RICONOSCERE UN SELL-OFF

Dove vanno i mercati finanziari? Continuerà il caos che stiamo sperimentando nelle ultime settimane oppure si fermerà? Tutti gli operatori se lo chiedono e tutti gli investitori si chiedono cosa fare per limitarne i rischi, ma la risposta giusta è quella che a nessuno piace ascoltare: nel breve termine giù a picco! I motivi sono numerosi e le probabilità contrarie sono poche. Nel medio termine invece tutto può succedere.

 

Mi sono chiesto molte volte se la situazione di deterioramento dei valori finanziari italiani non potesse deviare uno sguardo oggettivo sui mercati e colorare di nero ogni mia possibile valutazione e, per questo motivo, preferirei partire dall’analisi della situazione nazionale, tanto per non avere dubbi.

UNA TEMPESTA PERFETTA ?

L’Italia ha molto probabilmente davanti a sè la “tempesta perfetta“ dei mercati finanziari, dal momento che lo scontro del nostro governo è frontale con la Commissione Europea (e, tra pochissimo, anche con l’intera “troika” che ha asfaltato la Grecia: cioè anche la Banca Centrale Europea -BCE- e il Fondo Monetario Internazionale -FMI-) e stanno per arrivare quasi certamente i downgrade delle agenzie di rating, che daranno la mazzata finale sulla testa del debito pubblico italiano. La congiuntura si fa perciò assai nera tanto per il sistema bancario italiano quanto, di conseguenza, per la Borsa di Milano.

Inutile dire che di fronte a un tale spiegamento di forze qualsiasi altro governo avrebbe vacillato e il Paese avrebbe probabilmente preso in seria considerazione un cambio di rotta della volontà di generare incremento del prodotto interno lordo attraverso una manovra che inizialmente prevede un deficit di bilancio “non ammissibile” per l’Unione Europea. Perché non ammissibile? Chiaramente e inequivocabilmente per motivi politici: questa coalizione politica al governo promette battaglia anche alle prossime elezioni europee e l’attuale classe dirigente europea sta facendo l’impossibile per combatterla !

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA

Ma questo governo no, per i medesimi motivi politici (è nato sull’onda della prolungata crisi economica e del disprezzo dell’italiano medio nei confronti della politica deviata fatta a livello comunitario sulla sua pelle) non solo non vuole ma non è neppure in grado di fare qualcosa di diverso dal proseguire “in direzione ostinata e contraria”, arrivando a portare alle estreme conseguenze lo scontro in atto, con tutto quello che può significare a livello finanziario una tale scelta. Per non girarci intorno quello che può significare è l’intervento d’urgenza del FMI a imporre un prestito forzoso in nome del solito fantomatico piano di salvataggio per il debito pubblico italiano che, come si è visto in Grecia, consentirà esclusivamente agli stranieri di vederselo rimborsato.

Ovviamente la cosa non avrà un‘ impatto limitato sui mercati perché tra l’altro, se la coalizione al governo del Paese riuscirà ad essere coerente con i suoi intenti, a quel punto dovrebbe chiedere l’immediata congelamento del debito pubblico e l’uscita dall’Unione Monetaria (cosa che potrebbe arrivare a fare e che potrebbe anche avere un profondo senso storico, ma che comporta un fegato d’acciaio da parte di chi promuoverà un tal passo). Possiamo però immaginare cosa può significare una manovra così forte nel breve periodo! L’intero sistema dei valori finanziari italiani (immobili compresi) subirebbe uno shock planetario e nel frattempo assisteremmo al medesimo copione greco a meno che non venisse deciso in un baleno il ritorno alla Lira. Ciò peraltro comporterebbe un incremento stellare dei prezzi di qualsiasi bene ci si voglia acquistare perché al cambio risulterebbe fortemente svalutata rispetto all’Euro e a tutte le altre valute.


