È IL MOMENTO DELL’ORO?

Nonostante l’acuirsi dei rischi geopolitici, i mercati finanziari sono rimasti fino a ieri relativamente calmi e le quotazioni dell’oro di conseguenza, anche. Questo perché gli investitori tendono a rimanere neutrali sino a quando un serio rischio di escalation della tensione non è comprovato.

Ma qualora la situazione progredisca negativamente (come temo) e il rischio di un ritorno dell’inflazione si fa più concreto, allora i rendimenti reali dei principali titoli espressi in Dollaro e Euro non potranno che ridursi e, al tempo stesso, le quotazioni di azioni e obbligazioni non potranno che adeguarsi ad uno scenario deteriorato di futuri profitti.

Molti investitori paventano da tempo la supervalutazione dei molti titoli tecnologici che affollano i principali listini borsistici globali, nonché il timore di una fiammata inflazionistica e di conseguenza la possibilità che le borse alla fine scendano ancora e che il Dollaro si svaluti. Tuttavia chi sino ad oggi ha venduto azioni e obbligazioni per timore degli eventi ha -nella quasi totalità dei casi- scambiato quei titoli con liquidità, il che significa in genere che costoro hanno scelto di conseguenza (spesso involontariamente) di detenere una posizione al rialzo nelle valute forti.

Però, a meno che non si ritenga che il Dollaro e l’Euro subiranno delle forti rivalutazioni a seguito dell’acuirsi delle tensioni militari nel prossimo futuro, è più probabile che in uno scenario quantomeno di guerra fredda le aspettative di inflazione e quelle della programmata riduzione della liquidità disponibile (ad opera delle banche centrali) non arrivino a compensarsi completamente, lasciando ancora molta liquidità disponibile sul mercato, sempre più in cerca di impieghi alternativi, e uno spazio di manovra decisamente ampio per gli investitori per allocare qualche buona scommessa sulle quotazioni dei beni rifugio, primo fra tutti ovviamente il metallo giallo.

Se si guarda poi alla situazione delle posizioni speculative costruite sulla quotazione dell’oro a partire dai fondi ETF quotati ad essa collegati, si può notare un lento ma costante incremento della medesima, a partire da tutto il 2017:

L’oro fino ad oggi non ha brillato però anche perché forti quantità del metallo giallo sono detenute dalle banche centrali di tutto il mondo e queste ultime hanno mostrato un deciso interesse a calmierarne le quotazioni.

Ma se la domanda di oro fisico da parte degli investitori istituzionali (tramite I fondi quotati: gli Exchange Traded Funds, detti anche ETF) continuerà a progredire come è successo negli ultimi tempi, allora sarà sempre più difficile tamponarne l’ascesa del prezzo con altre vendite, a fronte delle quali nella quasi totalità dei casi le banche centrali si troverebbero in mano il biglietto verde. Siamo sicuri che è ciò quello che esse vogliono ?

Probabilmente no, ed è questo il motivo per cui potrebbe farsi invece strada una tendenza rialzista.

Nel grafico che segue la domanda di oro fisico da parte degli ETF:

Di qui l’intuizione che c’è forse dello spazio per un movimento al rialzo delle quotazioni dell’oro, che fino ad oggi non si è quasi visto.

Stefano di Tommaso




I TAMBURI DI GUERRA FANNO TREMARE LE BORSE

Non bastavano le guerre commerciali a rovinare le prospettive della crescita economica globale e, ovviamente, quelle dei mercati finanziari. Adesso sono arrivati anche i missili. E per non farci mancare niente persino lo spettro del terrorismo sembra resuscitare dal passato.

 

LA MISURA È COLMA

Se fino a ieri c’erano ancora speranze sulla possibilità che gli ottimi risultati della crescita economica globale potessero fare da contraltare al forte deterioramento del panorama geopolitico globale, adesso ci può essere soltanto un atto di fede: l’innalzamento oltre ogni recente limite del prezzo del petrolio che ne consegue è destinato a portare decise ripercussioni sull’inflazione, i tassi di interesse e persino sulla possibile evoluzione debiti pubblici, sufficientemente alti già prima di quello che sta accadendo in questi giorni.

