L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso




CON LA BOMBA A IDROGENO LA QUESTIONE COREANA SI COMPLICA. QUELLO CHE I MEDIA NON RACCONTANO PERÒ…

A molti mesi dalla presa di coscienza del fatto che il leader della Corea del Nord farà di tutto pur di non farsi mettere nel sacco dagli Stati Uniti d’America (più o meno in coincidenza con l’elezione di Donald Trump), molte sicurezze relative alle possibili opzioni politiche e militari sono saltate. Non stupisce oggi di apprendere che i militari al soldo di Kim Jong-Un siano pronti anche a montare una testata nucleare all’Idrogeno da centinaia di chilotoni sui propri missili balistici intercontinentali.

La dura verità è che per gli Stati Uniti d’America non ci sono opzioni militari “sul tavolo”, a meno di non rischiare la perdita di decine di milioni di vite umane nei primi trenta minuti di guerra, tanto in Corea del Sud, quanto in Giappone e persino a casa propria. Non ci sono nemmeno vere opzioni di riuscire a sferrare un attacco “chirurgico” . Il dittatore Kim lo sa bene e mostra i muscoli perché ha capito che è questo l’unico modo che ha per non farsi invadere o farsi destituire e sostituire da qualche fantoccio inviato da fuori.

E poi, se anche ci fosse, la realtà è che nessuna opzione militare americana sembrebbe accettabile per la Cina, che da sempre ha considerato la Corea del Nord come uno stato cuscinetto. Dopo quel che si è visto ai confini della Russia, dove ogni pretesto è stato utilizzato dalla NATO per ampliare la propria sfera di influenza, la Cina come potrebbe sperare che una Corea domani riunificata non diventi un avamposto americano si suoi confini? Se ci facciamo caso, addirittura ultimamente gli USA hanno fatto pressioni per il riarmo del Giappone, da secoli uno stato antagonista della Cina.


Quello che i media non raccontano è che la corsa al riarmo del dittatore coreano è da mettere in diretta corrispondenza con la progressiva pressione militare esercitata dagli americani tanto sulla Corea del Sud quanto sul suo angelo custode cinese, affinché egli venisse destituito. Anzi ultimamente le forze armate americane avevano forse sperato che -in nome di un’alleanza commerciale- questo lo facesse la Cina stessa, ma la verità è che non succederà, perché ciò andrebbe contro i suoi interessi nazionali.

La situazione paradossale cui si è giunti è che se Kim attacca l’America (ipotesi peraltro del tutto irrealistica) è solo lui contro gli USA, mentre se l’America attacca Kim anche la Cina risulterebbe in guerra con loro, per ovvi motivi di salvaguardia dei propri confini e dopo un istante da quando i soldati americani avessero varcato le frontiere della Corea del Nord anche quelli cinesi lo farebbero, reclamando la loro sfera di influenza (esattamente come è già successo nel 1950) e, di fatto, cambiati i personaggi, la situazione finale non risulterebbe troppo diversa.

L’unica vera soluzione della vicenda è quello di un mutuo scambio: la limitazione della proliferazione nucleare coreana contro un ritiro delle truppe americane dalla Corea del Sud e dal Mar del Giappone, cosa che convincerebbe anche la Cina delle buone intenzioni degli Stati Uniti se con ciò essi perdessero davvero la capacità di un “pronto intervento” nella regione. Lo faranno mai? È psicologicamente difficile per chiunque accettare di fare un passo indietro ma è anche razionalmente molto rischioso fare degli altri passi avanti verso un conflitto che coinvolgerebbe immediatamente oltre alla Cina anche la Russia, il Giappone, tutti i paesi della NATO e di conseguenza quasi l’intero pianeta!

L’opzione nucleare con Kim Jong -Un non è mai stata realistica ma oggi lo è meno che mai. Gli Stati Uniti lo sanno bene, anche se non lo dicono, perché dovrebbero ammettere di essere stati beffati. Forse anche per questo i mercati finanziari si rilassano e dormono sonni tranquilli. Per quante dimostrazioni muscolari militari entrambi i rivali possano inviare alle televisioni di tutto il pianeta, nessuno sta davvero prendendo in considerazione l’escalation  verso un conflitto termonucleare globale.

 

Stefano di Tommaso

 




GEOPOLITICA E INDUSTRIA DELL’AUTO

Le innovazioni nella filiera dell’industria automobilistica corrono sul filo delle politiche ambientali, degli interessi strategici dell’industria nazionale e delle infrastrutture cui i consumi si appoggiano. Il risultato è parallelo a quello delle sfere di influenza strategica delle maggiori economie del mondo, l’affermazione delle industrie USA e Cina innanzitutto.

