra incidere necessariamente sui consumi, la cui composizione è in forte cambiamento (ed è forse principalmente per questo motivo che l’inflazione non cresce).


La produttività non è soltanto stranamente rimasta al palo negli ultimi anni, un periodo in cui viceversa i profitti aziendali hanno corso più di quanto avessero mai fatto prima, ma ciò è anche successo nel Paese che più di tutti gli altri ha investito nella rivoluzione digitale (che ha da molti altri punti di vista portato a immensi efficientamenti economici): gli Stati Uniti d’America. Qualcuno ne ha attribuito le cause all‘ avanzamento delle tecnologie che hanno generato la cosiddetta “sharing economy” (economia della condivisione) grazie alla quale molti prodotti e servizi sono divenuti economici o addirittura gratuiti (a partire dalle notizie, fino al noleggio di bici e automobili), andando ad alterare gli indici che la tracciavano proprio laddove le nuove tecnologie si sono sviluppate maggiormente.

ALCUNI SEGNALI POSITIVI…

Ebbene dopo molti anni in cui addirittura sembrava volgere al ribasso, nell’ultimo trimestre 2018 ha fatto un balzo in avanti, facendo ben sperare che le tensioni salariali non finissero con il divorare il salto in avanti dell’efficienza aziendale che è derivata dall’andamento economico positivo in America.

Se andiamo poi a guardarne l’andamento dell’efficienza dell’ora lavorata nei paesi più sviluppati (OECD) troviamo in effetti che molte economie emergenti e in particolare quelle dell’Europa dell’Est come Polonia, Lettonia, Bulgaria e Romania, negli ultimi tre lustri hanno mostrato dinamiche molto più pronunciate che non quelle degli U.S.A. o del Regno Unito.


Lo stesso non può peraltro dirsi per il nostro Paese che, rispetto ai più diretti concorrenti europei, ha accumulato un ritardo considerevole, come si può notare dal grafico qui riportato.


Ebbene quella timida ripresa della produttività americana fa pensare che la maggior efficienza per le imprese derivante dall’avanzamento delle tecnologie produttive sia arrivata a lambire anche l’industria manifatturiera americana, lasciando ben sperare che non resti effimera la timida ripresa dei prodotti economici lordi che sembra aver attecchito sul pianeta dopo la pausa della crescita registrata alla fine dello scorso anno.

Nulla di certo tuttavia, e soprattutto non si tratta ancora di una tendenza consolidata che possa far sperare nella ripartenza di un nuovo ciclo economico globale di sviluppo senza essere passati (o quasi) dalla fase recessiva. Per ora è soltanto una pia speranza: quella che l’incedere inesorabile delle nuove tecnologie possa aprire nuovi scenari di sviluppo economico, sino ad oggi impensabili.

E ALTRI SEGNALI DI PRUDENZA

Per il momento dunque la prudenza è d’obbligo: le borse mondiali appaiono ancora una volta fortemente sopravvalutate rispetto alla redditività delle imprese che vi sono rappresentate, o quantomeno in forte anticipo rispetto alle performances che queste ultime dovranno mostrare per giustificare le elevatissime valutazioni implicite nei corsi azionari. E sempre che l’inflazione non faccia brutte sorprese, dal momento che se arrivasse anche le aspettative -oggi stazionarie- relative ai bassissimi tassi di interesse che sottendono alla stima dei flussi di cassa prospettici che possono generare quelle imprese, sarebbero riviste al ribasso, trascinando con sè anche i listini di borsa.

Un’ipotesi al rialzo quindi e una al ribasso fanno la più assoluta parità nelle attese circa l’evoluzione delle borse di qui alla fine dell’anno in corso. Che peraltro è quello che si aspettano quasi tutti gli analisti finanziari per i prossimi 10 mesi, ma con l’unica avvertenza che la media del pollo appena ipotizzata non implica necessariamente un mare calmo come l’olio per la navigazione, soprattutto quando gli scenari appena pennellati tendono un po’ troppo al colore rosa, che sia esso quello di un’alba oppure di un tramonto. Nessuno può davvero dirlo…

Stefano di Tommaso




LA STAGIONE DEI DIVIDENDI NON È MAI STATA COSÌ ATTRAENTE

Il mese di Marzo è sempre stato il mese in cui saltano fuori le cifre che verranno poi pagate tra Aprile e Maggio dalle società quotate in Borsa come dividendo. Negli anni precedenti però nella logica degli investitori -da quelli professionali ai piccoli risparmiatori- era un evento quasi trascurabile rispetto all’attesa (speculativa) di guadagno in conto capitale che rappresentava una parte molto importante della decisione di acquistare o meno azioni quotate. Ma quest’anno le cose sono parecchio diverse…

 

I TASSI A ZERO SPINGONO LE AZIONI CON I MAGGIORI DIVIDENDI

Negli ultimi anni invece le cose sono cambiate non poco: innanzitutto perché i tassi di interesse sono scesi intorno allo zero trasformando il dividendo azionario nella superstar dei rendimenti, dal momento che i titoli di stato e quelli obbligazionari non rendono più quasi niente; ma poi anche perché i profitti delle aziende quotate sono cresciuti parecchio e dunque hann lasciato più spazio che non in passato ai dividendi che sono divenuti una fonte di rendita finanziaria quasi senza alternativa.