Questo perché l’ondata di riduzione della tassazione delle attività economiche che stava soltanto iniziando negli ultimi mesi presupponeva di provocare di conseguenza una sostenuta crescita dei prodotti interni lordi affinché non generasse una voragine nei conti pubblici. Ma se invece il rilancio dell’economia con stimoli fiscali (dopo che quelli monetari sono stati usati anche oltre il loro limite naturale) non dovesse avere effetto a causa di fattori “esterni” come le conseguenze di una situazione di guerra, ecco che le minori entrate generate dalla minor tassazione si ripercuoterebbero inevitabilmente in un aggravamento dei conti pubblici dell’intero Occidente.

LE CONSEGUENZE MACRO DELLE TENSIONI GEOPOLITICHE

Proviamo perciò ad elencare le “conseguenze” di una situazione di conflitto più allargata in Medio Oriente e dei timori di accrescimento delle tensioni geopolitiche: in questo caso dovremmo dare per decisamente probabili tanto la maggior risalita dei prezzi di energie e materie prime quanto la rivalutazione del dollaro, con i rischi che ne conseguono di vedere accendersi oltre misura le aspettative di inflazione, di una risalita dei tassi di interesse più brusca di quanto in precedenza prospettato e, dulcis in fundo, un probabile conseguente calo delle quotazioni delle principali borse mondiali.

Perché le borse dovrebbero crollare? Non soltanto perché le attese di profitti futuri che determinano le valutazioni aziendali andrebbero scontate a tassi di interesse più elevati, ma anche perché al peggiorare delle prospettive economiche complessive anche la profittabilitá stessa delle imprese non potrebbe che ridursi, alimentando un circolo vizioso delle aspettative di mercato.


Ora, se vogliamo essere più realisti, il mondo sembra essere già caduto nella trappola di una “guerra fredda”, dove stavolta il conflitto oriente-occidente rischia di coinvolgere anche la Cina e quindi di penalizzare fortemente il commercio internazionale, uno dei motori dell’attuale crescita globale e uno dei maggiori veicoli di rilancio delle aspettative per i paesi emergenti, i veri protagonisti dell’ultimo biennio. Anche le valute meno “forti” hanno subìto un ridimensionamento negli ultimi giorni e il petrolio ha già superato la soglia dei 70 dollari al barile, un livello ritenuto da molti impensabile ancora poche settimane fa.

Nel grafico sotto riportato vediamo il recente andamento e le previsioni della domanda e produzione di petrolio (linee) e delle scorte (istogrammi):


Ma fino ad oggi la reazione dei mercati finanziari si è mantenuta decisamente equilibrata e priva di ondate di irrazionalità.

IL PROBLEMA DELLE ASPETTATIVE

Ciò che invece veramente può fare davvero la differenza per i mercati finanziari non è il picco delle quotazioni di una o due settimane, quanto il rovesciamento dello scenario di relativa stabilità che sembrava fino a ieri inscalfibile. Se la prospettiva di una nuova guerra del golfo dovesse insediarsi stabilmente nelle previsioni allora dovremmo aspettarci un rapido deterioramento della situazione generale delle borse e il rischio di un deciso avvitamento dell’economia dell’intero Occidente perché anche i forti investimenti in tecnologia e nuovi prodotti che fino a ieri erano previsti da buona parte delle aziende nel mondo potrebbero di conseguenza venire posticipati.

La posta in gioco per i mercati sembra dunque decisamente elevata nelle prossime ore e i rischi di una escalation del confronto ancora maggiori, in un momento nel quale si evidenziavano già talune difficoltà per la prosecuzione del ciclo economico positivo, che sembrava essersi sincronizzato per buona parte delle economie mondiali ma non aveva ancora prodotto un significativo incremento nel reddito disponibile dell’uomo della strada.

Oggi quell’equilibrio delle aspettative (crescita economica da un lato, inflazione e aumento dei tassi dall’altro) sembra essersi rotto. Non c’è da stupirsi pertanto se da lunedì gli investitori istituzionali approfitteranno di ogni possibile movimento delle borse per alleggerire le loro posizioni fino ache le cose non miglioreranno decisamente!

