LA MINI-RECESSIONE D’AUTUNNO

A partire dal terzo trimestre del 2018 l’economia italiana è andata evidentemente rallentando, vittima -dicono i media- della caduta di aspettative degli operatori economici conseguente al nuovo corso politico del Paese. Ma, nella furia della polemica politica, il “mainstream” (quel consesso di giornali e telegiornali che non sembra così politicamente indipendente e che “informa” l’uomo della strada a modo proprio) ha dimenticato di far notare che il rallentamento a casa nostra è stato accompagnato da quello di mezza Europa (compresa la Germania), del Giappone e di buona parte dei Paesi Emergenti (Cina inclusa).

 

Il fenomeno, vasto e profondo tanto nelle cause quanto nell’estensione geografica, è forse più opportuno osservarlo come una vera e propria mini-recessione che ha colpito il resto del mondo non-americano dopo che la Banca Centrale Americana (la Federal Reserve, detta anche FED) ha deciso di proseguire con i propri rialzi dei tassi e -soprattutto- con il riassorbimento di parte della liquidità immessa in precedenza: due elementi che hanno spedito al rialzo il Dollaro e fatto fuggire via dai Paesi Emergenti delle quantità importanti di denaro.

 

LE PREOCCUPAZIONI DEGLI OPERATORI ECONOMICI SI SONO SOMMATE AL CARO-DOLLARO

Ovviamente il fenomeno appena citato non poteva non colpire anche le borse valori, a partire da quelle europee, andando a togliere terreno sotto i piedi alla liquidità dei mercati e riversandola sul mercato americano. Forse è per questo che Wall Street ha in media performato meglio fino a Ottobre, sebbene il sentore generale degli operatori sia oramai da tempo in territorio negativo.

I mercati finanziari si preparano infatti da tempo al “taper tantrum” delle banche centrali (il ritorno alla normalità dopo la stagione -durata anni- delle facilitazioni monetarie), ma soprattutto si preparano all’arrivo, considerato inevitabile, della prossima recessione economica, dopo anni di espansione più o meno sincronizzata in tutto il mondo. Gli investitori profittano dunque di ogni possibile ondata speculativa (o anche di mere fluttuazioni giornaliere dei corsi) per ridurre la loro esposizione ai mercati azionari, contribuendo a ridurne gli entusiasmi.

LA VERA CAUSA DELLA CADUTA DEI CORSI A WALL STREET

Probabilmente la caduta dei corsi di Wall Street degli ultimi giorni va letta anche in questa chiave : una volta esaurita la liquidità in eccesso proveniente in America dal resto del mondo ecco che anche la borsa americana ha iniziato a flettere pericolosamente. È forse per questo motivo che -almeno a parole- l’atteggiamento della FED sembra nelle ultime ore essere cambiato: per timore di essere bollata come la responsabile della causa prima di un vero e proprio crollo dei corsi azionari.

Ma -come abbiamo visto poc’anzi- se da un lato la FED ha delle indubbie responsabilità circa la congiuntura globale in essere, pronta a scacciare un inesistente pericolo di eccessiva inflazione, dall’altro lato le sue responsabilità traggono origine da un comportamento che origina da almeno un anno e che è irresponsabilmente proseguito dopo l’estate con cieca determinazione o, peggio, scientemente, date le ingenti risorse che essa ha sempre profuso nella ricerca economica e nell’analisi dei mercati (per una volta però il coordinamento tra i banchieri centrali non s’è visto e, anzi, gli altri governatori hanno fatto il possibile per parare il colpo).


IL PROBLEMA DEL SOVRA-INDEBITAMENTO

Il punto critico però è che quanto accade può scatenare conseguenze ben più gravi della contrazione dei mercati borsistici se teniamo conto del fatto che -in particolare dopo la crisi economica del 2008-2009, i governi di praticamente tutto il pianeta si sono sovra-indebitati proprio mentre le loro economie frenavano, e che dunque una crisi di sfiducia sui mercati finanziari può comportare un problema ben più grande in termini di possibili bancarotte di stato, a partire evidentemente dai Paesi Emergenti.

