IL MESSAGGIO DEI MERCATI A TRUMP E FED

Fino al gennaio scorso la narrazione dei commentatori di tutto il mondo sembrava inequivocabilmente e stabilmente positiva: nonostante l’inflazione non si manifesti e i tassi d’interesse restino sostanzialmente bassi, la crescita economica globale stava incrementando il suo passo e questo non poteva che migliorare le prospettive per gli utili delle aziende americane, prospettive che sono alla base degli attuali livelli (stratosferici) delle valutazioni implicite nelle quotazioni delle borse valori (Wall Street e Nasdaq).
Il discorso non era proprio uguale per le altre borse, cresciute senza dubbio molto meno di quelle americane, ma in compenso le loro prospettive -almeno quelle europee- restavano anche più rosee.

 

Poi sono cominciati numerosi sussulti geo-politici, a partire dai primi segnali di una vera e propria guerra commerciale tra America e Cina, cui hanno fatto seguito altrettante oscillazioni delle borse di tutto il mondo le quali hanno riportato in forte ripresa l’indice della volatilità dei mercati borsistici, giunto ai nuovi massimi dell’anno, gli stessi toccati all’inizio di Febbraio, (VIX, detto anche “l’indice della paura”: vedi qui sotto).

LE PROSPETTIVE RESTAVANO BUONE

Tutti i commentatori ne avevano -correttamente- dedotto che i bei tempi in cui le borse che continuavano a crescere mentre la loro volatilità toccava nuovi minimi erano forse andati per sempre. Ciò nonostante quasi nessuno fino alla settimana scorsa aveva ancora preso sul serio la possibilità che i mercati finanziari potessero non solo avere aumentato la loro volatilità, ma anche essere giunti all’inizio di un percorso di discesa generale delle quotazioni, le cui avvisaglie registrate sino a quel momento non lasciavano ancora presagire importanti inversioni di tendenza.

Le prospettive di crescita dei profitti aziendali restavano infatti ancora positive, così come la crescita economica globale non ha fino ad oggi mostrato rallentamenti. Dunque non sembravano ancora esistere -tecnicamente parlando-  le condizioni perché potesse invertirsi la tendenza di fondo che ha sino a ieri animato i rialzi dei mercati finanziari negli ultimi anni.

LA SOPRAVVALUTAZIONE DI WALL STREET

Si veda tuttavia in proposito qui sotto il grafico fornito dall’Economist di questa settimana dell’indice CAPE (quello del rapporto medio prezzo/utili dell’indice della borsa americana ponderato sulla base della media mobile dei profitti degli ultimi dieci anni), pubblicato periodicamente dal gruppo del premio Nobel Robert Shiller per indicare l’andamento del rapporto prezzo/utili una volta smussare le valutazioni implicite espresse da Wall Street sulla base dell’andamento degli utili (se continuano a crescere abbassano il CAPE).

Dal grafico si legge bene che una settimana fa il rapporto tra l’indice SP500 e la media mobile a 10 anni degli utili delle aziende che ne fanno parte era arrivato quasi a 33volte, chiaramente un nuovo massimo, ai livelli della crisi del 1929 e poco sotto quelli dello scoppio della bolla della “New Economy”. Tanto per fornire una comparazione, quello della borsa canadese viaggia a 20volte, quello di Francoforte a 19volte e quello della borsa di Londra a 14volte.  Dunque Wall Street ha fatto molta più strada di tante altre borse, come si può vedere dell’indice cumulato delle borse europee qui sotto riportato (precipitato già a Gennaio e sceso ogni volta a nuovi minimi per ben due volte a Marzo:

GLI ELEMENTI DI “ATTENZIONE” DA PARTE DEGLI INVESTITORI

Se però fino alla settimana scorsa i principali investitori sui mercati borsistici globali restavano ancora moderatamente ottimisti, la loro prudenza era divenuta maggiore che non in passato, a causa della presa d’atto di numerosi fattori d‘ attenzione, quali:

– la maggior volatilità che avrebbe contraddistinto l’anno in corso,
 – la presumibile riduzione della liquidità in circolazione a causa della progressiva riduzione degli stimoli monetari introdotti dalle banche centrali,
 – la prospettiva di incremento dei tassi di interesse,
 – Il crescente costo di petrolio e energia, che fa temere un risveglio dell’inflazione,
 – la prospettiva di un generale ridimensionamento delle quotazioni dei principali titoli “tecnologici”, la cui capitalizzazione complessiva incide non poco sulla composizione degli indici delle principali borse americane e asiatiche,
 – la possibilità che il ciclo economico positivo sia giunto al momento di inversione.

