BANCHE ITALIANE AL BIVIO

È di qualche giorno fa una duplice batteria di riflettori che ha acceso l’attenzione dei media sull’andamento delle banche italiane: da un lato un sibillino resoconto sullo stato di salute dei loro bilanci pubblicato da Equita Sim, denominato “Hit but not Sunk” (colpite ma non affondate) e dall’altro lato lo scandalo della truffa dei diamanti, che ha rivelato non soltanto la propensione delle aziende di credito nazionali a trasformarsi in un supermarket della qualsiasi, ma anche lo scarso regime di verifiche che avvolge il mondo dorato della sollecitazione del pubblico risparmio. Tuttavia, a causa di una serie di fattori contingenti, da circa un mese a questa parte i titoli azionari delle banche quotate in borsa sono tornati a crescere, proponendo un legittimo dubbio sulle prospettive del comparto creditizio in Italia.

 

LA TRUFFA DEI DIAMANTI

Se torniamo per un istante alle questioni sollevate dalla truffa dei diamanti proposti alla clientela come forma alternativa di investimento, non può sfuggire il fatto che quello bancario dovrebbe essere un setttore fortemente regolamentato e vigilato dalla Banca d’Italia. Se infatti gli “asset manager” (i gestori di patrimoni) sono numerosi e spesso indipendenti, le reti di vendita che lanciano i promotori finanziari a caccia dei risparmi da gestire e indirizzare sono in numero molto minore e anche quando sembrano indipendenti sono spesso controllate o partecipate da banche e assicurazioni (altro settore che, direttamente o indirettamente, sollecita il pubblico risparmio).

LA SCARSA EFFICACIA DELLA VIGILANZA

Da notare che i compiti istituzionali della Banca d’Italia, compiti fortemente ritagliati e ridimensionati dal conferimento di buona parte di quelli precedenti alla Banca Centrale Europea (BCE) ai tempi della nascita della Moneta Unica , dovrebbero riguardare principalmente la vigilanza sugli istituti di credito, mentre al contrario il numero di persone stabilmente assunte continua inspiegabilmente a crescere…

Nemmeno questa volta, come era già successo nei casi più eclatanti di Banca Etruria, e poi delle popolari venete, alcun ispettore si è accorto di nulla, e nemmeno è stato citato dai media che se ne sono occupati, come fosse un problema di qualcun altro. Il sospetto perciò che le maglie della vigilanza siano larghe anche in altri ambiti come quello della contabilizzazione delle minusvalenze o del calcolo della correttezza dei costi applicati alla clientela, accentua la sensazione di rischio che provano gli investitori per l’intero comparto bancario, quando esaminano la possibilità di prendere posizione sul mercato borsistico ovvero di partecipare ad un aumento di capitale.

LA TENDENZA DI LUNGO PERIODO È AL RIBASSO

E se prendiamo l’indice borsistico relativo al comparto banche, non a caso si nota una costante discesa del medesimo da un anno a questa parte:

Per Scauri, il gestore azionario Italia di Lemanik Asset Management, è meglio ridere nei portafogli di investimento il settore bancario alla luce del rallentamento del pil italiano, della crescente pressione da parte del regolatore europeo (la BCE, che si fida sempre meno di Bankitalia) e della difficoltà nel generare un accettabile margine di interesse.

Tornando però al report sopra citato di Equita, viene fatto notare che il giro di vite della Bce sui crediti deteriorati potrebbe anche lasciare indenni le banche, che sono in grado di gestire la richiesta della Vigilanza senza troppi scossoni.

CALERÀ ANCORA L’EROGAZIONE DEL CREDITO

Ma a pagare il prezzo del meccanismo con cui Francoforte chiede alle banche di svalutare completamente i crediti deteriorati entro| il 2026 – saranno probabilmente le famiglie e le piccole e medie imprese italiane: l’erogazione del credito nei prossimi anni potrebbe stringersi del 15% rispetto ad oggi, con un calo cumulato dei prestiti atteso nell’ordine di 185 miliardi in 7 anni. In un mio precedente articolo facevo notare che, nel corso del 2018, i prestiti delle banche alle piccole e medie imprese si sono contratti in totale del 5%, cioè di 40 miliardi di euro, nonostante che le sofferenze creditizie verso le medesime imprese si siano ridotte del 31%, vale a dire di 53 miliardi (da 173 miliardi a 120).