Stefano di Tommaso




AMAZZONIZZAZIONE DELL’ECONOMIA?

Siamo giunti alla fine del super-ciclo economico positivo decennale (2008-2018, sebbene in Europa ci si sia giunti per motivi politici soltanto cinque-sei anni più tardi) che ha spinto per altrettanto tempo le borse all’insù verso massimi storici senza precedenti, oppure ci sono altre forze che spingono verso una “normalizzazione” dell’economia che tutto sommato la consolida e la rende capace di non avvitarsi in una spirale inflazionistica (che inevitabilmente aprirebbe le porte ad una fase di recessione globale)?

 

Non potendo prevedere il futuro, la domanda non ha ovvie o scontate risposte, ma uno strumento per interpretare gli accadimenti di queste settimane potrebbe sintetizzarsi in una parola (o più probabilmente un vero e proprio concetto) che torna periodicamente a risuonare, pur senza alcuna certezza, nelle orecchie di molti economisti: l’ “amazzonizzazione” dell’economia.

L’IMMAGINE ESTERNA DI AMAZON, QUALE LEADER PIGLIA-TUTTO DEL COMMERCIO ELETTRONICO INCORPORA LE NUOVE TENDENZE GLOBALI

È noto che Amazon, leader mondiale del commercio elettronico, incorpora nell’immaginario collettivo l’idea stessa di effetto pratico della globalizzazione dei consumi risultante nella rottura al ribasso dei prezzi al dettaglio, dell’effetto disinflattivo che esso ha e nel cambiamento profondo della relazione tra domanda e offerta sul mercato del lavoro (che ovviamente provoca una contrazione dei salari).

Fino all’altro ieri infatti la maggior domanda di lavoro che sta materializzandosi a partire dal 2017 e che in molti casi si traduce in una crescita reale dei salari, avrebbe più o meno immediatamente provocato un’innalzamento corrispondente dei consumi e si sarebbe quindi potuto osservare il noto effetto inflattivo che consegue alla riduzione della disoccupazione, osservato dagli economisti on la cosiddetta “Curva di Phillips”.

IL ROVESCIAMENTO DELLA CURVA DI PHILLIPS

Tra il 2017 e il 2018 però, almeno negli Stati Uniti d’America (che spesso sono solo i precursori delle tendenze economiche globali) si è invece dovuto prendere atto del venire meno di quella forte relazione tra mercato del lavoro, consumi, prezzi e inflazione, che sembrava elementare e dunque anche inequivocabile (nel grafico qui sotto riportato, da leggersi da destra verso sinistra, l’inclinazione della curva sembra infatti rovesciata).

Per tentare di rispondere alla domanda sopra indicata, proviamo perciò a porcene un’altra: ma se per effetto della ripresa economica e della crescita globale dei redditi la disoccupazione scende un po’ ovunque nel mondo e se più o meno di conseguenza anche i salari crescono, per quale diavolo di ragione questo non si riflette nell’aumento dei consumi e, di conseguenza, nella crescita dei prezzi al dettaglio?

L’ESPLOSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO

A una tale domanda si prestano centinaia di risposte possibili che spaziano dall’effetto di normalizzazione dei prezzi dovuto all’aumento del commercio internazionale e all’entrata sul mercato di merci provenienti dai paesi emergenti alla maggior efficienza produttiva dettata dalla digitalizzazione fino alla minor incidenza del consumo energetico.

Ma il punto è che l’individuare risposte corrette a questa domanda ci può rivelare le sorti dell’inflazione attesa e, di conseguenza probabilmente, quelle dei tassi di interesse, nominali e reali. E queste a sua volta sono tutt’altro che irrilevante ai fini degli andamenti dei mercati borsistici.

In altre parole se riusciamo a comprendere i meccanismi di inceppamento nella trasmissione della maggior domanda di beni e servizi ai prezzi dei medesimi (inflazione)possiamo trovare una chiave di risposta alla questione di tutte le altre questioni: il ciclo economico in corso sta esaurendosi oppure è magicamente destinato a prolungarsi, magari indefinitamente?

