IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

Esiste una “nuova Cina” dove la realtà può ampiamente superare l’immaginazione, al limitare della rivoluzione maoista con le più ardite fantasie del capitalismo più sfrenato, il cui paradigma socio-economico è forse ancora più difficile da assimilare per noi occidentali del Vecchio Continente di quanto possa esserlo la California della Silicon Valley.

 

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.
È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.


Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo)!

Stefano di Tommaso




COSA SUCCEDE AL SISTEMA BANCARIO ITALIANO?

Il discorso di insediamento del nuovo presidente del consiglio dei ministri non è piaciuto ai mercati finanziari. Lo spread tra i titoli decennali tedeschi e quelli italiani si è avvicinato a quota 240 punti e la borsa ne ha sofferto, ma soprattutto sono finite sugli scudi le banche italiane, detentrici di una buona quota dei titoli del debito pubblico in circolazione.

Stavamo subendo ancora L’onda lunga del panico creato dallo stop del presidente della repubblica ad un nuovo governo giudicato troppo in contrasto con i diktat dell’Unione Europea, che aveva mosso le agenzie di rating sui timori che la situazione generale potesse evolvere negativamente sulle orme di quanto successo in Grecia in precedenza.


IL DISCORSO DI CONTE

 

Ma fino all’altro ieri si poteva biasimare quasi solo Mattarella per aver instillato quei timori, alimentando il circolo vizioso della svendita dei titoli di stato da parte degli investitori esteri che alimenta lo spread e fa calare le quotazioni delle banche italiane le quali a loro volta diventano le prime venditrici nette di titoli onde evitare di essere considerate a rischio. Ieri pomeriggio invece, dopo l’autocelebrazione del nuovo Governo in Parlamento, ecco riemergere sui mercati finanziari forti dubbi sulla possibilità che la maggior spesa pubblica ipotizzata da Conte nel suo discorso possa davvero instaurare un processo di crescita economica tale da controbilanciare il maggior deficit che ne può discendere.

Purtroppo il discorso di Conte non ha tenuto in debita considerazione le esigenze di chiarezza dei mercati finanziari, di precisazione degli orizzonti temporali e delle concrete previsioni che possono discendere dalle manovre un po’ vagamente annunciate. Un errore di inesperienza che però rischia di costare caro al sistema-paese. Se da una parte c’è la volontà di non subire i ricatti dei mercati finanziari, dall’altra non si possono commettere simili ingenuità: se Conte invece che presidente del Consiglio dei Ministri fosse divenuto presidente di una società quotata, con quell’allocuzione forse i suoi azionisti ne avrebbero già chiesto le dimissioni !

Uno studio di Morgan Stanley in proposito mette in triste evidenza i possibili danni al nostro Paese in caso di innalzamento dei tassi di interesse (ad oggi tenuti artificialmente bassi grazie al Quantitative Easing della Banca Centrale Europea):


IL SISTEMA BANCARIO NAZIONALE È A RISCHIO

Chi tuttavia sino ad oggi ne ha pagato di più le conseguenze sono state le banche italiane. Principalmente perché l’ammontare dei titoli di stato detenuti spesso supera il loro patrimonio netto, ma anche per altri motivi, dal momento che le perdite in conto capitale su quei titoli potrebbero spingerle a rimandare il completamento della pulizia di bilancio sui “crediti non performing” che ancora contano per circa il 10% del totale in portafoglio (pulizia che comporta -ogni volta che la si fa- la registrazione di una perdita in conto capitale).




ALLA RICERCA DELL’EFFICIENZA

Il fenomeno è divenuto nel suo complesso così vistoso che c’è da chiedersi se, a sua volta, non determinerà altri effetti a catena, e accade proprio nel momento in cui le prime 14 banche italiane stavano iniziando a sperimentare la possibilità di affidare la sicurezza delle proprie transazioni alla tecnologia del Blockchain, il cui principale vantaggio risiede nel “non dipendere da un unico soggetto centrale” (leggi: le banche centrali). Quasi una prova tecnica di negoziazione dei famigerati Minibot! Ufficialmente le sperimentazioni spaziano dalla digital identity, alla gestione dei bandi di gara, alle piattaforme di donazioni e ai pagamenti internazionali.