L’ASIMMETRIA DEGLI OPPOSTI

Alla base del braccio di ferro che sta giungendo alle estreme conseguenze c’è una forte asimmetria tra due ragionamenti, entrambi assai fondati, tra la coalizione governativa italiana e la maggioranza politica che ispira le scelte della Commissione Europea (il governo dell’Unione): i politici a capo della prima hanno sempre pensato che all’Europa non conviene affatto un braccio di ferro risoluto e continuato con l’Italia perché può determinare l’affossamento definitivo della moneta unica e comunque danneggerebbe gravemente gli interessi degli altri stati membri, quelli a capo della seconda sanno invece che per i politici italiani è cosa assai complessa tenere testa a un simile scontro frontale e che tutti i loro predecessori (Berlusconi compreso) molto presto hanno capitolato. Dunque i secondi puntano sullo sfiancamento dell’attuale maggioranza nazionale anche grazie a tutti gli innumerevoli addentellati del potere finanziario internazionale, a partire dai “media” che getterebbero veleno a volontà e che farebbero di tutto per disorientare gli elettori che hanno votato la maggioranza gialloverde, fino alla “troika” passando anche dalle agenzie di rating e magari dalle accuse di qualche tribunale internazionale. In una parola l’ “assedio” ci sarebbe di sicuro!

Dicevamo che nel medio termine entrambi i contendenti potrebbero avere ragione e che però nel frattempo nessuno aveva previsto che sarebbero entrambi stati pronti a portare lo scontro fino alle estreme conseguenze. Conseguenze che non potranno non generare disordine e sconforto innanzitutto sulle quotazioni dell’Euro, poi sulle borse (non solo quella italiana) e infine anche sui titoli di stato di tutta Europa. Lo scontro di cui scrivevo qui sopra pertanto degli effetti devastanti a catena li produrrà molto presto, a meno che non rientri alla velocità della luce.

LE CONDIZIONI DISASTROSE DEI MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI

Ma c’è un’ulteriore circostanza che forse hanno tutti sottovalutato: le condizioni del mercato finanziario internazionale, già oggi fortemente deteriorate ben al di là delle attese di prossima recessione economica che tendono ad attestarsi intorno al 2020. Innanzitutto a causa delle pessime condizioni dei mercati asiatici, che pesano sempre più sulla bilancia internazionale. E poi perché se alla crisi asiatica e a quella dei mercati emergenti anche di tutto il resto del mondo (principalmente vittime del caro-Dollaro) si sommerà quella dei mercati europei, la frittata sarà servita, provocando serissime reazioni su Wall Street e su Londra, i cui listini sono oggi forse troppo dipendenti dalle supervalutazioni dei titoli “tecnologici”. La probabilità di deflagrazione di una nuova crisi finanziaria globale inizia dunque a crescere e può risultare fatale nel determinare la prosecuzione vino alle estreme conseguenze dello scontro tra l’Italia e il resto dell’Unione Europea.

Indipendentemente però da quello che potrebbe succedere in futuro lo scenario di breve termine è già di per sè decisamente preoccupante: la svalutazione dell’Euro è già in atto, il rialzo dei tassi di interesse rischia di proseguire a causa della reazione a catena che la crisi italiana può provocare in tutto il mondo, mentre le borse, che già stavano scendendo in tutto il mondo, rischiano soltanto di accelerare nella medesima direzione. La questione italiana insomma può risultare come la classica ultima goccia che fa traboccare l’intero vaso.

I POSSIBILI “MANDANTI”

Quali possibilità ci sono che ciò non accada? Non molte in realtà, complice la Federal Reserve Bank of America che non sta facendo nulla per correggere il suo attuale orientamento ad ulteriore rialzo dei tassi (il differenziale con quelli tedeschi è giunto a superare il 3%) schiacciando di conseguenza tanto i cambi contro il Dollaro quanto le prospettive di esportazioni americane nel resto del mondo. Qualcuno ci vede anche lì lo zampino della politica: l’attuale presidente americano “deve” subire una pesante sconfitta elettorale a Novembre e l’economia americana va troppo bene perché le probabilità che ciò accada restino alte. Un bel crollo di Wall Street aiuterebbe pertanto e l’abitazione che ne conseguirebbe magari farebbe gli interessi dei grandissimi gruppi internazionali che controllano il mercato dell’energia (il cui prezzo schizzerebbe alle stelle).