LE BORSE CONTINUERANNO A SCENDERE?

In una sorta di gioco all’auto-realizzazione delle aspettative, molti investitori hanno di recente diminuito i titoli azionari sul totale dei loro investimenti. Questo, insieme ad un processo di normale rotazione dei portafogli e insieme alle notizie allarmanti che sono state strombazzate dai media di tutto il mondo circa i pericoli di una guerra commerciale, hanno amplificato la volatilità delle borse e ridotto i loro livelli si o ad azzerare la crescita che avevano compiuto nel primo trimestre 2018.

Ma non possiamo chiederci come sta andando l’economia reale osservando i mercati finanziari. Sarebbe come indovinare la strada guardando dallo specchietto retrovisore: la cosa funziona soltanto se il veicolo va a marcia indietro (cioè in caso di recessione). Perché altrimenti non si può fare previsioni a partire dall’ultima derivata (le borse) ignorando le variabili fondamentali che possono muoverla.

E per tornare alle variabili fondamentali, la stagione della dichiarazione degli utili aziendali (e quindi dei dividendi) che sta per aprirsi sembra indicare tutt’altra direzione (estremamente positiva) rispetto alla presunta conclusione del ciclo economico espansivo. Così se questo è l’ennesimo fattore di confusione per interpretare l’andamento delle quotazioni delle borse, esso d’altro canto fornisce anche solide ragioni perché il processo di conversione dei redditi aziendali in investimenti, consumi e risparmio, possa agire in direzione dell’ulteriore crescita economica, anche per gli anni a venire, allontanando lo spettro della recessione.


LA MANCATA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Ma più di ogni altro fattore sono i rendimenti nominali quelli che (seppur pesantemente manovrati dalle banche centrali) esprimono il vero stato di salute dell’economia.

E al momento non possiamo che prendere atto che, pur risaliti di qualche frazione di punto (e nonostante gli sforzi di “forward guidance” della banca centrale americana), su scala globale i loro livelli sono vicini ai minimi di sempre, così come quello dell’inflazione.

Le statistiche infatti spesso non indicano il vero andamento dell’economia reale.

I consumi cambiano e la spesa della gente non si rivolge più come prima ai negozi fisici, ai beni voluttuari, all‘arredo o all’abbigliamento e ai suoi accessori, dal momento che l’abbigliamento formale non è più di moda e le abitazioni diventano minimaliste. Molte altre categorie di beni e servizi sono invece entrate prepotentemente a rubare loro la priorità, a partire dal benessere fisico e mentale (che in passato veniva in qualche modo pagato dallo stato), alla cura della persona, alla formazione continua, all’elettronica e all’informatica domestica, ai servizi online. Tutte spese divenute quasi “necessarie”, soprattutto con una famiglia a carico, che hanno trasformato il concetto di necessità e hanno di fatto ridotto la quota di extra-reddito disponibile per i consumi voluttuari.

I COSTUMI CAMBIANO E LE IMPRESE DEVONO ADEGUARSI

I grandi operatori di internet come Amazon, Facebook, Netflix e Google lo hanno capito benissimo e per primi, e “coccolano” il loro cliente con ogni genere di proposta, frutta e verdura a domicilio comprese (con consegna immediata) a prezzi nemmeno immaginabili dagli altri, complici il mercato dei capitali (che sussidia generosamente le loro perdite) e il basso livello di manodopera richiesto da quei servizi.

Sul fronte dell’occupazione questa tendenza porta a incrementare il numero di persone che lavorano sulla consegna di pacchi e pacchetti, a far crescere l’investimento informatico che ci sta dietro e l’occupazione conseguente, a incrementare l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’altro capo del mondo e a ridurre le segreterie e le posizioni apicali in azienda dal momento che tutto si automatizza.

Anche la pubblica amministrazione tende a ridurre il proprio personale e a fare acquisti solo in rete, mentre e le piccole aziende che fornivano servizi specializzati a quelle grandi oggi trovano insidia nella concorrenza online degli stessi servizi.