Il 2019 è forse l’anno record da questo punto di vista perché i tassi di interesse offerti dai titoli a reddito fisso sono tornati a flettere e i dividendi deliberati (sulla base degli utili record del 2018) sono spesso davvero elevati. Siamo arrivati all‘ assurda situazione di un‘emissione obbligazionaria irredimibile di recente proposta al pubblico da Unicredit propone un reddito fisso annuo inferiore al rendimento della cedola delle azioni della sua più diretta concorrente: Intesa San Paolo (che peraltro esprime una capitalizzazione di borsa al di sotto del valore del suo patrimonio netto rettificato) !

Certo, ci sono titoli azionari quotati nelle principali piazze finanziarie del pianeta che hanno sempre distribuito lauti dividendi e la cui politica di bilancio storicamente prudenziale fa sperare che possano proseguire ancora a lungo in tal senso (come illustrato nel grafico che segue):


Il fenomeno più recente invece, quello della caccia esasperata al dividendo cui stiamo assistendo è stato denominato già qualche tempo fa “bondification”, poiché nelle scelte di portafoglio un certo numero di titoli azionari oramai vengono trattati dagli investitori come fossero obbligazioni, e cioè vengono selezionati sulla base dei flussi di cassa attesi per la distribuzione degli utili.

OCCHIO AGLI SPECCHIETTI PER LE ALLODOLE

Ma come tutti gli eccessi potrebbe avere delle ripercussioni negative: tanto per cominciare il mancato rimborso del titolo azionario, mentre quasi tutti quelli obbligazionari (salvo appunto gli “irredimibili”) hanno una scadenza è una data di rimborso del capitale; in secondo luogo ci sono società operanti in settori maturi e con prospettive del business non esattamente rosee e sicure, che forzano la mano nel distribuire dividendi allo scopo di tenere alta la quota del titolo, anche quando la prudenza suggerirebbe di trattenere gli utili per le esigenze aziendali di rafforzamento patrimoniale. Di lato una tabella estremamente esplicativa ma che risale alla fine dello scorso anno e che quindi appare oggi relativamente imprecisa perché riporta le quotazioni di oltre 2 mesi fa.

Quello della scarsa prudenza in occasione della distribuzione dei dividendi è spesso il caso degli istituti di credito, ancora oggi alle prese con la necessità di disfarsi di crediti di dubbia restituzione e con un certo scetticismo al riguardo della correttezza delle loro rappresentazioni contabili da parte di chi dovrebbe investirci, istituti che invece in molti casi deliberano generose distribuzioni di dividendi, anche perché la logica delle “stock-options” (la distribuzione al management di opzioni di acquisto di azioni quotate) spinge i loro dirigenti quasi a forzare la mano in tal senso.

 

 

MEGLIO LE COMPAGNIE ASSICURATIVE

Meno problematica da questo punto di vista è la situazione delle compagnie assicurative, dal momento che non devono quasi confrontarsi con la fiducia del mercato a proposito del livello di crediti non esigibili in portafoglio (se non marginalmente per il ramo cauzioni) e d’altra parte altrettanto liquide quanto le banche (dunque non soggette a trovarsi a corto di cassa in caso di laute distribuzioni di dividendi).


E C’È ANCHE IL CREDITO DI IMPOSTA

Ovviamente bisogna tenere conto del fatto che i dividendi distribuiti quest’anno non sono una garanzia di continuità nel futuro, ma stavolta i dividendi di parecchie azioni quotate in Borsa sono arrivati anche a tre-quattro volte il reddito percentuale annuo promesso dai Buoni Poliennali del Tesoro o dai principali emittenti di titoli obbligazionari (Enel, Telecom, Ferrovie, eccetera…). Una vera e propria manna se si tiene conto anche del credito di imposta che viaggia attaccato al dividendo distribuito.

Nell’ipotesi poi (non del tutto peregrina) di un veloce recupero di valore della quotazione azionaria al di sopra del livello che aveva prima dello stacco del dividendo, fare i “cassettisti” (come si diceva una volta) solo per pochi mesi può procurare un rendimento teorico su base d’anno ancora più interessante di quello che deriva dal rapporto tra il dividendo pagato e la quotazione del titolo, dal momento che la misura del dividendo è solitamente espressa in ragione d’anno, mentre si può sperare che ci siano ancora degli investitori privati che, per loro ragioni legate al rapporto complessivo con il fisco italiano, non ci tengono ad esprimere ufficialmente in dichiarazione dei redditi il dividendo dei titoli azionari detenuti e, per questo motivo, vendono le azioni che stanno per staccare i dividendi poco prima della loro distribuzione (per poi eventualmente riacquistarli).

Una vera pacchia perciò questa volta, che fa a sua volta ben sperare nella tenuta -nel corso del prosieguo dell’anno- delle quotazioni di Borsa.

Stefano di Tommaso