Sul fronte opposto non possiamo non menzionare la decisa opportunità di un accordo rappacificatore tra la Commissione Europea e il Governo Italiano, che indubbiamente risolleverebbe le sorti della Borsa e aiuterebbe a contenere lo spread, aggiungendo un motivo in più alle Agenzie di Rating per non abbassare quello italiano. Ci guadagnerebbe più l’Europa che l’Italia viste le prossime elezioni e visto il rischio di “contagio” di una disfatta della finanza del Bel Paese. Ma la razionalità della “ragione di stato” a volte si scontra con “lo particolare” interesse di questo o quel politico, che al proprio livello può preferire uno scontro a un confronto per mille e una motivazione personale (absit injuria verbis)…

Stefano di Tommaso




IL FATTORE DI DISTURBO DELLA MANOVRA ECONOMICA

La tesi della maggioranza politica eletta pochi mesi fa in Parlamento è chiarissima: se le molti anni (dalla nomina di Monti) e fino a ieri l’aver aderito in toto alle indicazioni della Commissione Europea ha fatto dell’Italia il fanalino di coda dell’Unione, allora è evidente che bisogna andar in direzione ostinata e contraria: se con le tasse e l’austerità non siamo riusciti a ridurre il nominatore del rapporto “debito pubblico/prodotto interno lordo” (anzi il debito è solo aumentato) allora proviamo fare largo a misure espansive (sebbene le risorse per le medesime siano scarsissime) per riuscire ad incrementare il denominatore (il prodotto interno lordo). Ma c’è un elemento che il governo non aveva previsto…

 

Il saldo di bilancio primario dei conti pubblici italiani, con l’eccezione del 2009 (l’arrivo della crisi globale), è stato in attivo per oltre 20 anni. Ciò significa che i governi hanno tassato gli italiani più di quanto hanno speso per consumi e investimenti. Ciò nonostante la spesa per interessi ha fatto crescere il debito.

LA FORMULA DELL’EQUILIBRIO

È formula nota agli studiosi di economia quella che esprime l’avanzo primario dei conti pubblici italiani come il rapporto (B come “balance”) tra il debito e il prodotto interno lordo (PIL) ragguagliato alla crescita marginale dell’economia al lordo dell’inflazione:

Nella nota di aggiornamento al DEF il rapporto Debito/Pil (D) nel 2018 è 130.9%. Il tasso di crescita nominale del PIL nel 2019 è previsto al 3,1% (di cui 1,5% dovuta all’inflazione e 1,6% alla crescita del prodotto). Quindi B=130,9*0,031/(1+0,031)=3,93%. Il 3,93% è molto maggiore del deficit fissato al 2,4%. Se anche la crescita reale del PIL dovesse scendere fino all’1% (considerata troppo bassa anche dalla “troika” delle istituzioni internazionali BCE, FMI e Commissione UE) e l’inflazione andasse all’1,6%, B sarebbe uguale a 2,7%, comunque ancora superiore al 2,4% e sufficiente a far scendere il Debito.

 

COSTI CERTI E RITORNI INCERTI, COLPA DELL’INESPERIENZA

Ovviamente, come è già successo con Donald Trump in America, la manovra espansiva può lasciare molti dubbi a causa del suo costo certo e del suo ritorno incerto. Il dibattito su dove agire per stimolare la crescita inoltre è causa di infinite discussioni e critiche. Ma -di massima- l’alternativa a tale scelta sembra pura fantasia.