Ma il fenomeno dell’espansione del commercio elettronico a ogni settore dell’economia non sembra fermarsi solo a questo. Se lo paragoniamo alla rivoluzione che è derivata dal l’avvento della grande distribuzione organizzata (GDO), il bello deve ancora venire !

Il fenomeno americano che ha preceduto Amazon infatti si chiama Walmart e sulla rivoluzione industriale che l’avvento di quest’ultima ha generato sono stati versati fiumi di inchiostro (soprattutto in America, ovviamente, ma in Europa ci sono stati fenomeni paragonabili come IKEA, ad esempio). L’impatto sulle sorti delle piccole e medie imprese è stato devastante ma in qualche caso anche estremamente positivo.

Stefano di Tommaso




ECCO PERCHÉ I MERCATI FINANZIARI NON BRILLERANNO

I recenti scossoni sui mercati finanziari stimolano il dibattito sulla durata e le possibili evoluzioni dell’attuale super-ciclo economico, ma l’osservazione delle più recenti tendenze dell’economia globale pone molti più interrogativi di quanti ne aiuti a risolvere.
Eppure le possibili risposte alle questioni che emergono appaiono estremamente stimolanti per riuscire a farsi un’idea di dove possono orientarsi i mercati finanziari.

 

Solo pochi mesi fa le borse valori sembravano dolcemente addormentate sopra un letto di fiori: le loro quotazioni, giunte e persistentemente piuttosto stabilmente ai massimi storici, avevano cancellato la tradizionale volatilità e il susseguirsi ininterrotto di notizie economiche positive aiutava la speranza che i livelli stratosferici di capitalizzazione delle borse potessero arrivare a una giustificazione razionale attraverso la crescita degli utili aziendali.

LE RAGIONI DI BREVE TERMINE

Poi alcuni “cigni neri” sono comparsi all’orizzonte :

– dapprima i timori d’inflazione (più volte rientrati),

– dopo è comparso lo spettro del protezionismo (anch’esso oramai di fatto fugato),

– infine lo scandalo del mancato rispetto dei dati personali da parte del più grande social network del mondo (purtroppo confermato) e i timori che possa presagire a una maggiore regolamentazione di tutta la sfera del business su internet.

 Tutti elementi che hanno condotto al ribasso le borse in generale e in particolare l’intero comparto dei titoli cosiddetti “tecnologici”, che sono ancor oggi quelli che esprimono i moltiplicatori di valore più elevati e pertanto sono più sensibili alle attese circa i profitti futuri.

Ma quanto i suddetti timori possono influire sulle quotazioni di lungo termine? La risposta è quasi ovvia: assai poco. Le vere ragioni per cui i mercati finanziari non brilleranno neanche nel prossimo futuro è da ricercarsi altrove.

LE RAGIONI DI LUNGO TERMINE

Agli analisti più attenti infatti le recenti vicende sono solo sembrate delle “occasioni” per scatenare vendite di titoli che forse sarebbero arrivate comunque. Da almeno un anno infatti quasi tutti i grandi gestori di portafogli indicavano  la volontà di assumere una posizione più prudente riguardo alle borse valori, ma sono spesso stati sopraffatti dagli ulteriori e importanti rialzi che queste hanno realizzato ancora in tutto il 2018 e sono talvolta dovuti correre ai ripari riacquistando ciò che avevano venduto.

I motivi di fondo della prudenza degli investitori erano molto più importanti :

– L’aspettativa di riduzione della grande liquidità in circolazione, dai più vista quale principale causa dei forti rialzi delle borse valori,

– L’attesa di passaggio alla maturità dell’attuale ciclo economico positivo americano, già durato straordinariamente più della media ma evidentemente non eterno, che comporterà una riduzione delle attese di profitto che oggi sono ancora molto alte,

– La dichiarata volontà delle banche centrali di avviare il rialzo dei tassi di interesse (qualcuna come la Federal Reserve Bank of America lo ha già fatto diverse volte, qualcun’altra come la Banca Centrale Europea lo ha solo ipotizzato per il prossimo anno), con le ovvie conseguenze che esso può portare in termini di attualizzazione dei rendimenti futuri.