Ecco al riguardo alcuni grafici:


Poi è arrivata l’ennesima manovra protezionista del presidente Trump, che ha generato il maggiore “sell-off” degli ultimi tempi delle borse americane, più intenso e violento del solito, con il quale sono stati interamente cancellati i guadagni registrati sino ad oggi nell’intera prima parte del 2018.

I “TIMORI” GEO-POLITICI

Contemporaneamente sono anche discese le quotazioni di numerose “commodities” (materie prime e derrate agricole) ed è invece ulteriormente salito il prezzo del petrolio, il primo di solito a prendere un balzo quando iniziano a fischiare venti di guerra o prospettive di disordine internazionale, che -indubbiamente- si sono manifestate al riguardo di:

 – timori di una guerra commerciale tra USA e Cina
 – Ipotesi di confronti più serrati sulle politiche commerciali con l’Europa
 – possibili nuove tensioni in Medio Oriente, e in particolare in Siria, dove la tensione con i paesi come l’Iran, storicamente collegati alla Federazione Russa sembra accrescersi giorno dopo giorno
 – ancora incerte prospettive sul confronto militare con la Corea del Nord
 – ulteriori tensioni commerciali con Messico e altri paesi americani aderenti al NAFTA.

Ecco un grafico che spiega i timori di Wall Street per una guerra commerciale:

IL ROVESCIAMENTO DELLE ASPETTATIVE

Alla fine della settimana scorsa quindi, dopo una delle peggiori settimane finanziarie di sempre,  i pareri degli investitori istituzionali e professionali hanno iniziato a cambiare, alcune loro certezze sono venute a mancare e le prospettive di proseguire la precedente direzione di rotta nella navigazione, seppur attraverso mari più increspati dalla crescente volatilità, sembrano alla fine infrangersi quando si sommano così tanti fattori di incertezza.

Per completare il quadro generale occorre ricordare che una crescita economica a pieno regime è contemplata tra le ipotesi fortemente necessarie perché gli attuali livelli di debito complessivo (privato e pubblico) siano compatibili con le prospettive di crescita dell’economia globale che sino a ieri erano tracciate dalla maggior parte degli economisti.

Il fatto che i mercati però stanno perdendo la loro fiducia, basata sino a ieri sulle aspettative di crescita economica globale, lo si può leggere dal fatto che negli ultimi giorni persino i titoli a reddito fisso vengono venduti per detenere liquidità o altri beni-rifugio, prendendo atto del sommarsi di un po’ troppe questioni economiche e geo-politiche che potrebbero congiurare tutte insieme per invertire lo scenario incantato che si era registrato in precedenza, proprio mentre la Federal Reserve (la Banca Centrale americana) sembra invece testardamente intenzionata a proseguire con il rialzo dei tassi e la cessione dei numerosi titoli acquisiti in portafoglio ai tempi del Quntitative Easing.

Si è detto che spesso le recessioni (o comunque le inversioni del ciclo economico) deflagrano a causa della scintilla delle politiche restrittive delle banche centrali, inultimente o tardivamente preoccupate per la possibilità che rispunti l’inflazione. Questa volta potrebbe essere assai poco diverso: a questo punto della storia i mercati sembrano non avere molto altro spazio per continuare a correre ancora, e le banche centrali (soprattutto quella americana, che è sempre anni avanti alle altre nella politica monetaria) farebbero bene a tenerne conto, vista la dimostrata forte influenza che le quotazioni dei mercati possono avere sull’economia reale.

Stefano di Tommaso




QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso




LE BORSE SONO SOPRAVVALUTATE? (seguito articolo precedente)

Le considerazioni qualitative fatte nell’articolo precedente (tassi di interesse bassi, crescita economica dei paesi emergenti e loro demografia, miglioramento dei profitti aziendali e maggior incidenza dei titoli tecnologici sul paniere dei listini di borsa) portano a pensare che nell’osservare gli sviluppi dei mercati azionari ci si trovi di fronte ad un cambiamento di paradigma nel valutare le aziende, quantomeno quelle che corrono di più. Difficile però generalizzare, dal momento che queste ultime non sono equamente distribuite in tutte le Borse e che anzi, le altre (quelle operanti sui mercati più maturi) possano per lo stesso motivo avere vita sempre più dura.