Ci sono a dire il vero due importanti questioni che animano -correttamente- le critiche alla manovra: la prima è che non è stata annunciata e illustrata in modo intelligente, ma piuttosto è stata recepita da tutti i commentatori come uno schiaffo all’attuale classe dirigente della Commissione Europea. Il ministro Giovanni Tria in questo si è visto sorpassato in curva dai due vicepresidenti del consiglio, che ne hanno fatto una bandiera politica, probabilmente sbagliando. La seconda è la stima dell’inflazione prospettica, nonché quella della crescita attesa. Se le stime degli effetti della manovra risulteranno pesantemente errate, allora indubbiamente il debito pubblico italiano crescerà. Come peraltro è sempre successo fino ad oggi all’Italia dei governi precedenti e a quasi tutti gli altri stati membri dell’Unione.  Ma a differenza di molti altri stati europei gli italiani sono grandi risparmiatori:

 

IL RUOLO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

Possiamo perciò concludere che questi dubbi giustificano da soli gli allarmi circa l’insostenibilità del nostro debito pubblico? Probabilmente no. Per fare un esempio pratico, il Giappone convive da decenni con un debito pubblico pari a e volte e mezzo il prodotto interno lordo e, dopo anni di stagnazione, è arrivato Shinzo Abe con le sue politiche fiscali fortemente espansive riuscendo a far invertire rotta all’economia. Se vogliamo giocare a cercare le differenze, quella unica vera e sostanziale è l’autonomia monetaria del Giappone, che a noi manca. Se la Banca Centrale Europea adotterà una politica monetaria restrittiva indubbiamente avremo un problema in più nel rifinanziamento dei bond pubblici in scadenza e la mancanza di liquidità disponibile per gli operatori economici potrebbe compromettere seriamente le prospettive di crescita del Bel Paese.

La vera questione delle questioni sembra dunque risiedere nelle prospettive di permanenza dell’Italia nell’Unione (politica e monetaria) Europea. Secondo la JP MORGAN il verso rischio dell’Italexit è nullo e pertanto gli allarmi delle Agenzie di Rating sono fasulli e la salita dei rendimenti dei titoli italiani è un buon affare per chi ci investe adesso. Sarei pronto anch’io a scommetterci, anche perché sono in arrivo le elezioni europee e il clima politico può cambiare parecchio, ma c’è un altro fattore che scompiglia le possibili previsioni: il profondo cambiamento delle prospettive dei mercati finanziari a livello internazionale.

IL FATTORE ESOGENO: I MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI

I mercati sono indubbiamente divenuti più nervosi negli ultimi giorni, e gli effetti di sono visti platealmente: Le borse valori sono scese parecchio e i titoli a reddito fisso incorporano rendimenti superiori, per la prima volta anche a quelli tipici dell’investimento azionario (che si situano storicamente sotto al 3%). La curva dei rendimenti americana si è del tutto appiattita e sono per questo motivo partite le speculazioni sul momento in cui la Federal Reserve americana riuscirà a innescare l’ennesima recessione a causa dell’atteggiamento troppo duro nei confronti dei tassi di interesse (oggetto del mio articolo:  “SE I TASSI AMERICANI MINACCIANO I MERCATI FINANZIARI)

È chiaro che se la tendenza attuale dovesse proseguire la manovra economica italiana rimarrebbe spiazzata dal deflusso di capitali verso l’area dollaro e verso una minore propensione al rischio da parte degli investitori. Ci vuole dunque un po’ di “fattore C” nella ricetta della coalizione giallo-verde. E per adesso non se ne è visto…

Stefano di Tommaso




LA MANOVRA ITALIANA, LE POSSIBILI REAZIONI EUROPEE E LO SCENARIO GLOBALE

Al di là di ogni polemica politica, partitica o finanziaria, al di là di ogni commento sulle posizioni assunte da questo o quell’intellettuale sulla qualità o sulla sostanza della manovra preconizzata dal nuovo governo giallo-verde italiano (ha 4 mesi di anzianità), persino al di là di ogni considerazione sul deficit che essa genera, non posso non affermare il mio grande interesse, sull’attenzione che essa ha generato nell’opinione pubblica -interna e internazionale- per vari motivi.