 

Fino a un anno fa sembrava che i mega-investimenti annunciati da Google e Apple per la realizzazione di veicoli elettrici e automatici avrebbero ridefinito gli equilibri nell’industria automobilistica e orientato ogni altra mossa nel mercato. I giganti di internet pianificavano di spendere decine di miliardi di dollari per entrare da vincitori in un mercato stagnante e adagiato su parametri e abitudini oramai completamente desueti, dal momento che le emissioni dannose dei motori termici (i diesel in particolare) dovranno essere gradualmente abolite, non soltanto per gli effetti sulla salute, bensì anche e soprattutto per i noti problemi climatici.

Oggi invece il mercato dell’auto, tanto per decisioni governative, quanto per esigenze derivanti dalle preferenze dei mercati di sbocco, sta ugualmente virando decisamente verso soluzioni motoristiche ibride o completamente elettriche, ma nessuno dei giganti americani di internet che sembrava sarebbero entrati a pie’ pari sul mercato sbaragliando gli “incumbents” ha invece mosso passi decisivi.

Le ragioni per le quali Apple e Google non lo hanno ancora fatto sono probabilmente molteplici, ma in ogni caso la loro sfida sarebbe stata di quelle più rischiose perché, in attesa di possibili (ma improbabili) colpi di scena, chi ha mostrato di volersi muovere maggiormente sono stati i grandi produttori di auto tradizionali e quelli dei paesi asiatici. I primi per difendere un ricco oligopolio, i secondi perché i loro paesi sono assillati più di altri dalle problematiche ambientali

In avanscoperta si è mossa ad esempio la Cina, con la Volvo (divenuta di proprietà cinese) e con la BAIC (un colosso con oltre 16mila dipendenti): la prima ha annunciato che dal 2019 ogni nuovo veicolo sarà elettrico, mentre la seconda ha annunciato la creazione di uno stabilimento in joint venture con Mercedes-Benz dove investiranno insieme 750 milioni di dollari.

Mercedes ha anche annunciato, in occasione del G20, di aver appena investito in Cina oltre un miliardo di euro nella produzione di batterie al litio. L’investimento non è un caso che sia localizzato in Cina, dove più sono reperibili metalli, minerali e terre rare necessari per la produzione di batterie e motori elettrici.

I DUE POLI DI ATTRAZIONE: CINA E U.S.A.


A livello territoriale chi pare avere più chances di successo nella conversione dell’industria dell’auto verso la trazione elettrica non sono però i paesi europei, che pure vantano i più importanti gruppi industriali del settore, bensì due poli industriali agli estremi opposti del mercato:
•da un lato gli Stati Uniti, sede della Tesla e della sua “Gigafactory” per la produzione di batterie al litio. L’America è anche il paese dove più sono state sviluppate avanzate tecnologie di intelligenza artificiale per la guida autonoma dei veicoli, per i nuovi sistemi di controllo della trazione, di gestione dell’energia erogata (finalizzati alla riduzione estrema dei consumi) e dove si toccano nuove vette nella progettazione di nuove tipologie di veicoli e di sistemi di controllo. Gli Usa contano di avere un ruolo principale non tanto nella fabbricazione di veicoli bensì soprattutto nella produzione di loro componenti e sistemi, non solo perché quel ruolo in realtà lo hanno sempre avuto, ma anche per merito dei poli di ricerca e sviluppo delle tecnologie che li contraddistinguono;
•dall’altro lato la Cina, un paese che ha tutta una serie di vantaggi a promuovere tanto l’assemblaggio locale di autoveicoli prodotti da terzi quanto la crescita delle fabbriche nazionali di auto elettriche low-cost (con tutto l’indotto tecnologico che queste possono generare), nonché l’investimento in nuove infrastrutture per la ricarica dei veicoli, la produzione delle batterie a partire dal quasi-monopolio di terre e minerali rari che le appartiene e, soprattutto, la necessità di riuscire dotare buona parte dei suoi cittadini (che ancora non li posseggono affatto) di autoveicoli a basso impatto ambientale che appartengano direttamente alla nuova generazione! Già lo scorso anno, la Cina ha costruito il 43% degli 873mila veicoli elettrici assemblati nel mondo, in aumento rispetto al 40% del 2015.