Il vero rischio che il mondo corre con l’arrivo di una prossima recessione è proprio questo, con una situazione generale oggi aggravata dal fatto che la maggior parte dell’indebitamento delle nazioni più deboli è espresso in Dollari. Paradossalmente questo è anche il motivo per cui il consenso generale degli analisti è che le banche centrali non potranno mai permetterlo e che dunque interverranno per tempo, contribuendo a non lasciare affossare definitivamente i mercati finanziari.

Ma la mini-recessione d’autunno è stata dunque un’avvisaglia decisa e sonora di quel che può accadere se si distraggono i banchieri centrali, coloro che dovrebbe invece vigilare sulla tenuta dei valori fondamentali su cui si basano le economie di mercato (o peggio: se lo fanno apposta).

UN NUOVO PARADIGMA? MINI-RECESSIONI A MACCHIA DI LEOPARDO

Ed è forse anche il nuovo paradigma del probabile andamento futuro dell’economia: terminato il periodo storico (durato invero assai poco) di una crescita coordinata, diffusa e sincronizzata in tutto il mondo, stiamo probabilmente arrivando a sperimentare brevi e forse ripetuti periodi di decrescita o di assestamento, avviati a manifestarsi geograficamente a macchia di leopardo, sino a quando la sbornia dell’eccesso di liquidità degli anni passati non avrà smesso di far sentire i suoi effetti.

Se questo è possibile ecco che il Dollaro non potrà continuare a rivalutarsi così selvaggiamente (e insensatamente) come è sembrato voler fare fino a ieri, che il petrolio non continuerà a precipitare come si è visto nelle ultime settimane e che le borse non sono avviare ad un catastrofico collasso.

UNA RELATIVA STABILITÀ DEI MERCATI

È più probabile invece che l‘avvicendamento congiunturale che la mini-recessione d’autunno da cui siamo passati anche noi italiani sembra inaugurare, possa (paradossalmente appunto) risultare come un fenomeno metereologico limitato nel tempo e nello spazio, scongiurando così la prospettiva alternativa: quella di effetti catastrofici e voragini senza fine sui mercati borsistici.

Sempre che i banchieri centrali d’ora in avanti facciano più prontamente la loro parte, dal momento che “se la cantano e se la suonano”: prima hanno drogato i mercati con palate di denaro regalate alle banche in crisi sistemica e poi sono sembrati sordi e (forse troppo) risoluti nel fare marcia indietro sbandierando timori inflazionistici che alla prova dei fatti si sono rivelati delle chimere!

Stefano di Tommaso




IL RIPENSAMENTO DI DRAGHI

“L’inflazione di base dell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente… Il Consiglio (della Banca Centrale Europea) ha anche notato che le incertezze sono aumentate e dunque a dicembre, con le nuove previsioni disponibili, saremo più in grado di fare una piena valutazione”. Queste le parole del Governatore della BCE nell’ultima sua audizione (la settimana scorsa). Se di norma i banchieri centrali sono di poche parole ed amano essere interpretati come gli oracoli di un paio di millenni fa, questa volta invece Mario Draghi non ha lasciato spazio alle esegesi di quello che voleva dire ed è andato dritto al punto: l’inflazione non sembra continuare la sua corsa, ed è per questo che nell’euro-zona i tassi resteranno ancorati ai livelli attuali ancora per forse un anno (autunno 2019) e magari proseguiranno persino gli stimoli monetari (magari sotto altra forma).

 

Forse è anche per fugare dubbi di imparzialità che il banchiere centrale di origine italiana si è sentito di strigliare il governo del nostro Paese : non è per fare un piacere agli Stati (come l’Italia) che si ritrovano elevati spread perché deludono le aspettative dei mercati, che la BCE sta valutando se confermare le precedenti indicazioni relative alla propria politica monetaria (nel grafico qui sotto: l’andamento trimestrale del prodotto interno lordo italiano):


Bensì a causa di un primo dato di fatto: che l’inflazione che non cresce (abbastanza), e poi per un altro importantissimo elemento che Draghi non ha volutamente citato ma che tutti sanno avere pesato come un macigno nelle sue considerazioni: la mancata crescita del Prodotto Interno Lordo della Germania nel terzo trimestre 2018.