 

I LISTINI CRESCONO DI PIÙ DOVE CI SONO TITOLI TECNOLOGICI

Wall Street corre anche perché sul totale di quel listino è più elevato il “peso” percentuale dei titoli tecnologici -quelli che oggi sviluppano la maggior capitalizzazione- i quali evidentemente godono di valutazioni molto superiori al normale.

Amazon ad esempio, come si può dedurre dai due grafici qui riportati, venerdì scorso capitalizzava 629 miliardi di dollari con un prezzo dell’azione giunto a 1300 dollari, ma secondo alcuni analisti potrebbe valere quasi l’8% in più (1400 dollari), perché il prezzo obiettivo precedente, di 1200 dollari, non solo è stato superato dai fatti, ma implicava un moltiplicatore dell’EBITDA (margine operativo lordo) di appena 15 volte, mentre quello corretto (atteso per il 2019) si situerebbe intorno a 18 volte.


Qual è la ratio? Ovviamente quella della velocità di crescita degli utili, che per Amazon tende a situarsi intorno al 33% e dunque al di sopra della media di mercato ma anche di quella degli altri cosiddetti FANG (Facebook 28%, Amazon 33%, Netflix30% Google 17%). Ma quanto varrebbe Amazon senza le aspettative di crescita al 33% composto annuo dei suoi profitti? Probabilmente neanche i due terzi di quel numero.


COSA SE NE PUÒ DEDURRE REGIONE PER REGIONE

Dalle osservazioni riportate derivano perciò molte considerazioni pratiche:

  • non è possibile generalizzare circa la sostenibilità degli attuali livelli delle borse perché molto dipende dalla qualità dei titoli che ne compongono gli indici;
  • anzi possiamo immaginare che la selettività degli investitori sulla qualità dei singoli titoli quotati possa soltanto accrescersi nel tempo, accentuando anche -probabilmente- le differenze tra listino e listino;
  • la volatilità dei corsi tuttavia non è pensabile che si mantenga così bassa in eterno, soprattutto pensando a quanta parte delle valutazioni dei migliori titoli tecnologici dipende dal realizzarsi delle attese (un piccolo scostamento tendenziale può determinare una forte differenza di valore);
  • la periodica rotazione dei portafogli degli investitori nel corso del 2017 non ha quasi dato luogo a “sell-out” diffusi, anzi: possiamo affermare che non c’è quasi stata, data la scarsa appetibilità delle asset class alternative, ma neanche qui possiamo scommettere che la situazione non cambi;

AMERICA

Difficile dedurne elementi di pessimismo per i listini Americani (Wall Street e NASDAQ), visto che la corsa delle maggiori società tecnologiche americane non accenna a fermarsi e che questo fatto attira capitali sui mercati finanziari più liquidi del mondo.

Dal momento tuttavia che una buona parte dei guadagni in conto capitale si materializzano quando la liquidità è abbondante, bisogna anche chiedersi come questa cambierà nel corso del prossimo anno prima di emettere un giudizio che derivi esclusivamente dalle considerazioni sopra esposte.

Se la Federal Reserve contrarrà (come ha promesso) la liquidità disponibile sul mercato per contrastare sul nascere i possibili focolai di inflazione, allora saranno soltanto la generazione di cassa fresca delle imprese e i flussi di capitali in entrata a poter sorreggere le borse, buona parte dell’effetto dei quali è già tuttavia risucchiato dal deficit commerciale strutturale americano.

I mercati temono poi l’eventualità che il Presidente emarginato o addirittura rimosso per motivo di salute mentale. Non è una cosa molto probabile, ma grandi forze si stanno commentando nel disegno e, se dovessero farcela, le aspettative di riduzione delle tasse andrebbero in fumo, così come una bella parte della capitalizzazione delle borse.

EUROPA

In Europa ci sono pochi titoli tecnologici quotati in borsa (se escludiamo il Regno Unito), ma le aspettative sulla crescita dei consumi e l’elevata immissione di liquidità (tutt’ora in corso) da parte delle banche centrali ha favorito i listini azionari, mentre due fattori li hanno invece penalizzati (seppur meno che proporzionalmente) : il cambio dell’Euro contro Dollaro e la crescita della bolletta energetica.