Inoltre prosegue il rapporto di Equita, entro il 2020 le banche dovranno rifinanziare una raccolta pari a 200 miliardi, di cui 188 miliardi attraverso il programma di liquidità della Bce ma stima che se il 40% dell’esposizione con la Bce dovesse essere rinnovata, non ci dovrebbero essere “rischi di ulteriore deleveraging sugli impieghi” e perciò “le banche dovranno emettere almeno 70 miliardi di bond e ridurre di 27 miliardi (-18%) i Btp nel loro portafoglio. Il contesto in cui operano le banche italiane viene definito dunque “sempre più sfidante”.

LA MINACCIA “DIGITALE”

Da non sottovalutare poi il pericolo di disintermediazione che proviene dalle cosiddette FinTech (le società tecnologiche che puntano a rimpiazzare il ruolo della banca creando sulla rete digitale un punto d’incontro “autonomo” tra domanda e offerta di capitali). Uno studio della BAIN&Co evidenzia proprio in Italia il massimo del rischio di riduzione della raccolta di depositi a causa di ciò.

 

Per non parlare dell’ulteriore rischio di disintermediazione che proviene dai sistemi digitali di pagamento che stanno progressivamente rimpiazzando quelli bancari.

 

 

MA LA BORSA SEMBRA CREDERCI

Le prospettive insomma, comunque le si gira, non sono splendide per il settore bancario, senza contare il fatto che l’apparentemente inevitabile riduzione dell’erogazione del credito per il sistema bancario potrà comportare il rischio di una progressiva disaffezione della clientela, dal momento che si fa largo l’idea che nel prossimo futuro non sarà più la banca il luogo dove trovare risposte a tutte le esigenze finanziarie.

A meno di decise manovre di riduzione dei costi e di recupero di efficienza, i margini di profitto delle banche non potranno non risentirne. Ecco il bivio: riusciranno le banche italiane ad incrementare l’efficienza economica più di quanto il mercato ridurrà i loro margini economici? La borsa sembra crederci oggi, ma per i mercati finanziari anche i semestri possono risultare delle eternità!

 

Stefano di Tommaso




CON LA QUOTAZIONE DI NEXI E SIA, LA BORSA VA VERSO LE FINTECH

Con l’ipo di Nexi (la ex Carta SI) si prospetta per la Borsa Italiana una delle più importanti quotazioni previste nel 2019 in tutta Europa. Il gruppo Nexi, attivo nella gestione delle carte di credito e leader nei pagamenti e nella monetica, è nato dall’Istituto Centrale delle Banche Popolari (Icbpi) e da CartaSì ed è posseduta da un consorzio di fondi di private equity: Bain Capital, Advent e Clessidra. Ha un valore che, secondo le ultime indiscrezioni, potrebbe essere compreso tra 7 miliardi e 7,5 miliardi.

 


L’operazione Nexi è destinata a muovere le acque stagnanti della Borsa Italiana non soltanto perché si tratta di una delle maggiori ma anche perché il mercato dei sistemi di pagamento è in grande fermento in tutta Europa! Il gruppo, guidato da Paolo Bertoluzzo ha in progetto di sbarcare sul listino del mercato telematico azionario entro aprile per permettere ai fondi di private equity Clessidra, Bain e Advent di disinvestire, dopo essere rimasti soci di Nexi dal 2014 con il 93,2% del capitale.

ANCHE SIA GUARDA ALLA BORSA

Alla faccia del rischio-Italia poi, la quotazione in Borsa di Nexi non sembra peraltro destinata a rimanere isolata per la Borsa Italiana, dal momento che si fa un gran parlare anche di quella di SIA, società italiana che ha Cassa Depositi e Prestiti come primo azionista attraverso Fsia Investimenti srl (49%, oltre a un 17% indirettamente detenuto tramite F2I) ma che può vantare tra i propri azionisti anche Banca Intesa, Unicredit, Banco Bpm, Mediolanume e Deutsche Banked ed è attiva nella progettazione, realizzazione e gestione di infrastrutture tecnologiche per istituzioni finanziarie, banche, imprese e pubbliche amministrazioni, nelle aree dei pagamenti e della monetica in oltre 50 Paesi, anche attraverso società controllate in Austria, Croazia, Germania, Grecia, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Ungheria e Sudafrica. La società ha inoltre filiali in Belgio e Olanda e uffici di rappresentanza in Inghilterra e Polonia.

Anche per SIA il dossier quotazione è aperto da tempo, per due grandi motivi: per finanziare la crescita interna dei ricavi (Payments Canada ha appena scelto Sia per realizzare il nuovo sistema nazionale per i pagamenti di importo rilevante denominato Lynx) che si prevede arrivino a 800 milioni in 2 anni, e per effettuare due importanti acquisizioni in Europa dove SIA è già in short-list.