LA GERMANIA SI ACCODA A ITALIA E GIAPPONE NELLA MANCATA CRESCITA

Dopo che si era fermata in Giappone (sotto zero già da qualche mese: nel terzo trimestre il Prodotto interno lordo è sceso dello 0,3% sul trimestre precedente, pari a un -1,2% annualizzato) e si è azzerata in Italia essa è adesso a rischio anche nel resto dell’ Europa. Se un indizio non fa una prova (la mancata crescita dell’Italia nel medesimo periodo), due indizi invece si, dal momento che alla brusca frenata della crescita si è accodata anche la più importante economia della divisa unica europea (di seguito l’andamento trimestrale del prodotto interno lordo tedesco):


L’INFLAZIONE STA SMETTENDO DI CRESCERE

L’inflazione sta sicuramente smettendo di crescere (anche in America) e anzi, sino a ieri in Europa si era nutrita quasi esclusivamente delle conseguenze dei due grandi bradisismi in atto da tempo: il rialzo di petrolio e gas e la forza del Dollaro. Questi due fattori avevano infatti congiurato per un rialzo del costo delle materie prime e indotto la mini-fiammata inflazionistica che si era vista in estate.

Oggi almeno per il petrolio è giunto il momento dei ripensamenti mentre in molti prevedono che nemmeno il Dollaro proseguirà troppo a lunga la sua corsa perché a un certo punto il rialzo dei tassi americani diverrà non più sostenibile senza una crescita economica miracolosa (che invece sembra esserci solo in America e non per sempre). E così il prezzo delle materie prime al momento è in ribasso.

MA I TASSI DI INTERESSE CRESCERANNO UGUALMENTE

Se la guerra in atto tra America e Cina non produrrà altri danni forse la crescita economica tornerà a fare capolino anche nelle altre economie avanzate. Ciò nonostante per molti motivi i rialzi dei tassi di interesse nel migliore dei casi possiamo considerarli soltanto rinviati: non solo in America infatti le banche centrali ambiscono a recuperare anche su questo fronte capacità di manovra, dopo che per molti anni l’eccesso di debiti pubblici (mai rientrato) le ha costrette a renderli negativi o vicini allo zero. Senza contare le infinite pressioni per una loro risalita esercitate dal sistema bancario di cui esse sono garanti.

FIATO CORTO PER I LISTINI AZIONARI

Così se la crescita economica continuerà in America e farà da traino anche al resto del mondo, potremmo trovarci di nuovo in una situazione incantata di continuazione del super-ciclo economico globale, caratterizzata da ripresa dell’occupazione, bassa crescita e bassissima inflazione. Ma questo difficilmente si tradurrà in nuovi miracolosi rialzi azionari, dal momento che come minimo i mercati sconteranno ulteriori rialzi di tassi e il ritorno alla normalizzazione monetaria.

Quindi, al di là di sporadici possibili riprese dei corsi delle borse (un mini-rally di Natale lo auspicano i più), difficilmente questa possibilità significherebbe nuove corse indefinite delle borse valori (anzi: le valutazioni aziendali che ne sono alla base non potranno continuare a sperare in una crescita indefinita dei profitti) e data anche la maggior appetibilità per i risparmiatori che stanno riprendendo i titoli a reddito fisso.

IL RISCHIO AMERICA

È poi sempre possibile che la locomotiva economica americana rallenti la sua corsa (per esempio per l’instabilità politica che potrebbe derivare da un Presidente sempre più assediato) senza che quella asiatica riesca in tempo a sostituirne il traino. Questa possibilità ostacolerebbe le esportazioni europee (tutt’ora in grande smalto) e potrebbe lasciare in stallo le prospettive del vecchio continente senza che la crescita economica globale si fermi del tutto.

In tal caso la continuazione delle politiche espansive della BCE non basterebbero a far tornare il sole della crescita a splendere in Europa, ma soltanto ad impedire nuove crisi di panico relativamente ai debiti pubblici degli Stati membri.

Stefano di Tommaso




LA BOLLA SPECULATIVA DEI LEVERAGED LOANS

C’erano una volta le banche ordinarie. Quelle che traevano dall’erogazione del credito la loro principale fonte di sostentamento, raccogliendo depositi ad un tasso più basso di quello dei prestiti che concedevano. Negli anni questa figura è sostanzialmente cambiata per mille e una ragione e oggi le banche -anche quando ancora erogano prestiti in misura prevalente- in realtà guadagnano soprattutto da commissioni, intermediazioni e consulenza, vivendo il reddito che proviene dalla gestione del denaro in forma residuale e, soprattutto, erogando prestiti quasi soltanto a chi non ne ha bisogno (ovviamente a tassi poco interessanti).

