E SE SCOPPIASSE LA PACE ?

La congiuntura mondiale appare così grigia da lasciar pensare che qualcosa di eclatante potrebbe accadere nei prossimi giorni, capace di ribaltare in positivo le terribili prospettive economiche e finanziarie che si stanno concretizzando. D’altra parte l’imminenza delle elezioni in America può spingere verso la riapertura delle trattative per la pace anche perché il mondo occidentale non sarebbe davvero pronto ad uno scontro bellico globale. Ma se così fosse anche l’economia potrebbe beneficiarne, e l’inflazione potrebbe venirne stroncata.

 

Le elezioni di medio termine negli USA sono alle porte (manca un mese) e la situazione generale dell’economia occidentale è sempre più nera. La banca centrale americana (le cui mosse non potranno che essere seguite a ruota da tutte le altre con la situazione che si è creata sui cambi valute) ha reso chiaro a tutti che, nel suo sforzo di combattere l’inflazione, andrà avanti ad innalzare i tassi d’interesse fino a che la crescita economica non calerà fino al punto in cui i consumi inizieranno a raffreddarsi, e con essi i prezzi di beni e servizi. L’ascesa verticale dei tassi di interesse può però fare molto male tanto all’industria quanto al mercato dei capitali, che -in assenza di cambiamenti- prima o poi dovrà prendere atto del fatto che le prospettive di profitto delle imprese quotate sono inevitabilmente destinate al ribasso e che di conseguenza le quotazioni borsistiche diverrebbero sopravvalutate.


La Banca centrale americana (come si può vedere dal grafico) non ha mai alzato così velocemente i tassi d’interesse, promettendo al tempo stesso di continuare a farlo ancora a lungo. Ora il rischio (se non quasi la certezza) è che l’operazione non sia priva di conseguenze sull’economia reale. Ciò che ne può conseguire in parte rischia di diventare anche un problema americano sinanco in caso di forte rivalutazione del Dollaro, e ovviamente sarebbe ancor più serio e drammatico per il resto del mondo: una recessione profonda e un “grande reset” globale di cui in particolare rischia di fare le spese più di altri l’Europa, alleato storico e strategico degli USA, il cui peso morale e culturale sul resto del mondo per di più supera ampiamente i numeri bruti della sua economia.

D’altra parte se davvero si pensa di togliere di colpo e per intero all’Occidente le forniture di risorse naturali che ha sempre comperato a buon mercato dalla Federazione Russa, le conseguenze appaiono sempre più ovvie. Oltre a fare un bel grosso regalo alle economie di Cina e India, in questo momento non particolarmente vicine alle posizioni di Washington e molto felici di acquistare quelle risorse naturali a forte sconto.


Nemmeno all’interno degli Stati Uniti d’America ci sarebbe molto da brindare di fronte ad uno scenario del genere, dal momento che, con il costo delle materie prime che rischia di continuare indefinitamente a salire (si veda il taglio alla produzione stabilito dai paesi aderenti all’OPEC nell’ultimo consiglio), l’inflazione resterebbe insopportabilmente alta per un bel po’ di tempo, persino con l’arrivo di una recessine globale. L’escalation della guerra poi potrebbe fare il resto, rilanciando sino a livelli insostenibili tanto il caro-Dollaro quanto i prezzi dell’energia e facendo crollare gli investimenti privati. Bisogna inoltre ricordare che l’inflazione attuale nasce soprattutto dalle strozzature dell’offerta, più che dagli eccessi della domanda di beni e servizi. Dunque i rialzi dei tassi d’interesse della FED appaiono un’arma decisamente spuntata.


Da questo punto di vista il fattore che ha davvero scatenato l’apocalisse dei rincari è stata indubbiamente la guerra. Con essa e con le sanzioni alla Russia anche l’intera retorica sulla sostenibilità del pianeta sbandierata dai partiti democratici è andata letteralmente a farsi benedire. E dietro alle politiche per una urgente “transizione ecologica” c’erano inoltre molti interessi economici che oggi appaiono calpestati a causa dell’esigenza di reperire altre fonti energetiche, ragione per cui le centrali nucleari sono state rivalutate e quelle a carbone sono state riaperte. Uno smacco per Biden & C. da non poco conto.