 

UNO SCOSSONE POSITIVO

Erano anni che l’opinione pubblica italiana non tornava a dibattere di cose serie, quali gli stimoli alla crescita economica, gli investimenti infrastrutturali, la competitività delle aliquote fiscali per le imprese, gli incentivi all’occupazione e la congruità delle normative imposte dagli euro-burocrati ai singoli Stati membri: finalmente si è acceso un dibattito che diverge sostanzialmente dalla demagogia di quelli che lo hanno preceduto e che fa sperare che si avvii un dialogo -anche a livello europeo- sulle ricadute di medio termine delle politiche fiscali e monetarie che oggi vengono ipotizzate. Non accadeva da anni e nessuno osava mettere in discussione una serie di “follie” che Bruxelles propagandava a vantaggio dei soliti noti (Germania e Francia).

Erano anni insomma che non ci si chiedeva quali manovre potranno sortire il migliore effetto sulla crescita economica del Paese posto che è finalmente chiaro a tutti che è soltanto quest’ultima che potrebbe salvare l’Italia dal baratro dell’insostenibilità del proprio debito pubblico. A prescindere dunque dal deficit di bilancio (che in qualche modo nel frattempo va certamente finanziato) la vera domanda che conta è tornata centrale: il rapporto tra debito e prodotto interno lordo (PIL) scende o sale? E perché scenda è finalmente chiaro a tutti che è il PIL che deve crescere, visto che il debito non scende da solo.

LA VERA NOVITÀ: STOP AL FISCAL COMPACT

Il nuovo governo sembra aver avviato un confronto con il Pese e con il resto del mondo sulle priorità del quadro programmatico e sulla qualità della spesa del denaro pubblico, dando precedenza a queste scelte piuttosto che al contenimento “a priori” del deficit, senza badare a cambiare l’indirizzo della spesa pubblica e la reale validità delle politiche economiche del passato (errate quasi per definizione, visti gli scarsi risultati). La vera novità sta dunque nell’intenzione di lasciare indietro il Fiscal compact e l’obbligo di tendere al pareggio di bilancio dando uno scossone alla filosofia di austerità fino ad oggi prevalente nella Commissione Europea, auspicandone chiaramente una diversa e più orientata a politiche fiscali espansive in vista delle prossime elezioni europee.

La scommessa della maggioranza che ci governa è perciò quella “trumpiana” che ha portato l’America ai risultati che vediamo: abbassare le tasse e aumentare la qualità della spesa pubblica (soprattutto investimenti in infrastrutture e occupazione) per generare crescita economica e far tornare la fiducia negli operatori economici. E visto che per perseguirla bisognava avere il coraggio di fare deficit e scontrarsi con la Commissione Europea, questo governo ha prestato il fianco a critiche e perplessità di ogni genere, qualcuna nemmeno a torto.

LE CRITICHE MOSSE AL GOVERNO

Le critiche mosse al momento della pubblicazione del DEF da più parti sono consistite infatti principalmente nell’incapacità di comunicare per tempo e correttamente la portata e la credibilità dell’iniziativa (anche questa comprovata dai fatti: i mercati hanno reagito male) nonché l’oggettività del miglioramento della qualità della spesa. Altri ancora hanno correttamente notato che questa manovra prevede inoltre troppi pochi tagli alla spesa pubblica improduttiva e ai carrozzoni di Stato, riconcorrendo una crescita che non è matematicamente certo potrà generarsi.

In effetti occorre notare che il “mainstream” ha alimentato l’idea errata che il DEF fosse stato pensato in tutt’altro modo dai ministri tecnici del governo e poi “ribaltato” all’ultimo momento dai due leader politici che ricoprono il ruolo di vice-premier: niente di più ingiusto. È stata casomai la misura del deficit che ne derivava che ha visto disalinneati i primi dai secondi (per soli 7 miliardi di euro contro i quasi mille di spesa).