 

IL PRIVATE DEBT

Il cosiddetto “private debt” non passa ovviamente soltanto dalle BDC ma anche da “fondi di debito” (che funzionano comunque come gli altri fondi di private equity e spesso sono amministrati dagli stessi soggetti), dai cosiddetti “private placements” (animati soprattutto da investitori istituzionali e quasi sempre rivolti a soggetti aziendali in grado di esibire un rating) e in generale da tutti coloro che possono permettersi di emettere “bond” (ovvero obbligazioni) e riuscire a piazzarli presso investitori di ogni sorta. Il mercato di riferimento del “private debt” è ovviamente quello delle fusioni e acquisizioni, spesso associate all’intervento di banche d’affari o, più frequentemente, di fondi di “private equity”. Quest’ultimo settore è stato stimato che in Ottobre sedesse su una liquidità superiore a 1.100 miliardi di dollari e che, ciò nonostante, il numero di operazioni completate nel mondo fosse pari a circa 1200, con un valore delle operazioni di buy-out completate alla fine di Ottobre superiore al 91% di tutte quelle del 2017 (cioè in forte crescita).

L’ECCESSO DI LEVA FINANZIARIA

Questa intensità (e forte disponibilità di capitali per nuove operazioni) si associa a valutazioni crescenti delle imprese oggetto di tali operazioni e a crescente richiesta di finanziamenti per l’acquisto in leva, con un fattore di leva in costante crescita (siamo arrivati ad una media di quasi 7 volte l’EBITDA: vale a dire poco meno del doppio di quanto si presume sia il limite fisiologico di tali operazioni e poco distanti dagli eccessi del 2007, poco prima della grande crisi).

LE “BUSINESS DEVELOPMENT COMPANIES”

Nei paesi anglosassoni però -caratterizzati da minore regolamentazione e minori vincoli burocratici- ad erogare credito ai soggetti economici meno solidi sono intervenuti altri attori: in particolare le cosiddette “Business Development Companies” (in sintesi: BDC), che hanno rispolverato la vecchia tradizione del credito basato sulla disamina della capacità individuale attingendo risorse non già ai depositi dei risparmiatori, bensì ad un mercato molto più vasto: quello dei capitali. I depositi bancari sono infatti una specie che non è ancora in via di estinzione (ma quantomeno di assottigliamento dei relativi volumi) anche a causa delle politiche di tassi quasi a zero praticate dalle banche centrali.

Mentre invece il mercato dei capitali è sempre più liquido e continuamente alla ricerca di nuove vie di impiego capaci di assicurare margini consistenti all’impiego delle proprie risorse liquide, anche scendendo a compromessi sulla relativa rischiosità. Il fenomeno delle BDC in America ha raggiunto il mirabolante volume di quasi 100 miliardi di dollari di prestiti erogati !

Le BDC sono sorte tuttavia principalmente in America, con la logica di andare a occupare uno spazio di mercato -quello dei “debiti a più alto rischio”- che è stato lasciato sostanzialmente libero dalle banche per tutti I motivi di cui sopra. I cosiddetti “leveraged loans” sono comparsi per tornare a far accedere al credito i soggetti piu marginali del mercato: magari quelli che hanno le migliori idee o le più acute competenze, ma sicuramente caratterizzati da scarsissima qualità del merito di credito e/o di patrimonio adeguato, oppure che intendono proporre operazioni estremamente rischiose per le quali i normali criteri di contabilizzazione del credito lascerebbero poco spazio alle banche ordinarie senza destare sospetti sulla loro affidabilità di lungo termine.