L’IPOTESI DI FUSIONE TRA NEXI E SIA

La valutazione che circola sul mercato per SIA è di circa 3 miliardi di euro e l’importo previsto di raccolta dalla Initial Public Offering, assommando l’aumento di capitale e la cessione di azioni da parte degli attuali soci, dovrebbe raggiungere il miliardo di euro. Non è nemmeno esclusa la fusione tra le due realtà (Nexi e SIA), da cui potrebbero nascere sinergie immediate per quasi 100 milioni di euro e un gruppo risultante dall’aggregazione con valorizzazione superiore a 10 miliardi di euro, in grado di competere con colossi come Wirecard, Worldpay, Igenico, Worldline e Nts nelle acquisizioni di realtà minori, nonostante i multipli siano stellari (con valutazioni intorno alle 20 volte l’EBITDA).

IL PRECEDENTE DI ADYEN

La verà novità è perciò quella che in Europa gli investitori del mercato dei capitali stanno tornando a rivolgere la loro attenzione ai titoli delle società attive nei servizi digitali di pagamento. Il mercato delle FinTech sino all’altro ieri sembrava destinato ad essere oggetto di attenzione soltanto da parte del Venture Capital, ma oggi non è più così.

C’è ad esempio il precedente di Adyen, società olandese che si è quotata pochi mesi fa alla borsa di Amsterdam con una valutazione di circa 7 miliardi di euro, che offre servizi di pagamento estremamente competitivi grandi banche e emittenti di carte di credito, nonché sistemi di pagamento online. Ayden ha acquisito clienti di primissimo piano tra cui, da Facebook a Uber, e ha registrato ricavi per oltre un miliardi di euro nel 2017. Non solo. Poco tempo fa Adyen ha rimpiazzato PayPal come fornitore ufficiale di Ebay, posizionandosi così al vertice del settore dei pagamenti.

LO SGUARDO LUNGO DELLE BIG TECH


Oltre ai tradizionali operatori dell’universo dei pagamenti digitali, compresi Bancomat (società partecipata da 132 istituti di credito e che fornisce servizi finanziari a 440 banche), e i gestori di carte di credito come Visa e Mastercad, a cercare di rafforzare le posizioni a livello internazionale ci sono anche le BigTech mondiali, da Apple a Alibaba fino a Samsung, e non è un caso che Amazon, Google, Facebook stanno cercando di ottenere licenze bancarie in Lussemburgo, Irlanda e Lituania.

Da non sottovalutare poi la contiguità di questo mercato con quello delle «fintech», piattaforme in grado di offrire servizi finanziari e di trasferimento di denaro tra privati come, per quanto riguarda l’Italia, Satispay, che oggi conta 430mila clienti, o Tinaba che promette di trasformare lo smartphone in un portafoglio.

UN MERCATO CHE PUNTA AL RADDOPPIO

Nel 2021, secondo uno studio di Cap Gemini e Bnp Paribas, i pagamenti digitali nel mondo arriveranno a raddoppiare i valori attuali, toccando gli 880 miliardi. In Italia, dove solo il 28% delle transazioni avviene senza denaro contante, lo spazio di crescita appare più ampio che mai.

Stefano di Tommaso




LA RECESSIONE È GIÀ FINITA?

Una serie di indicatori non-statistici hanno fatto muovere al rialzo i mercati finanziari e quelli delle materie prime da inizio anno dell’8,5% in media nel mondo. Ma mentre per il rialzo dei mercati finanziari si può ragionevolmente ritenere che l’ottimismo attuale dipenda più dal livello della liquidità in circolazione (in questo momento molto elevato) che dalle prospettive macroeconomiche, per la crescita dei prezzi delle materie prime (e in particolare per quella del petrolio) bisogna prendere atto che la loro domanda supera l’offerta nonostante questa stia continuando a crescere. Dunque l’economia globale evidentemente prosegue impetuosa la sua corsa, mentre le statistiche fanno fatica a rilevarne la misura.

 

Si potrebbe obiettare che un paio di rondini non fanno primavera e che le dichiarazioni pro-Opec fatte dai principali produttori di oro nero fanno temere che in futuro l’offerta di greggio potrà ridursi, ma visto che ad oggi non è ancora successo, se la domanda supera l’offerta può dipendere soltanto da due fatti:

 

  • O c’è molta richiesta di petrolio e dunque il prodotto interno lordo delle nazioni non sta affatto rallentando,
  • Oppure la domanda non è poi così forte ma c’è chi sta accumulando riserve di petrolio in attesa che ne cresca il prezzo.