Se da un lato non ci si attende né che il Dollaro continui a svalutarsi contro Euro e nemmeno che il prezzo del petrolio continui a salire, dall’altro lato la Banca Centrale Europea ha chiaramente lasciato intendere che non proseguirà in eterno con il Quantitative Easing. Dunque dal punto di vista strutturale non si materializza un’aspettativa per l’Europa di forti crescite delle proprie borse. Qualora tuttavia il piano Macron per l’Europa dovesse trasformarsi in realtà allora sicuramente le borse accompagnerebbero l’accresciuto livello di fiducia degli investitori.

ASIA

In Asia il discorso è diverso, ma più difficile è dedurne una chiara indicazione: la crescita economica, quella dei consumi, dell’industria locale e dei commerci fa da traino al resto del mondo e continuerà probabilmente ancora a lungo a farlo. Le borse non possono che celebrare questo momento dorato e dunque corrono, unitamente alla crescita progressiva del risparmio gestito e della percentuale di quest’ultimo che finisce sui mercati mobiliari.

Ma l’instabilità finanziaria della Cina e, conseguentemente, di molti altri Paesi emergenti limitrofi continua ad aumentare e non è possibile non tenerne conto.

Quanto peserà perciò il rischio finanziario sulle aspettative degli investitori? Quali probabilità ci sono che potrà trasformarsi in panico e conseguenti vendite generalizzate di titoli e valute locali ? Poche, in assoluto, ma non zero.

CONCLUSIONI E CIGNI NERI (O BIANCHI) ALL’ORIZZONTE

L’indagine sulla sopravvalutazione delle Borse non ha portato a grandi motivi per ritenerle semplici vittime di bolle speculative ed eccessi di liquidità, anzi: abbiamo trovato motivi relativamente validi per ritenere che esista una giustificazione razionale ai livelli raggiunti. Non possiamo tuttavia affermare che dal punto di vista macroeconomico esistano altrettante giustificazioni razionali alle attese di ulteriori, mirabolanti impennate dei listini di Borsa, in nessuna parte del mondo.

Esiste in realtà una forza potente che potrebbe scatenare la prossima volata delle borse, che è l’avvio delle prime applicazioni commerciali dell’intelligenza artificiale. Ma bisogna vedere se, quando arriverà, tale forza non dovrà scontrarsi con altri problemi delle borse, ad esempio la mancata tempestiva monetizzazione del debito pubblico globale.

IL POSSIBILE RITORNO DELLO “STOCK PICKING” E DEI TITOLI “VALUE”

La morale delle morali è però tutt’altra: se è difficile generalizzare e formulare previsioni attendibili sui listini globali (dato che dipendono da troppe variabili) è però ipotizzabile che, dopo la grande abbuffata, gli investitori torneranno a optare per un maggior rigore nella selezione dei titoli e che tra questi sceglieranno soprattutto quelli “value” (meno ciclici e con un maggior contenuto di valore intrinseco). Ed è probabilmente lì che potranno realizzarsi buone performances a prescindere da ciò che avviene a livello planetario, soprattutto qualora a tale livello non succederà proprio alcunché.

Stefano di Tommaso




SORPRESA! L’ECONOMIA GLOBALE CRESCE PIÙ DEL PREVISTO

Nell’anno che si è appena concluso il Financial Times stima che la crescita economica mondiale possa essere arrivata al 5% annuo, un ritmo doppio rispetto agli anni 2015-2016 e che non si vedeva dal secolo scorso. Sino a pochi mesi fa nessuno lo aveva previsto e ancora oggi molte testate internazionali (come l’Economist, ad esempio) fanno fatica ad ammetterlo.

Parliamoci chiaro, per molti commentatori è come se ciò corrispondesse alla sconfitta politica degli avversari della Brexit, del Trumpismo e del nuovo corso politico di Francia, Cina, India e Giappone, in barba a quelli che fino a ieri tifavano per il partito della guerra, per l’esplosione del terrorismo internazionale, per l’invasione indiscriminata dei migranti in Europa e per la destabilizzazione di Medio e Estremo Oriente. C’erano evidentemente forti interessi privati a destabilizzare il pianeta che, per qualche motivo, sono stati disattesi, e un esercito di pennivendoli pronti a fornirne una giustificazione razionale.

Il mondo sembra invece essere giunto a una svolta radicale negli ultimi mesi, ancorché essa non sia stata riportata dai media, e dunque senza che se ne sia ancora percepita l’effettiva portata. Per ora ne parlano solo gli economisti e gli investitori, consci del fatto che qualcosa di eccezionale sta prendendo forma e tuttavia niente affatto sicuri della sua “durabilità”. Le borse dunque crescono, ma con estrema circospezione, mentre i money managers le seguono sempre più scettici, e continuano a cercare ogni forma possibile di copertura dal rischio di un ribaltone.