LA “PATATA BOLLENTE” DEI RISCHI SUL CREDITO PASSA DALLE BANCHE AI RISPARMIATORI

I leveraged loans hanno potuto godere inoltre dello sviluppo del mercato delle cartolarizzazioni, visto che le banche riescono con facilità a “impacchettare” queste obbligazioni e venderle a investitori del mercato dei capitali. In particolare c’è stata una notevole crescita delle collateralised loan obbligations (CLO). Le cartolarizzazioni c’erano anche prima della grande crisi, ovviamente. Ma a differenza di allora, quando i titoli che ne rivenivano circolavano all’interno del sistema bancario, adesso le nuove regole sono più restrittive e obbligano le banche a disfarsene per la maggior parte.

E qui viene il bello: la “fame di rendimenti positivi” che si è creata sul mercato dei capitali ha fatto crescere la domanda di prestiti “speculativi”, mentre l’ampliarsi del numero di acquisizioni e fusioni in tutto il mondo ne ha fatto lievitare anche l’offerta. Negli Stati Uniti, quasi il 40% delle emissioni di prestiti leveraged è ascrivibile a acquisizioni ristrutturazioni societarie come fusioni, acquisizioni e operazioni di leveraged buyout”, spiega la Bis. La cartolarizzazione dei crediti e la nuova regolamentazione imposta dalle banche centrali ha insomma fatto sì che la patata bollente dell’espansione del debito ad alto rischio sia stata passata dai bilanci delle banche ai fondi pensione, ai gestori di patrimoni e agli altri emittenti di titoli che finiscono in un modo o nell’altro nelle tasche dei risparmiatori.

CLAUSOLE TROPPO BLANDE

Purtroppo il fenomeno dell’espansione dei “leveraged loans” da un lato poggia su una domanda da parte dei sottoscrittori che, fino a poche settimane fa, non faceva che crescere, dall’altro lato si associa fortemente ad un rilassamento dei criteri di erogazione del credito che viene concesso: i sottoscrittori, pur di spuntare qualche decimale di rendimento in più, sono stati disposti ad accettare un minore protezione contro il deterioramento della capacità di rimborso dei debitori, allentando decisamente le clausole dei contratti. E questo spiega il notevole aumento dei prestiti cosiddetti “covenant-lite” che ha raggiunto il suo massimo a metà 2018.


Inoltre la forte domanda degli investitori per i prestiti leveraged ha favorito l’attività di rifinanziamento di quelli esistenti. Negli Stati Uniti, per esempio, il rifinanziamento di debiti pregressi rappresenta circa il 70% delle emissioni di titoli che vanno a finanziare i “leveraged loans”. Questa quota è cresciuta costantemente fino alla prima metà del 2018.

IL RISCHIO DI SCOPPIO DELLA BOLLA SPECULATIVA

Il problema ovviamente per ora potrebbe essere destinato a rimanere sulla carta, dal momento che l’economia globale è ancora in espansione e il tasso di “default” dei prestiti ad alto rischio (i leveraged loans, appunto) in America è in crescita ma è pur sempre al 2,5%. Tutt’altra faccenda sarà quando l’economia inizierà seriamente a rallentare e il tasso di insolvenza crescerà (ovviamente in modo accelerato sui prestiti a più alto rischio). Ma la verità è peggiore: la maggior parte degli strumenti che alimentano di liquidità il sistema dei prestiti ad alto rischio è -almeno negli U.S.A.- data dagli ETF (Exchange Traded Funds), che stanno soffrendo nelle ultime settimane di una forte richiesta di rimborsi da parte dei sottoscrittori, trovandosi dunque costretti a vendere (anche in perdita) i titoli che avevano sottoscritto quando la marea andava in direzione opposta.


Stefano di Tommaso




IL SELL-OFF GLOBALE (PER ORA) NON INCLUDE L’AMERICA

L’indice medio globale delle borse valori è sceso da inizio anno del 9% se escludiamo gli USA, ma quel numero costituisce una media di trilussiana memoria (+5% lo SP500 e -15% l’indice MSCI dei Paesi Emergenti). Molti commenti stanno piovendo su uno iato che, da oramai un semestre, non fa che allargarsi, ma può essere inutile speculare su quale ne sia il motivo dal momento che la risposta è con molta probabilità di totale immediatezza: la crescita economica globale è oramai profondamente disallineata tra Stati Uniti d’America e il resto del mondo e questo incide profondamente sul mercato valutario rafforzando oltre ogni ragionevolezza il Dollaro. E le borse valori ne riflettono soltanto le conseguenze.