Il grafico sotto riportato indica la strategia condivisa da molti di essi nel medio termine e, di conseguenza, la necessità di riuscire a monetizzare una quota importante del portafoglio azionario:

Il ragionamento degli investitori pertanto non fa una piega: se nel medio termine l’allocazione dei portafogli avrà un assetto più prudente, allora forse è meglio cominciare a vendere subito, prima che i prezzi scendano ulteriormente.

L’IMPORTANZA DELLA CURVA DEI TASSI DI INTERESSE

Ma la vera chiave di lettura dei mercati non riguarda le borse, bensì i titoli a reddito fisso, la cui dinamica esprime talune “singolarità” rispetto alla politica monetaria delle principali banche centrali (che prevede un rialzo generalizzato dei tassi):

– I rendimenti dei titoli a più lunga scadenza non crescono, anzi, scendono, dunque le loro quotazioni crescono, riflettendo una maggior domanda degli investitori più prudenti e, forse, l’aspettativa di una scarsa ricrescita dell’inflazione attesa;

– I tassi a breve invece crescono (principalmente nei paesi anglosassoni), indicando un appiattimento della “curva dei rendimenti” (il grafico dei rendimenti espressi dal mercato per ciascuna delle durate : dalla più breve alla più lunga). Normalmente l’inclinazione è positiva, dunque le durate più lunghe esprimono rendimenti più alti, in teoria grazie al maggior premio per la illiquidità dell’investimento.

Nei periodi nei quali il ciclo economico sta per invertirsi (segnalando una possibile recessione) spesso la differenza tra i rendimenti a lungo termine (tipicamente : a 10 anni) e quelli a breve termine (tipicamente : a 2 anni) si riduce molto, se non diviene addirittura negativa. Questo fenomeno si è dimostrato nel tempo come uno degli indicatori più affidabili dell’incombere di una possibile recessione (vedi il grafico storico 1977-2016 qui riportato):

Oggi -almeno in America- si è in effetti arrivati in zona di rischio, visto che oramai la differenza tra i tassi a breve e quelli a lungo termine è scesa sotto il mezzo punto (vedi grafico):

Ma se si guarda al grafico precedente si può chiaramente vedere che nessuna recessione recente è arrivata sino a quando l’inclinazione della curva è rimasta positiva.

Dal momento tuttavia che la disponibilità di credito e di capitali per gli investimenti risulta particolarmente importante per la salute dell’economia, la gestione dei tassi di interesse risulta cruciale per l’andamento del ciclo economico e questo è anche il motivo per il quale spesso le recessioni sono causate dagli errori di politica monetaria delle stesse banche centrali, molte delle quali hanno come unico obiettivo quello di mantenere basso (ma non negativo) il tasso di inflazione e tendono a rialzare i tassi quando temono che la dinamica positiva di consumi e salari possa surriscaldare l’economia e stimolare un aumento dei prezzi non controllato.

LA BOLLA DEI TITOLI “TECNOLOGICI”

Negli ultimi anni inoltre le banche centrali hanno toccato con mano i possibili danni che può provocare un crollo dei mercati finanziari, ragione per cui tendono a monitorarne da vicino l’andamento per evitare che si gonfino bolle speculative che poi esplodono recando danni all’economia reale. Questo è ad esempio il caso della Federal Reserve, che ha fino ad oggi pilotato abilmente la sua campagna di moderatissimi rialzi dei tassi di interesse proprio in questa direzione.

Ma le quotazioni raggiunte dal comparto “tecnologico” delle principali borse mondiali sono comunque andate oltre ogni ragionevole aspettativa, e non per niente oggi esse sono sotto feroce osservazione. Anche perché il peso che le capitalizzazioni di questi titoli ha acquistato di recente è cresciuto oltre misura sul totale dei principali listini di borsa.