LA SONNOLENZA DEL CONTINENTE EUROPEO E LA SOLITUDINE DEL GIAPPONE

Numerosi sono i motivi per i quali l’industria automobilistica del continente europeo, se escludiamo qualche incursione di WW e DAIMLER-BENZ, non ha davvero investito molto nello sviluppo di nuovi modelli di auto elettrica. Hanno sicuramente contribuito le divisioni nazionali che hanno limitato la completa integrazione dei mercati di sbocco continentali, una certa arretratezza nella domanda di veicoli di nuova generazione e i timori diffusi di successive difficoltà nell’assistenza e manutenzione dei medesimi, ma soprattutto le ulteriori difficoltà derivanti dalla limitatezza della rete delle stazioni di ricarica delle auto elettriche, hanno molto contribuito a polarizzare l’utilizzo delle auto elettriche nel segmento lusso (di chi dunque dispone anche di altri veicoli) e nel segmento cittadino, dove è più facile disseminare un reticolo di colonnine elettriche.

Ma per assurdo chi rischia di rimanere come il fanalino di coda della filiera è chi più di tutti sino ad oggi e prima di tutti gli altri operatori nel mondo aveva investito nella trazione ibrida degli autoveicoli: il Giappone, sede della Toyota-Lexus e caratterizzato da un elevatissimo livello qualitativo di tutte le proprie produzioni, nonché da un deciso grado di loro innovatività. Il Giappone però non può godere né delle economie di scala del rivale continentale né della filiera di produttori di componenti e sistemi che è basata negli U.S.A.


Non per niente Toyota ha deciso di scommettere pesantemente con la sua ultima nata: “Mirai” nell’unica vera alternativa alle auto elettriche: quella che utilizza le cellule a idrogeno: una fonte di energia potenzialmente ancora più efficiente e, contemporaneamente ancora più pulita, dal momento che la produzione e il futuro smaltimento delle batterie elettriche porta con se altri tipi di problemi ambientali. Si veda al riguardo un recente articolo del Financial Times denominato proprio: “La Scommessa del Giappone sull’Auto a Idrogeno” ( https://www.ft.com/content/328df346-10cb-11e7-a88c-50ba212dce4d ).

Il punto è che lo sviluppo di automobili basate sull’idrogeno comporta il dispiegamento di una fitta rete di colonnine di erogazione del medesimo sull’intero territorio, cosa che, a meno di un ribaltamento delle attuali politiche industriali, il Giappone rischia di non riuscire quasi a fare al di fuori dei propri confini nazionali ! Un peccato per il progresso ma un risultato scontato sotto il profilo geopolitico: la Cina ha bisogno di adottare tecnologie americane per far funzionare le sue fabbriche e l’America ha bisogno delle fabbriche e dei consumatori cinesi per fare profitti con le sue tecnologie.  Per tutti gli altri restano solo mercati di nicchia…

Stefano di Tommaso

 




LA CINA STA CAMBIANDO IL PARADIGMA GLOBALE DELLA CRESCITA ECONOMICA

Perché dovremmo preoccuparci della Cina se è così lontana e così diversa da noi? Ricorre spesso questa domanda nella nostra mente: praticamente tutte le volte che leggiamo qualche roboante notizia sulla seconda economia mondiale! Eppure dovremmo farci più attenzione…

 

Le notizie che arrivano a noi dalla Cina spesso sono solo quelle roboanti, perché le altre non vengono nemmeno riprese dai più comuni organi di informazione. Inoltre le notizie cinesi sono spesso roboanti perché le dimensioni di quella nazione spesso sfuggono alla nostra capacità di fare paragoni: non bastano infatti il miliardo e quattrocento milioni di abitanti per ricordarci che la popolazione dell’intera Italia è il 4,3% di quella cinese, cioè meno di un ventitreesimo, ma bisogna tenere conto di altre “dimensioni”.

LA TECNOLOGIA GALOPPA

Quella tecnologica innanzitutto: oggi gli strumenti di pagamento elettronico in Cina hanno superato i 425 milioni di persone, cioè il 65% del totale degli utenti di telefoni cellulari. Per fare un paragone l’utilizzo della moneta elettronica è 55 volte più diffuso che negli Stati Uniti d’America!