 

Purtroppo quello che bisogna prendere atto essere saltato è stato nientemeno che il Leit-Motiv della maggioranza degli investitori e commentatori degli ultimi due-tre anni : la sincronizzazione della crescita economica globale! Che sia tutta colpa di Donald Trump non è certo (anzi) ma non è nemmeno utile indagare. Quello che invece avrebbe sempre più senso chiedersi è quali conseguenze potranno scaturire da una tale -nuova- congiuntura.

Apparentemente la risposta del mercato è semplice e diretta: Wall Street e il Nasdaq saliranno e le altre borse soffriranno. Ma la realtà è molto più complessa e la risposta finale può essere molto diversa: il Sell-Off infatti può divenire facilmente globale.

“TIRA” ANCORA LA LOCOMOTIVA AMERICANA?

Molte volte in passato l’economia americana ha agito da traino alla crescita del resto del mondo, attraverso le importazioni e gli investimenti industriali disseminati ovunque nel pianeta. Per decenni si è sentito parlare di “di locomotiva americana”, ma oggi il mondo è cambiato: la maggioranza dei capitali investiti sulla piazza finanziaria americana non si sa più se sia ancora appartenente agli americani.

La differenza non è piccola perchè il rialzo dei tassi americani, fattore che riflette una dinamica positiva dell’economia, è sostenuto dai lauti profitti messi a segno dalle imprese a stelle e strisce. Ma questa congiuntura, che oggi rende fortissimo il dollaro, è chiaro che non può andare avanti troppo a lungo: col rialzo dei tassi il debito pubblico infatti (cresciuto a dismisura per finanziare le facilitazioni fiscali) costerà sempre di più e se il resto del mondo non seguirà la crescita economica d’oltreoceano allora le esportazioni americane (già danneggiate dal caro-Dollaro) crolleranno e anche i profitti aziendali ne risentiranno.

LA SINDROME CINESE

Il mondo è sempre più interconnesso e gli USA possono pensare di restare un’isola felice soltanto per un limitato lasso di tempo. Poi ogni genere di tensioni potrebbe esplodere, soprattutto se proseguiranno le frizioni con il loro vero rivale degli ultimi vent’anni: la Cina, guarda caso il principale investitore sulle piazze finanziarie americane, che ha accumulato negli ultimi mesi una perdita media del 20% sulle proprie borse valori (cosa che prima o poi le trasformerà in un’occasione di investimento) e  che oggi ha bisogno di riportare a casa i quattrini per proseguire negli investimenti infrastrutturali e tecnologici. La crescita economica cinese non è infatti mai stata così bassa e l’unico modo per contrapporsi a quella tendenza è investire, investire, investire.


L’EUROPA NON RESTERÀ IMMUNE DAL RISCHIO-ITALIA

L’Europa se l’era cavata bene fino a ieri, ma oggi il braccio di ferro con il nuovo governo italiano rischia di fare danni anche all’intera Unione, tanto a livello di debolezza dell’Euro (che per l’Italia potrebbe essere un elemento positivo) quanto per la possibilità che il rallentamento della crescita dell’Eurozona e la riduzione dei rating sovrani come quello dell’Italia possa favorire la fuga dei capitali verso l’area Dollaro.
I commentatori parlano ancora di “crescita globale” senza arrivare ancora a menzionare la progressiva divergenza tra le economie dell’area Dollaro, quelle Europee e quelle del resto del mondo ivi compresi i Paesi Emergenti. Quando inizieranno a prenderla in seria considerazione anche le previsioni di crescita a livello globale verranno pesantemente rivedute al ribasso.

MEGLIO I BOND A LUNGO TERMINE

Dal punto di vista di chi investe il momento è positivo per i mercati americano e giapponese, ma la sensazione netta è che il ciclo di rialzi delle borse stia volgendo al termine, affogato in una crescente volatilità dei mercati. Il rischio è quindi quello di comperare sui massimi , per quanto riguarda i titoli azionari, mentre al contrario è possibile che i rendimenti che si vedono adesso sui titoli obbligazionari a lunga scadenza saranno ricordati a breve come un picco di periodo oltre il quale è possibile che discendano, lasciando spazio a buone plusvalenze in conto capitale.

Stefano di Tommaso