Viene perciò da chiedersi se a Washington sono tutti masochisti o se c’è qualcosa che nel frattempo potrebbe succedere. Qualche colpo di scena potrebbe infatti essere nell’aria perché la recessione potrebbe amplificare il malcontento interno all’America e, di questo passo, la disfatta del partito democratico che esprime il governo a stelle e strisce apparirebbe scontata, con la conseguenza che l’elite politica che ci sta dietro rischierebbe di venire letteralmente asfaltata. Ciò è oggettivamente poco probabile: troppi interessi di lobby di ogni genere (e non soltanto quelle dell’energia e degli armamenti) si celano (e neanche troppo) dietro i DEM americani al potere.


La storia recente poi ci insegna che, quando le tendenze dell’economia e della finanza appaiono troppo scontate, qualcosa succede sempre per ribaltarne il corso. E se così non fosse l’intera Europa potrebbe svoltare decisamente a destra iniziando a porre seri dubbi sulla sua inveterata adesione all’alleanza atlantica. Dunque qualche colpo di scena potrebbe essere finalmente nell’aria. E questo colpo di scena non potrebbe che riguardare che l’abbandono (o più probabilmente la momentanea sospensione) del clima di tensione che la situazione dell’Ucraina sta creando a livello globale. I due attentati alle infrastrutture strategiche della Russia nelle ultime due settimane da questo punto di vista appaiono come le gocce che rischiano di far traboccare il vaso della pazienza.


Convengo con i più scettici circa il fatto che esprimo idee parecchio fuori dal coro di tutti i commentatori che oggi compiono estrapolazioni della congiuntura globale, ma io vedo in quelle nere previsioni di una nuova crisi globale un forte iato: se anche una parte dei “poteri forti” desiderasse davvero l’avvento della prossima guerra mondiale, con la speranza di destabilizzare il governo della Russia e di tornare in tal modo a governare un mondo che inizia ad andare fuori controllo a causa del fattore demografico, non avrebbe comunque senso farlo così presto da riuscire -nelle prossime elezioni- a perdere il controllo della politica interna americana.

La Russia dal canto suo avrebbe tutto l’interesse nel trovare presto un punto di compromesso nello scacchiere ucraino, perché altrimenti sarebbe sospinta inesorabilmente verso la necessità di imporre il suo controllo anche su Kiev, e nel farlo ovviamente dovrebbe impiegare molte risorse e sacrificare molte vite umane. La partita perciò apparerebbe più vantaggioso giocarsela sui tavoli negoziali con l’Occidente che sul campo di battaglia. Anche perché né la Cina né tantomeno l’India potrebbero risultare così solidali quando la situazione dovesse incancrenirsi.

Non stupirebbe poi che ciò potesse passare sopra la testa di un pazzo guerrafondaio come Zelenski, che fino a ieri ha costruito una carriera politica sull’alleanza con i battaglioni nazisti e che oggi non trova niente di meglio che lanciare bombe all’interno dei confini russi. L’èlite USA ha quasi sempre “tradito” i propri fantocci usati per agitare temporaneamente le acque. Lo ha fatto ad esempio con Bin Laden. Lo ha fatto spesso in Sudamerica e in Africa. E lo ha fatto più recentemente con Letta, Macron, Markel, Boris Johnson e Shinzo Abe. Figuriamoci se avrebbe problemi a ribaltare Zelenski pur di rilanciare (almeno temporaneamente) lo slogan della pace nel mondo! Una linea di compromesso potrebbe riguardare l’autonomia linguistica e amministrativa delle repubbliche orientali dell’Ucraina, magari con un governo meno estremista a Kiev.

Persino Putin, oggi messo a dura prova dalle fronde interne che hanno mal digerito la chiamata alle armi di alcune centinaia di migliaia di “riservisti” (cioè di civili), potrebbe sbilanciarsi a favore della pace se sul piatto della bilancia comparisse la testa del presidente ucraino.


Le conseguenze in termini economici e finanziari di una apertura in grande stile di nuovi negoziati di pace non potrebbero essere più favorevoli: la fiducia degli operatori economici riprenderebbe decisamente quota e con essa gli investimenti produttivi, essenziali per ridurre le strozzature all’offerta di beni e servizi che hanno sospinto l’inflazione. Sinanco il prezzo del petrolio -di fronte ad uno scenario di pace- non potrebbe che scendere, costringendo gli economisti a migliorare le loro nere previsioni circa la crescita del prossimo anno.