È notizia di oggi sul Financial Times che “JINRI TOUTIAO” (che tradotto significa “le principali notizie di oggi” o “Today’s Headlines”), la piattaforma più diffusa al mondo di articoli di stampa e video, ha raggiunto i 600 milioni di utenti (di cui 78 milioni in media attivi ogni giorno), sforna ogni giorno dell’anno più di 200.000 contenuti, ed è stata valutata da un gruppo di venture capitalists americani guidati da SEQUOIA CAPITAL la bellezza di 11 miliardi di Dollari nel suo ultimo round di finanziamento. JT non è altro che una app per smartphones che aggrega e seleziona notizie e video interessanti. Dunque impiega pochissimo personale e funziona in maniera quasi automatica, ma ciò nonostante ha raggiunto una valutazione che è più di venti volte quella ottenuta nel suo primo round di finanziamento internazionale, nel 2014 ed è nata nel 2012. Un modello di business che ha recentemente portato Tencent, la WhatsApp cinese più nota con il marchio WeChat, ai vertici della capitalizzazione mondiale.

LA PATRIA DELLA “SHARING ECONOMY”

Probabilmente in Cina la televisione è meno diffusa e i cellulari sono divenuti lo strumento di diffusione dei media più popolare, anche perché essi servono anche a fare tante altre cose. Basti pensare a colossi del commercio elettronico come Baidu, Tencent e Alibaba (tutti cinesi) per comprendere quanto “profondo” può diventare il mercato online in un Paese in rapida crescita economica: giovane, coeso e dove la sharing economy può attecchire molto più velocemente che laddove deve vincere la concorrenza degli strumenti più tradizionali.

La sharing economy non fa quasi fatturato (distribuendo gratuitamente buona parte del suo “prodotto”) ma crea enormi valori finanziari come si può riscontrare dalla classifica delle società di maggior valore al mondo.

IL CALO DEL PETROLIO HA MATRICE CINESE

Una notizia passata quasi inosservata è quella del brusco calo del prezzo del petrolio negli ultimi giorni (che, unità a quella della rivalutazione dell’Euro, avrebbe dovuto provocare una discesa importante del costo dei carburanti, ma nel ns.paese questo è quasi impossibile). Ebbene: pare che il principale motivo questa volta sia non più l’eccesso di offerta del greggio, bensì il calo della sua domanda cinese, in un contesto di ridotta crescita economica (sebbene sempre superiore al 6% annuo) e soprattutto di un ancor più vistoso calo degli investimenti produttivi. In pratica un’oscillazione della domanda in quel Paese è capace di influenzare il prezzo della principale risorsa energetica del Paese. Non succede nemmeno con gli Stati Uniti d’America!

È perché la Cina compra meno petrolio? Pare che la causa principale sia l’eccesso di debito privato e il conseguente stato di crisi del suo sistema finanziario-ombra (una sorta di contro-sistema bancario), sino ad oggi assai tollerato dalle autorità centrali perché favoriva il finanziamento dello sviluppo economico. Un’eventuale scossone al sistema finanziario cinese potrebbe provocare enormi ripercussioni nel resto del mondo, ma i nostri giornalisti con enorme negligenza quasi non ne parlano!

LA CRISI DELLO “SHADOW BANKING”

Il governo cinese è di recente intervenuto con una stretta creditizia che rischia però di essere tardiva, esponendo il sistema finanziario cinese al rischio sistemico di un crollo generalizzato. Ne è un esempio la forte discesa del valore di capitalizzazione delle due borse cinesi negli ultimi mesi, proprio mentre nel resto del mondo accadeva il contrario. Anche il valore dei titoli obbligazionari cinesi sta scendendo regolarmente, suggerendo un pervasivo timore di shock finanziario. La cosa peraltro rischia di danneggiare presto anche molte altre economie emergenti, nonché le loro borse e le loro valute.

Con le sue grandi dimensioni e le sue specificità la Cina sta insomma cambiando il paradigma mondiale della crescita economica, ma sta anche mettendo a rischio il resto del pianeta.

Ma quella della Cina nel restare l’economia più regolamentata al mondo e nel perseguire il suo autonomo modello di crescita rimane tuttavia estremamente osmotica al commercio internazionale, estremamente proiettata al futuro, alle tecnologie e all’innovazione, ed estremamente permeata dai capitali occidentali e dai valori che essi coltivano. Da quelle parti una coalizione di politici, imprenditori, finanzieri e tecnologi sta forgiando anche il nostro futuro, ma per i media nazionali l’argomento è ancora spesso relegato alle seconde linee.

IL BATTITO D’ALI DI UNA FARFALLA…

La digitalizzazione e la globalizzazione sembrano avere improvvisamente realizzata quell’antica profezia, secondo cui il battito d’ali di una farfalla può scatenare un uragano dall’altra parte del mondo…

 

Stefano di Tommaso