Ma se anche fosse la seconda ipotesi, allora bisogna mettere in conto uno dei due possibili scenari che seguono:

  • O gli speculatori che accumulano stock sono in attesa di una decisa e importante riduzione della disponibilità di petrolio nel prossimo futuro
  • Oppure, OPEC a parte, le prospettive di domanda di petrolio sono comunque più elevate dell’offerta, e dunque nessuno si aspetta una severa recessione economica nei prossimi mesi.

 

E qui veniamo al punto: ricordiamoci che nonostante banchieri centrali, analisti e osservatori economici continuino da almeno un biennio a gridare allo scandalo di quotazioni troppo elevate delle borse, e nonostante le banche centrali abbiano rialzato in qualche caso i tassi e in altri casi ne abbiano annunciato l’intenzione, i rendimenti dei titoli obbligazionari restano bassissimi e gli indici di borsa restano prossimi ai massimi di sempre.

LE BORSE NEL MONDO FANNO +8,5% DA INIZIO ANNO

In passato si era giunti a “giustificare” quei livelli a causa della forte crescita dei profitti industriali e dunque sulla base di decise aspettative di crescita economica globale. Poi negli scorsi mesi qualcuno ha iniziato a dubitarne e, in effetti, nella seconda metà del 2108 una raffica di statistiche ha mostrato una decisa flessione nell’andamento di investimenti e consumi. Eppure le borse non si sono quasi mosse. La discesa delle quotazioni dello scorso Dicembre è oramai un ricordo e persino la borsa di Shangai (quella che era crollata di più nel corso del 2018) da quasi un mese non fa che puntare in alto.

Ora è arcinoto che la prospettiva di una imminente recessione globale, o quantomeno quella di chiazze geografiche di recessione nel mondo porta con se la prospettiva di una riduzione dei profitti aziendali e dunque anche quella di una riduzione aziendali dei valori sottostanti. Ma se andiamo a cercare commenti e previsioni sulla stagione dei profitti in corso, nonostante le aspettative di crescita degli utili aziendali siano in calo, tutti si aspettano che continuino a salire, e non soltanto nel primo trimestre dell’anno, bensì per tutto il 2019.

Questo non significa necessariamente che le borse continueranno a crescere ininterrottamente ancora a lungo, perché molte altre variabili sono ancora in gioco al di là della crescita economica globale, ma evidentemente gli allarmi lanciati negli ultimi mesi dagli organi di (dis)informazione di massa si sono rivelati spesso infondati o anche soltanto esagerati.

LA CRESCITA RALLENTA MA PROSEGUE

Certamente: la crescita economica sta rallentando un po’ dappertutto nel mondo, e in particolare in Europa, ma non sono i fattori congiunturali a frenare lo sviluppo, bensì molto più probabilmente quelli strutturali, come la necessità di ingenti investimenti per proseguire nell’automazione industriale, o quella di ancor più ingenti risorse per le grandi opere infrastrutturali.

Gli investitori sui mercati finanziari restano particolarmente cauti perché si rendono conto della necessità di individuare un nuovo equilibrio finanziario globale nel decennio che è in arrivo, dato l’eccesso di debiti che tutte le nazioni hanno accumulato, l’invecchiamento della popolazione più benestante, la crescente concentrazione della ricchezza in poche fortissime mani, il possibile effetto dirompente delle numerose nuove tecnologie in arrivo.

Ma come si può leggere dal grafico nell’ultimo mese essi sono ritornati a scommettere sulle tecnologie e sui Paesi Emergenti e dunque nonostante le doverose cautele i mercati finanziari viaggiano a gonfie vele, i profitti aziendali continuano (seppur a ritmo più pacato) a crescere, e il lungo ciclo economico positivo globale che nell’ultimo biennio si è sincronizzato un po’ in tutto il mondo, non si è affatto invertito.

Gli unici che forse sono rimasti davvero scornati dalla successione degli eventi più recenti sono invece gli economisti, i ”guru” di ogni sorta e gli pseudo-cartomanti che da anni continuano a suonare le campane a morto sperando di essere ricordati come coloro che avevano annunciato per primi la recessione. Ma anche, probabilmente, tutti coloro che alle attuali notizie (mediamente positive) avrebbero preferito un diverso corso delle vicende politiche e geo-politiche (oggi infinitamente più tranquille di ieri), evidentemente per motivi di loro tornaconto personale. Prima o poi una nuova recessione economica arriverà ugualmente, ma al momento non se ne vedono ancora i contorni all’orizzonte…

Stefano di Tommaso




È IL 2019 L’ANNO PER QUOTARE IN BORSA LE STARTUP TECNOLOGICHE

30Molte Start-Up tecnologiche sono andate in borsa in America nel 2018 (sono state 52 su un totale di 191 imprese che sono approdate a Wall Street) ma il numero di quelle che oggi si stanno preparando allo stesso passo per il 2019 sembra essere addirittura superiore…

 

Il grafico qui accanto riporta il numero totale di imprese che si sono quotate in America per ciascun anno recente.