UN PRECISO CALCOLO POLITICO

I vicepremier hanno sì inteso dare una spallata vera e propria all’accordo europeo che va sotto il nome di fiscal compact, ma per un preciso calcolo politico: la stessa vittoria giallo-verde è stata originata dal rigetto della maggioranza degl’Italiani verso le direttive comunitarie e i politici corrotti che le hanno irragionevolmente applicate, colpevoli di aver ottenuto benefici nel fare invadere il territorio da migranti più o meno clandestini disposti a tutto e di aver scavato con eccesso di spesa clientelare e tassazione la fossa nella quale è caduto il Paese.

Inoltre Salvini e Di Maio hanno capito che la loro pressione sulle istituzioni europee le spinge alla disfatta: se chiuderanno gli occhi verso il mancato ossequio al “fiscal compact” perderanno credibilità e lasceranno che molti altri paesi, Francia e Spagna in testa, facciano lo stesso (anzi lo stanno già facendo). Se faranno il contrario come potranno giustificare il resto d’Europa? E come potranno sperare di essere confermate al governo europeo tra pochi mesi fronte all’impopolarità di cui si macchierebbero? La risposta corretta potrebbe consistere in una serie di misure atte a finanziare a livello europeo gli investimenti infrastrutturali più importanti, magari con l’ausilio della Banca Centrale Europea (BCE) che potrebbe inoltre prolungare l’ombrello del Quantitative Easing (QE) oltre la fine dell’anno corrente, quantomeno fino a dopo le elezioni europee. Ma se così non accadesse e alle prossime elezioni non cambiasse nulla (cosa improbabile di per sè) Di Maio e Salvini godrebbero allora di un ampio appoggio popolare nel decidere l’uscita dell’Italia dalla “gabbia” europea, e forse non ne avrebbero nemmeno tutti i torti.

LA MINACCIA DELLO SPREAD

La minaccia dello Spread è perciò questa volta molto meno pesante di quanto lo è stata con Berlusconi (che non disponeva di una maggioranza assoluta) e di quanto è accaduto in Grecia, la cui economia è dieci volte più piccola dell’Italia. L’esito della crisi greca è inoltre poco d’esempio: dopo che la “Troika” (costituita dai rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.) è intervenuta, le condizioni materiali del popolo non sono migliorate, le principali infrastrutture sono finite nelle mani di tedeschi e francesi e il debito pubblico si è accresciuto fino al 170% del PIL (dal 140% dei tempi della crisi). La manovra sarebbe difficilmente replicabile senza che l’Italia, con una forte maggioranza popolare, decidesse prima di uscire dall’Euro.

LA PAROLA AI MERCATI

Ecco dunque che la parola torna ai mercati (cioè alle manovre della grande finanza), perché difficilmente il dibattito europeo avrà esiti consistenti prima delle elezioni. Riusciranno i mercati a piegare il Bel Paese e ne avrebbero davvero un beneficio? È possibile, anzi è probabile, che la risposta a entrambe le questioni sia negativa, principalmente a causa del fatto che i mercati sono già agitati per altri motivi: i tassi internazionali salgono (forse in misura eccessiva) e al tempo stesso il Dollaro si rafforza troppo sulle alte valute, anche perché i tassi americani continuano ad espandersi nei confronti di quelli europei (nel grafico qui sopra riportato lo spread Treasury-Bund a 10 anni). Una crisi italiana potrebbe innescarne una globale e un Euro troppo debole non piacerebbe agli Stati Uniti ma nemmeno a Russi e Cinesi.

Se dunque la BCE proseguisse nelle sue facilitazioni monetarie e con questo contribuisse ad ampliare il divario tra i tassi europei e quelli americani essa probabilmente farebbe un gran favore persino all’America, fornendole una scusa sensata per forzare una limatura del l’atteggiamento da falco della Federal Reserve. Il rischio ovviamente sarebbe quello di possibili fiammate d’inflazione a livello globale, che tuttavia sono relativamente improbabili stante l’aspettativa generale di una moderata crescita della domanda aggregata per consumi (con l’eccezione americana che però potrebbe aver già toccato il suo picco).