Del resto più in generale il fintech (la tecnologia digitale applicata agli intermediari finanziari) sta erodendo quote di mercato agli operatori tradizionali, e spinge il mondo bancario ad autoimporsi una vera e propria rivoluzione, alla ricerca di una maggior efficienza nei costi e di nuove frontiere dove ottenere quei margini che altrove vengono erosi. Ma la strada è molto lunga e al momento è stata appena imboccata, e riguarda l’intero comparto europeo, quasi senza esclusioni.


Bank of America-Merrill Lynch, con un report intitolato “Bye bye Euro? Downgrading the banks”, taglia i target price sulle quattro principali banche italiane, mentre Mediobanca, resta l’unica con giudizio buy. Banco Bpm è stato ridotto da neutral a underperform con prezzo obiettivo da 3,5 a 2,2 euro, Intesa Sanpaolo da buy a neutral (da 3,6 a 3 euro),Ubi Banca da neutral a underperform (da 4,5 a 2,9 euro), Unicreditda buy a neutral (da 21 a 16 euro).

Tutto questo sebbene il medesimo studio faccia notare quanto negli ultimi sette anni sia cresciuta la loro capitalizzazione e anche la loro efficienza operativa.

Probabilmente questo percorso virtuoso andava imboccato con largo anticipo, invece di pensarci adesso che rischia di essere troppo tardi. Ma se il Governo del paese non rispolvera presto quel sanissimo quanto desueto concetto di “concertazione” tra le parti economiche e sociali, allora è possibile che il grilletto della nuova recessione verrà tirato proprio dal sistema bancario!

 

Stefano di Tommaso




IL PASTICCIO DEL PRESIDENTE

Tutti ricordano l’incomprensibile diniego del Presidente della Repubblica al ruolo del professor Paolo Savona quale ministro dell’economia, ma pochi conoscono i veri retroscena che pare abbiano movimentato il dibattito sulla nascita del nuovo governo, definito dalla maggioranza delle testate estere “populista”.

 

Eppure dubbi posti dal Professore sull’attuale impostazione del sistema della Moneta Unica sono noti da più di un decennio e più o meno universalmente condivisi dalla maggioranza dei commentatori internazionali: non è l’Euro da mettere in discussione bensì gli accordi che vi sono dietro. Allora come risolvere questa apparente discrasia? Così come fu a suo tempo per l’instaurazione della Moneta Unica, anche per l’eventuale revisione dei meccanismi ad essa collegati, non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

LA PROPOSTA DEI MINIBOT

Nel nostro Paese poco si è parlato di un’iniziativa -quella del Minibot- che provava ad ovviare al fatto che la Pubblica Amministrazione, a causa dei suoi cospicui ritardi nei pagamenti al settore privato, deve mediamente ai cittadini e alle imprese oltre 130 miliardi di euro. Ipotizzare di “cartolarizzare” almeno per una metà (si parlava di 60 miliardi) questo credito della “gente” sembrava una buona idea e un modo per semplificarne la comprensione e l’accettazione era quello di farli emettere in titoli di piccolo taglio (da 100 a 25mila euro), di lasciarli privi di interessi e di permettere di usarli per pagare le tasse. Ma proprio su queste caratteristiche accessorie si è infranta l’iniziativa, che ha finito per allarmare i mercati finanziari ed essere associata alla figura di Paolo Savona.

Se essa infatti non si fosse connotata come emissione di moneta parallela nessuno avrebbe avuto da obiettare: chi ha crediti con la P.A. può ottenere in cambio dei titoli e cercare di smerciarli ad altri. Chi comprerà quei titoli sa che il pagatore ultimo è lo Stato (il cui debito totale verso il resto del mondo rimane il medesimo) mentre la liquidità per comprarli arriva dagli acquirenti, non dallo Stato, che dunque non emette moneta. Facile e indolore in apparenza, no?

SCANDALO!

E invece l’iniziativa, inserita nel “contratto” tra Lega e 5 Stelle, è stata letta come uno scandalo: se lo Stato scambia il suo debito verso coloro che devono ricevere i suoi pagamenti allora sta emettendo propria moneta al di fuori del circuito dell’Euro e dell’ègida della Banca Centrale Europea! Ma perché? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alla premessa : non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

Il fatto che il professor Savona sia da più di un decennio un fervido entusiasta della Blockchain (il meccanismo di crittografia che assicura le transazioni tra detentori di moneta elettronica come il Bitcoin) e il più volte minacciato abbandono dell’Euro da parte di coloro che lo volevano Ministro dell’Economia, che sono i medesimi a proporre i Minibot, hanno probabilmente fatto la differenza: l’Italia poteva approfittare dell’occasione per emettere i Minibot sotto forma di criptovaluta e, in questo modo, avviare un meccanismo di divisa valutaria parallela all’Euro e al di fuori dei sistemi di pagamento delle banche (che sarebbero state dunque penalizzate dal non esserne intermediarie).