Forse si tratta soltanto di una speranza, ma l’alternativa alla riapertura dei tavoli negoziali appare davvero truce. Mettere la Russia in un angolo con ulteriori provocazioni equivale infatti a spingerla ad iniziare ad usare il deterrente bellico verso l’America e il Regno Unito più che verso Kiev. Per sopprimere governo e parlamento ucraini basterebbe invece qualche razzo ben assestato di quelli ipersonici che si sono visti volare all’inizio del conflitto. L’Intera Europa rischierebbe di essere risucchiata in un tale conflitto per via delle numerose basi missilistiche nucleari NATO dislocate su tutto il suo territorio (soltanto in Italia pare se ne contino 29). Sarebbe l’inizio delle ostilità in grande stile, nonché il disastro delle prospettive economiche globali per il prossimo anno: non il migliore dei biglietti da visita per l’amministrazione Biden alle prossime elezioni!

Stefano di Tommaso




NEL MONDO PREVALGONO I TIMORI

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La congiuntura internazionale non promette bene. Non sono soltanto i timori relativi all’inflazione e al conseguente rialzo dei tassi d’interesse a spaventare gli operatori. È soprattutto la prospettiva di recessione globale a generare aspettative riflessive e a frenare le borse. E il gioco delle aspettative spesso conta più di ogni altra cosa. Proviamo a osservare i fenomeni inizialmente a livello internazionale, per poi scendere in maggior dettaglio relativamente al nostro paese e alle conseguenze sui mercati finanziari.

 

A livello internazionale la prima cosa che possiamo notare è il rallentamento generalizzato dell’attività economica: una serie di fattori stanno infatti congiurando per una brusca frenata della crescita. La guerra in Ucraina, nonostante il forte impegno finanziario per molti paesi che la sostengono, è soltanto uno dei fattori che portano nella direzione della recessione: ce ne sono ancora molti altri! Così come la pandemia, pur avendo costretto mezzo mondo a stare a casa per mesi non è stata da sola capace di generare una grande recessione globale, oggi invece il quadro è più complesso per l’effetto congiunto di molti elementi negativi e tale possibilità si fa più concreta.

I MEGATRENDS CHE FRENANO

La società di consulenza di Washington Mehlman Castagnetti Rosen & Thomas per esprimere questo concetto ha elaborato il seguente grafico, dove si possono leggere i principali che oggi stanno rallentando la crescita economica:

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Come si può leggere nell’immagine, uno dei fattori che più hanno inciso sui “venti a favore” della crescita fino a un paio d’anni fa e che oggi generano invece “venti frontali” che ostacolano la crescita è quello della geopolitica. Siamo passati dalla cooperazione alla competizione tra America e Cina. Dalla globalizzazione selvaggia al confronto tra crescenti nazionalismi, dalla ricerca dell’efficienza globale delle filiere produttive alla ri-nazionalizzazione delle fabbriche in ottica di “resilienza” strategica.

DALL’INCREMENTO DEI COSTI INDUSTRIALI…

Dalla prevalenza di meccanismi deflattivi quali l’investimento in nuove tecnologie e la diversificazione delle fonti energetiche, siamo arrivati oggi alla restrizione della capacità produttiva delle filiere di approvvigionamento di minerali, materie prime e derrate alimentari, proprio mentre la ripresa post-pandemica ne incrementava la domanda.

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Ovviamente tutto ciò ha provocato un deciso incremento dei costi dei fattori produttivi, a partire da quelli dell’energia e dei trasporti, ostacolando il commercio internazionale. Quelle sopra citate sono inoltre delle tendenze generali di lungo termine che sono state innescate nel corso di diversi anni e che di conseguenza potranno andare avanti ancora molto a lungo. La cosa che più impressiona però è il fatto che nel complesso il mondo è passato da uno scenario di crescita economica e bassa inflazione (o addirittura di de-flazione) ad uno completamente inverso: di stagnazione e inflazione al tempo stesso!