C’È SPAZIO PER L’OTTIMISMO


Se il petrolio non sfonderà i 100 dollari al barile (anche questo è al momento non ipotizzabile) e il biglietto verde non si avvicinerà alla parità con l’Euro ecco che la situazione rimarrebbe sotto controllo e anzi la prospettata frenata economica europea potrebbe trasformarsi in una ripresa positiva del ciclo. Ma se così non fosse anche le borse traballerebbero molto più di quanto stanno facendo oggi, perché la fine degli stimoli monetari globali, se può risultare appropriata in un’America la cui economia corre al 4% annuo e ha quasi raggiunto la piena occupazione, rischia invece di risultare assolutamente prematura in Europa o assolutamente controindicata in India e Cina.

Dunque c’è spazio per un po’ di ottimismo, per molta diplomazia e per tanta pazienza: nei prossimi mesi potrebbe non succedere assolutamente nulla e ciò, di per se, per i mercati sarebbe già un’ottima notizia…

Stefano di Tommaso




CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO DALLE GUERRE COMMERCIALI?

Difficile aggiungere validi commenti alle tonnellate d’inchiostro che sulla stampa di tutto il mondo si sprecano sui pericoli del protezionismo. Meglio cercare di guardare i fatti che qui vengono riportati con l’andamento degli indici delle borse:

•Globale (indice MSCI WORLD in Dollari) 


•Americana (SP500)


•Europee (Stoxxs Europe 600)

 


•Giapponese (Nikkei)

 



•Hong Kong (Hang Seng)

 



•Cinese (SSEC)


Stupiscono due fatti al di là di ogni considerazione: le principali borse del mondo, che alla fine del 2017 sembravano aver toccato le stelle con un dito, nella prima metà del 2018 non sono quasi affatto discese a livelli più bassi, nemmeno nei Paesi Emergenti (tra l’altro misurate in Dollari che si sono evidentemente apprezzati contro molte valute locali!).

Contrariamente a quanto leggiamo tutti i giorni i risultati che emergono dai grafici che seguono non potrebbero essere più chiari: l’America è quella che ci guadagna di più (nonostante il super-Dollaro) e l’Asia (Giappone escluso) è quella che ci perde. Difficile pensare che gli investitori non abbiano alzato le antenne per cercare di capire prima degli altri cosa sta succedendo. E se non sono fuggiti a gambe levate non vi viene qualche dubbio? Siete sempre dell’idea che Trump sia un pazzo che sta mettendo a ferro e fuoco il mondo?

Le ultime proiezioni indicano che quest’anno il prodotto interno lordo americano crescerà di quasi il 3%, poco meno del doppio di quanto dovremmo fare in Italia e significativamente di più di quanto farà la Germania. Se poi cerchiamo di capire qual’è la vera crescita economica cinese dobbiamo alzare le mani, perché gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che le statistiche (comunque in discesa sul limitare del 6%) siano in realtà tutte falsate e che il vero passo è poco superiore alla metà di quel numero.

Purtroppo il bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti, di commenti di parte e notizie parziali, ci fa talvolta perdere il senso della realtà, convincendoci che la “deriva populista” cui sembra condannato l’Occidente (a partire dalla Brexit) sta distruggendo le basi della società civile cui ci eravamo abituati. Purtroppo è quasi vero l’opposto: i partiti che stanno guadagnando terreno sono votati da un crescente malcontento popolare che le èlites che fino a oggi hanno governato il mondo (e che controllano buona parte della diffusione dell’informazione) non accettano di riconoscere.

Nessuno scrive che l’Europa e la Cina fino all’anno scorso applicavano unilateralmente dazi nei confronti dei prodotti americani e che l’America di Trump aveva più volte chiesto di rimuoverli. Allora Trump è passato ai fatti. E il risultato è che i capitali corrono a sottoscrivere titoli del Tesoro americano e il Dollaro sale, anche perchè le multinazionali riportano a casa la liquidità che prima lasciavano oltre oceano, mentre salari e consumi degli USA crescono a un ritmo superiore a quelli di tutto il resto del mondo.

Stefano di Tommaso