MATTARELLA HA SUONATO INOPPORTUNAMENTE IL TAM-TAM

Ecco allora che il numero di coloro che hanno percepito puzza di bruciato in quell’iniziativa si è allargato a dismisura. Ed ecco che i mezzi d’informazione si sono attivati nel classificarla come un pericolo, mentre agli occhi della comunità europea le idee della Lega non sono mai apparse particolarmente favorevoli e la sua autorevolezza doveva necessariamente essere messa in discussione. Difficile invece commentare il ruolo del Presidente: come abbia potuto prestarsi a tenere sponda ad un teorema tutto da dimostrare è cosa che valuteranno i posteri. Ma già a pochi giorni di distanza da quanto è successo e alla luce del fatto che il governo Lega-5Stelle è nato ugualmente, appare chiaro come quello di Mattarella sia stato un clamoroso errore. (Nel grafico: l’impennata dello Spread)


È possibile che i minibot non arriveranno mai nelle tasche degli italiani, e tuttavia il loro semplice annuncio, con quell’inopportuno annuncio televisivo, ha avuto effetti esplosivi. Vista come una discussione sulla possibilità di lanciare una moneta sovrana parallela, la diatriba sui Minibot e quella su un mancato ministro dell’economia che oggi viene ingiustamente classificato come il capitano del partito No-Euro (ci ha scritto un libro per spiegarlo), ha aumentato il costo della fiducia riconosciuta al nostro Paese, e questo si è tradotto in un aumento dello spread nonché nell’accensione di grandi fanali di attenzione verso il nostro debito pubblico. A pochi mesi dalla chiusura dell’ombrello della BCE sulle emissioni di titoli di Stato e con il rischio di un abbassamento del rating il pasticcio è fatto.

LA CONFERMA DELL’ERRORE

La conferma dell’errore è poi arrivata quando, a governo fatto, si è visto che lo spread è ridisceso (a conferma del fatto che prima di biasimare una nuova coalizione, sarebbe meglio vederla all’opera) sebbene non sia più tornato al livello precedente. Il caso di Pandora si è oramai rotto e c’è da giurare che una serie di altri fulmini cadranno sulla credibilità del Bel Paese proprio mentre cercavamo un rilancio e a ridosso di un brusco rallentamento della nostra produzione industriale, che non può che allargare i dubbi di chi ci deve attribuire un rating. Quante manovre economiche serviranno a questo governo per riportarsi sulla credibilità che avrebbe potuto avere in partenza?


Ne valeva la pena? No, signor Presidente, a meno che il suo obiettivo non fosse opposto a quello da Lei dichiarato a reti unificate: di “salvaguardare i risparmi degli Italiani”!

Stefano di Tommaso




CHE FINE HA FATTO LA CURVA DI PHILLIPS?

Per la teoria economica la curva di Phillips, dalla sua formulazione iniziale (1958) in avanti, non era mai stata messa in discussione sino a qualche mese fa. Teorie come quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. Oggi sembra accadere l’opposto della stagflazione: l’economia cresce ma con bassa inflazione.

 