Tra di loro anche alcuni nomi famosi al grande pubblico, come Spotify,Dropbox, Smartsheet, Sonos o SurveyMonkey, ma in generale si è trattato di realtà non di primo piano, nessuna delle quali con capitalizzazione di borsa da capogiro e molte delle quali dopo pochi mesi di quotazione sono già sugli scudi, con crolli delle loro valutazioni mediamente nell’ordine del 20-30% ad oggi.

TANTI NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Ma il 2019 potrebbe essere diverso. Molti “giganti” con modelli di business innovativi sono pronti al fatidico passo di vedere i loro titoli pubblicamente negoziati: dai colossi della cosiddetta “gig-economy” (economia dei “lavoretti”) quali il trasporto di persone o cose da parte di privati che offrono servizi di ”ride hailing” sotto l’insegna di Uber e Lyft, alle piattaforme tecnologiche di prenotazione alberghiera come Airbnb, passando per la sharing economy degli uffici di WeWork, al “data-mining” di Palantir, alle macchine tecnologiche da fitness di Peloton (considerata la Netflix del fitness),

fino alle mille applicazioni della nuova internet quali Zoom (videoconferenze) o piattaforme social come Slack o Pinterest, o altri ancora come Crowdstrike, Cloudflare, eccetera.
In passato molte Startup hanno invece preferito finanziare il loro sviluppo

col denaro “privato” (cioè non emettendo titoli quotati in borsa) del Venture Capital, anche perché è stato relativamente abbondante sino ad oggi, ma soprattutto talune situazioni paradossali come la quotazione in borsa di Snapchat (crocifissi sui titoli della stampa per mesi) hanno gettato un’ombra di terrore sulla quotazione delle Startup, tanto per chi decide di quotarsi quanto per chi deve valutare la convenienza ad investire.

IL RIPENSAMENTO

Ma oggi è in atto un ripensamento, tanto per il fatto che gli investitori hanno ben chiaro che se vorranno ancora trovare il modo di far fruttare il loro denaro con la prospettiva di borse che non cresceranno in media, dovranno concentrarsi nei prossimi anni su quelle categorie business che oggi sono allo stadio di sviluppo iniziale, piuttosto che su quelle tradizionali, quanto perché la notorietà che deriva dalla quotazione in borsa e la liquidità del titolo quotato fanno sempre più gola ai nuovi pionieri del business, i quali intravedono anche il rischio che il venture capital potrà risultare meno disponibile a rifinanziare le loro perdite in anni di recessione come quelli che sembrano prospettarsi.

IL SELL-OFF SEMBRA AVER STIMOLATO LA CORSA A QUOTARSI

Paradossalmente, il “selloff” (la svendita dei titoli quotati in borsa) dell’ultimo trimestre del 2018, invece che instillare prudenza negli imprenditori li ha invece spinti ad accelerare il loro percorso verso la quotazione, nel timore che l’inversione del ciclo economico attuale possa giungere in anticipo rispetto alle aspettative correnti, che lo traguardavano al 2020.

E poi la notorietà di grossi nomi come Uber (valutata oggi oltre 100 miliardi di dollari), Palantir (41 miliardi ), Lyft (15 miliardi ), WeWork (45 miliardi), Airbnb (31 miliardi) o Peloton (4 miliardi), dovrebbe facilitare la quotazione di molte altri titoli “tecnologici“ (che potrebbero trovare nei primi la loro pietra di paragone) a aiutarli a superare l’ostacolo della diffidenza del mercato.

LA STRATEGIA DI UN INTERO PAESE

Dietro tutto questo movimento si può tuttavia individuare chiaramente una tendenza di fondo ma anche la strategia di un intero Paese: l’America resta la maggior fucina mondiale di nuovi modelli di business, di nuove avventure e intraprese e in definitiva di creazione di nuova ricchezza. E senza renderne liquidi e arcinoti i relativi titoli azionari e mettere tutto ciò in vetrina dei listini di Wall Street, il resto del mondo potrebbe anche far finta di non saperlo!

Stefano di Tommaso