L’ANNO DEI RECORD

 

 

Certo il 2017 è stato l’anno dei record, non solo per l’ascesa costante del valore delle attività finanziarie di tutto il mondo, per la ripresa economica dei paesi emergenti che nessuno si aspettava e addirittura per la distensione geopolitica internazionale che si è riscontrata ex post, ma anche perché tra gli allarmi della Brexit che avrebbe dovuto danneggiare Gran Bretagna e intera Europa e l’elezione di Trump -il Presidente americano più contrastato dai media che la storia ricordi- i commentatori che facevano più notizia erano le cornacchie che suonavano campane a morto rispolverando fantasmi del passato come l’iper-inflazione che sarebbe seguíta agli stimoli monetari delle banche centrali, la stagnazione secolare cui saremmo dovuti precipitare in assenza di miglioramenti della produttività del lavoro (concetto coniato da Sanders nel 2013), o addirittura sperticandosi in previsioni apocalittiche di un nuovo poderoso crollo dei mercati finanziari (chi non ricorda gli allarmi lanciati prima da George Soros e poi da Ray Dalio) o addirittura l’eventualità che precipitassero a picco il prezzo del petrolio e il volume del commercio internazionale.

 

Inutile ricordare com’è andata: è successo l’esatto opposto a dir poco! Non solo, ma il grosso della crescita economica globale è provenuto dalle regioni asiatiche e da quelle più periferiche, senza esplosioni demografiche e in modo sincronico con la ripresa delle economie più avanzate! Ancora oggi La prima economia mondiale resta ancor oggi quella americana, ma se guardiamo invece ai valori espressi in base alla parità di potere

d’acquisto allora nel 2017 la Cina ha già superato gli Stati Uniti d’America.

I GRANDI TIMORI

Come sempre in questi casi non ci possono essere certezze di essere entrati in una nuova era di prosperità, anzi!

 

Ma cosa affermano allora (e anche con una certa autorevolezza) le cornacchie? Che il mondo sta sperimentando oggi una crescita pagata al carissimo prezzo dell’esplosione del debito globale, tanto privato quanto di stato, arrivato nel complesso alla mirabolante cifra di 233.000 miliardi di dollari, più che raddoppiato (+163.000 miliardi di dollari) rispetto a vent’anni prima. E che la fase aurea in cui ci troviamo potrebbe presto rovesciarsi con le strette monetarie e gli aumenti dei tassi d’interesse già avviati dalle banche centrali i cui effetti tuttavia non sono ancora manifesti. Dunque la fase in cui ci troviamo potrebbe essere fortemente ciclica e instabile perché basata su nuovi debiti.

Il timore è particolarmente evidente se osserviamo i debiti pubblici di Cina e America, che si stima siano arrivati entrambi a superare gli 11.500 miliardi di dollari (quello italiano, uno dei maggiori al mondo, è poco sopra i 2.200 miliardi), pur sempre un’inezia tuttavia, se si guarda anche all’escalation dei debiti privati. Timori fondati peraltro, se osserviamo le previsioni di ulteriori espansioni di tali debiti pubblici, in America a causa del taglio fiscale che ancora non è chiaro come sarà finanziato, e in Cina perché è l’apparato statale che sta sostenendo i numerosi casi di default delle amministrazioni locali.

GLI INVESTIMENTI TRAINANO LA CRESCITA

Sul fronte degli ottimisti tuttavia le cose non stanno poi così male perché, contrariamente ai sostenitori dell’illusione monetaria fornita dall’accresciuto valore delle attività finanziarie detenute dai privati (che potrebbero averli indotti ad una maggior spesa per consumi) quello che rilevano le statistiche invece è che il maggior contributo alla crescita economica non l’hanno fornito i consumi bensì gli investimenti, e che questi ultimi si sono rivolti principalmente alle nuove tecnologie, alla digitalizzazione e alla robotizzazione degli stabilimenti produttivi, mentre sono parallelamente calati (in termini relativi) gli investimenti rivolti allo sviluppo energetico.

Tutti fattori che dovrebbero congiurare per una crescita basata sul calo dei costi di produzione e sulla limitatezza dell’inflazione di risulta. Una tendenza che fa dunque ben sperare che il fenomeno della crescita del 2017 non sia soltanto un’anomalia statistica.

Stefano di Tommaso