Ma la teoria del livello naturale di disoccupazione, che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo, nasceva dalla considerazione che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Tutto sta nel comprendere se esiste un tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU), cosa oggi messa in discussione dai fatti. Sembrava a tutti una grande ovvietà il fatto che esista un meccanismo di azione e reazione degli eventi economici che crea una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione dei prezzi: vediamo il perché. IL CONCETTO SOTTOSTANTE Se la disoccupazione scende vuol dire che la domanda di lavoro (quella delle imprese che assumono personale) sale più dell’offerta di lavoro (quella di chi cerca un impiego). Ma se la domanda di un bene o un servizio supera l’offerta allora si creano le condizioni perché possa salire il prezzo di quel bene o quel servizio. In caso di crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese si può dunque ritenere che la relativa retribuzione possa incrementarsi, con l’ovvio limite che quest’ultima dipende ovviamente anche da altri fattori (la disoccupazione pre-esistente, la precarietà del lavoro stesso e gli oneri sociali che si sommano al costo del lavoro). In un mondo normale la tendenza ad un incremento dei salari porterebbe ad una crescita dei consumi e, in ultima analisi, ad una risalita dei prezzi della maggior parte dei beni e servizi, come diretta conseguenza dell’incremento dei consumi. Ma quello in cui stiamo vivendo oggi evidentemente non funziona più così: con la ripresa economica che un po’ in tutto il pianeta si è manifestata negli ultimi anni la disoccupazione è scesa, i consumi sono tornati a crescere, ma lo stesso non è accaduto ai prezzi della maggior parte di beni e servizi ricompresi nel “paniere” statistico con il quale si misurava l’inflazione. LE RAGIONI DELLA MANCATA FIAMMATA INFLAZIONISTICA  Le ragioni di tale vistoso fenomeno di “decoupling” tra occupazione e inflazione sono incerte e altresì probabilmente numerose ed eterogenee: – dall’incremento del commercio elettronico che permette a chiunque, con un semplice “clic” sul telefonino, di acquistare beni e servizi provenienti dall’altra parte del mondo (e in particolare dai cosiddetti “Paesi Emergenti”, dove la manodopera costa molto meno e dove la sovracapacità produttiva è ampia),

– alla disponibilità di posti di lavoro temporanei e/o precari, che costringe il lavoratore ad accantonare parte di quanto guadagna per i momenti in cui sarà disoccupato, rimandando la spesa per consumi a tempi migliori,

– per passare poi alla riduzione della copertura sanitaria e previdenziale da parte dello Stato, che orienta il denaro guadagnato dal lavoratore verso capitoli di spesa (sanità e assicurazioni private) che in precedenza erano coperti dalla mano pubblica,

 – fino a tenere conto del crescente grado di automazione della produzione e dei servizi, che ne ha spesso calmierato il costo. Un minimo l’inflazione si è vista a causa della forte impennata dei prezzi delle materie prime, per la massiparte espressi in Dollari che di recente si sono rivalutati, e segnatamente quello del Petrolio, quasi raddoppiato in due anni, ma in un’economia globale sempre più digitalizzata questo fattore conta progressivamente di meno, tant’è che l’inflazione non è cresciuta proporzionalmente. Ma soprattutto l’inflazione non ha affatto risentito della maggior occupazione e della (relativa) ripresa dei consumi. IL CASO DEL GIAPPONE  Un po’ in tutto il mondo è dunque oramai acclarato che la disoccupazione scende ma l’inflazione non riparte, in particolar modo negli Stati Uniti d’America ma con punte quasi parossistiche come in Giappone dove la banca centrale ha immesso una montagna di liquidità acquisendo quasi il 90% dei titoli del debito pubblico nazionale, giunto a livelli record:


In altri tempi e in altri luoghi ciò avrebbe scatenato l’inflazione ma in Giappone invece l’economia è cresciuta l’anno scorso di quasi il 2% e, misurata con parametri diversi dall’inflazione e tenuto conto della specificità di quel Paese, essa tende non solo a crescere ma addirittura a surriscaldarsi. Ciononostante l’inflazione non si manifesta quasi. Si vedano i due grafici qui riportati (dove si vede un tasso di disoccupazione tornato ai livelli di vent’anni addietro):

 

E questo accade in un Paese dove la percentuale di occupati sul totale della popolazione è tra i più alti del mondo: in Giappone lavorano quasi 67 milioni di persone su un oltre 127 milioni: quasi il 53% mentre in italia siamo a poco più di 23 milioni di occupati su una popolazione di poco più di 59 milioni, pari al 39%. IL GIAPPONE E’UN POSSIBILE PRECURSORE  Il caso giapponese potrebbe aver solo anticipato la tendenza che magari si svilupperà anche negli altri paesi OCSE, con il rischio tuttavia che la mancata crescita dell’inflazione alimenti la bolla speculativa dei valori mobiliari e immobiliari (con tutti i rischi che ne conseguono) , stante anche la progressione della concentrazione della ricchezza in poche forti mani.

Probabilmente l’attuale inconsistenza dell Curva di Phillips corrisponde ad un progressivo impoverimento dei ceti più bassi della popolazione dei paesi più sviluppati, ma questo fatto, come dimostra il colossale lavoro di ricerca di Thomas Piketty è ancora difficile da dimostrare.

 

Stefano di Tommaso