…AL RIALZO DEI TASSI D’INTERESSE

Contestualmente al radicale cambio di scenario si inseriscono poi gli interventi (o sarebbe meglio dire: le tirate di freni) delle banche centrali. Correttamente ma tardivamente preoccupate per l’inflazione galoppante, esse rischiano, nella loro miopia, di fare ora altri danni, generando un rialzo dei tassi e riducendo la liquidità disponibile con la cancellazione delle facilitazioni monetarie. E questo avviene proprio quando i debiti pubblici dei paesi occidentali sono arrivati ad eccessi pericolosi e quando sarebbero potuti finalmente decollare importanti investimenti infrastrutturali (di cui ora si è smesso di parlare).

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Si tratta di politiche monetarie che comportano indubbie tensioni sulla tenuta dei giganteschi debiti accumulati negli anni “facili” della crescita economica (non a caso in Italia lo spread con la Germania sale), e che riducono le risorse disponibili anche per il settore privato, limitando di fatto l’incentivo a proseguire gli investimenti tecnologici e produttivi. Il maggior rialzo dei tassi è stato operato inoltre negli Stati Uniti d’ America, generando grande forza del Dollaro americano e un conseguente enorme danno per i paesi emergenti e le fasce più povere della popolazione mondiale, che pagano in Dollari tanto gli interessi sul debito con il resto del mondo quanto gli approvvigionamenti alimentari.

GLI EFFETTI NEGATIVI DELLE SANZIONI SULL’U.E.

A livello europeo poi c’è un problema in più: la spesa di diverse decine di miliardi di euro per il sostegno della resistenza ucraina e per l’accoglienza dei relativi profughi e, soprattutto, le sanzioni economiche imposte alla Russia, stanno comportando una brusca frenata per le esportazioni di moltissime imprese europee, nonché un calo dei flussi turistici. La guerra ha inoltre generato un problema che per sua natura è globale ma è molto più tangibile in Europa che altrove: esso riguarda il prezzo e la disponibilità di energia, balzato alle stelle il primo, scesa ai minimi storici la seconda. Anche grazie alle sanzioni alla Federazione Russa e ai suoi alleati, il rischio è concreto che l’Europa possa vedere fortemente compromessa la propria capacità di approvvigionamento di gas e petrolio.

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In Italia ad esempio il Centro Studi Confindustria (CSC) fa notare che il prezzo medio del gas naturale è salito di quasi 7 volte (+698%) in due anni (cioè da prima dello scoppio della pandemia). Il costo del petrolio in confronto è salito ben poco: ”soltanto” del 56%. Ora non si può ragionevolmente ritenere che questi aumenti potranno provocare per l’anno in corso un’inflazione limitata a quella oggi riportata dalle statistiche ufficiali (intorno al 7%).

E CHI CI RIMETTE DI PIÙ E’ L’EUROPA

Non a caso le principali economie europee nella prima parte del 2022 ristagnano, mentre Italia e Germania addirittura arretrano. Ha fatto scalpore nelle ultime ore la notizia che nello scorso mese di Marzo la produzione industriale in Germania (la principale economia europea e il principale paese esportatore nel resto del mondo) è discesa di quasi il 4% (del 4,6% se si escludono energia e edilizia). Sempre in Germania a Marzo si è registrato un incremento dei prezzi alla produzione di quasi il 31% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, con una prima rilevazione dell’inflazione dei prezzi sui beni di consumo giunta in Aprile quasi ai livelli americani: 7,4%!

Nel dettaglio, la produzione tedesca di beni strumentali è calata del 6,6%, quella dei beni intermedi del 3,8% e quella dei prodotti energetici dell’11,4% e addirittura la produzione delle auto è scesa del 14%. In Italia la produzione industriale sembra essere scesa a Marzo “solo” del 2,5%, ma molte altre delle dinamiche appena evidenziate per la Germania assomigliano parecchio a quelle nostrane, solo con qualche limitazione a causa della minor dipendenza dell’economia italiana dalla produzione automobilistica.

E IL RE-SHORING COSTA CARO!

Abbiamo già osservato come, dopo la fase delle delocalizzazioni produttive in Asia, il nuovo scenario geopolitico sta spingendo gran parte delle imprese che se lo possono permettere a investire sul “re-reshoring” delle produzioni industriali, spostandole a località e mercati con minore rischio geopolitico. Ma il “tornare indietro” per molte imprese europee sarà un processo costoso, difficile, doloroso e lento, con complicazioni che si aggiungeranno a quelle appena evidenziate!