Ecco un panorama dei moltiplicatori toccati dai principali di quei titoli intorno alla prima decade di Marzo:

E’ evidente che in molti di quei casi il mercato si è fatto prendere la mano, tanto da far sembrare titoli come Amazon neanche tra i più cari. Scandalo o meno, c’era da aspettarselo un ridimensionamento di moltiplicatori che in media andavano oltre le cento volte i profitti attesi!

Oggi, anche a causa della forte volatilità rilevata, alla conclusione del primo trimestre del 2018 gli indici delle principali borse mondiali sono (per la prima volta da molti trimestri) scesi al di sotto dei livelli raggiunti nel precedente trimestre (vedi grafico):

NON È’ COLPA DI FACEBOOK

Ma la colpa non è solo di Amazon e delle quotazioni stellari che hanno caratterizzato i titoli che esprimevano le maggiori aspettative di crescita. I recenti ribassi hanno radici nella strana ripresa economica che il mondo moderno sta vivendo.

Si prenda ad esempio la crisi delle vendite al dettaglio, dai più indicate quali vittime dell’insorgere del commercio elettronico. Ebbene, non è vero!

Le vendite online di Amazon, per esempio, nel mercato più sviluppato da quest’ultima (quello americano) contano solo per l’1,5%  del totale delle vendite al dettaglio USA (80 miliardi di dollari su un totale di circa 5.500 miliardi). Il totale del commercio elettronico oggi ammonta all’8,5% circa dei consumi al dettaglio, contro il 2% di dieci anni fa.

Le vendite di Apple in America ammontano a circa 100 miliardi di dollari, di cui due terzi sono relative agli Iphone, con una quota di mercato intorno al 44% dei 150 miliardi di dollari di vendite di telefonini, oltre ai quali ci sono le spese per accessori e servizi collegati (circa 200 miliardi di dollari in totale). Solo 10 anni fa quei 200 miliardi erano solo 10 miliardi di dollari.

Dunque i consumi americani si sono spostati verso i telefonini per circa 190 miliardi di dollari, superando il 3,5% dei consumi totali, cui si sommano altri circa 150 miliardi di dollari relativi agli abbonamenti dei telefonini e ai servizi di rete collegati (un altro 2,7% che porta il totale della spesa per cellulari in USA a circa il 6% dei consumi). Questi 350 miliardi di dollari sono ovviamente stati sottratti ad altri capitoli di spesa, quali l’abbigliamento e gli accessori.

Se prendiamo le spese per la salute e le cure mediche (circa 3300 miliardi di dollari, sebbene non siano catalogate insieme alle vendite al dettaglio), esse sono cresciute moltissimo e oggi ammontano al 60% delle vendite al dettaglio. E’ chiaro che hanno assorbito una parte importante del reddito degli americani e che questo ha contribuito a tenere basse le spese per consumi discrezionali (e quindi anche i livelli di prezzo di questi ultimi).

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI INCREMENTA LA VOLATILITÀ

E’ chiaro che quanto visto fin qui significa che il mondo moderno (di cui l’America è più o meno sempre un precursore) sta cambiando e con esso la profittabilità dei settori economici.

Nella tabella che segue possiamo prendere nota di quali settori industriali hanno fatto le migliori e le peggiori performances fino ad oggi:

Ma ancora una volta le prospettive oggi cambiano, il rischio di una maggior regolamentazione del trattamento dei dati personali tende a ridimensionare pesantemente le quotazioni dei titoli legati a internet (Google, ad esempio) e ai social network in particolare, e di conseguenza anche gli investimenti dei grandi gestori di portafogli devono ruotare.

Ogni importante rotazione dei portafogli tuttavia porta con sè degli inevitabili scossoni e non riesce mai a svilupparsi nella più assoluta “souplesse” perché I gestori cercano di vendere sui rimbalzi.  La volatilità che i mercati sembrano aver stabilmente acquisito in questi mesi è figlia non soltanto della necessità di vendere titoli ma anche della rotazione verso settori più “difensivi”.

E qui il discorso torna al punto di partenza: se tutti cercano di riposizionarsi verso una maggior prudenza alla fine le aspettative si autorealizzano. Difficile attendersi mesi di mercato “toro” con queste premesse!

Stefano di Tommaso