Molti commentatori fanno poi notare che mentre oggi i principali fattori che rallentano l’economia sono le strozzature e i rialzi dei costi all’offerta di beni e servizi, a breve potrà intervenire a frenare ulteriormente l’economia un fattore che sino ad oggi era parso relativamente stabile: la domanda dei medesimi. L’inflazione dei prezzi ha infatti depauperato buona parte dei consumatori, privandoli sostanzialmente di una quota del loro reddito disponibile. E questo vale per buona parte della popolazione europea, sottoposta a contratti di lavoro più rigidi di quelli dei paesi anglosassoni e dunque meno capaci di reagire con un rialzo repentino delle retribuzioni.

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Ci sono paesi però come la Francia dove il 27% della produzione energetica arriva a costi bassissimi dalla fonte nucleare. Altri come molti paesi nordici che sono esportatori netti di petrolio e gas. Mentre in Italia e in Germania l’emergenza energetica ha spinto i governi a riattivare le centrali elettriche alimentate a carbone, ma con il rischio di un pesante incremento delle emissioni nocive!

LA FIDUCIA SCENDE IN ITALIA

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Tutto ciò non può non influire (negativamente) sul clima di fiducia che si respira nell’industria e che risulta essenziale per sostenere gli investimenti strumentali, a loro volta essenziali per sostenere l’occupazione. A casa nostra siamo inoltre più penalizzati di qualunque altro paese europeo dalla maggior tassazione rispetto a tutto il resto del mondo. Nel corso del 2021 l’Italia ha infatti battuto il record mondiale (nonché storico) di tassazione media dei redditi, arrivando al 43,5% del Prodotti Interno Lordo.

Non a caso l’indice delle attese sull’economia italiana ha registrato un crollo dal +0,6% a inizio anno fino a – 34,8% di aprile, valore comparabile a quello di dicembre 2020 (dopo la seconda ondata pandemica). Il peggioramento dell’indice di incertezza della politica economica che per l’Italia è salito a 139,1 punti a marzo per poi attestarsi su un valore poco inferiore in aprile (129,2 punti, +28,5% rispetto al 4° trimestre del 2021), accresce i rischi di un ulteriore indebolimento.

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I MERCATI FINANZIARI NE RIMANGONO DANNEGGIATI…

Ecco spiegati i contorsionismi delle Borse valori di tutto il mondo. Almeno sino a quando non arriverà qualche segnale positivo. Nonostante si potesse iniziare a sperare che il programma di rialzi dei tassi d’interesse fosse già stato assorbito dai mercati finanziari e che di conseguenza ogni futura flessione del picco inflazionistico attuale potesse tradursi in un rialzo delle Borse, assistiamo invece a un progressivo deterioramento del contesto economico globale, al perdurare di elementi inflattivi che non potranno essere disinnescati tanto presto, allo scemare delle speranze di fine della guerra con la Russia e alla conseguente caduta dell’ottimismo da parte degli operatori economici.

I mercati finanziari vorrebbero riuscire a vedere per primi la luce in fondo al tunnel, ma non la scorgono nemmeno con il più potente dei telescopi. È questo che dunque spinge gli investitori di tutto il mondo a cercare di liquidare buona parte dei propri asset per accumulare ciò che oramai sembra l’elemento che presto potrebbe scarseggiare: la liquidità.

Se le banche centrali non cambieranno presto la loro impostazione infatti l’unico modo di poter un giorno tornare a beneficiare della risalita delle quotazioni è quello di vendere oggi ogni genere di asset finanziario per tornare a disporre di quella liquidità che potrebbe consentire domani di comperare a prezzi più bassi.

…E GLI INVESTIMENTI IN INNOVAZIONE TECNOLOGICA RINVIATI

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Un meccanismo perverso che non può che rallentare gli investimenti di cui avremmo più bisogno: quelli in innovazione e tecnologia, penalizzando al tempo stesso tutte le attività economiche che non risultino strettamente legate all’energia, alla produzione alimentare e alle tecnologie per gli armamenti. E che rischia di provocare una recessione globale peggiore di quella post-pandemica!

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LA BORSA CONTINUERÀ A PERFORMARE

La Compagnia Holding
Non ci sono soltanto argomenti a favore delle borse a causa della liquidità dilagante dei mercati in queste ore: la narrativa delle cause per le quali i mercati finanziari dovrebbero continuare a brindare nonostante le difficoltà dell’economia reale e il forte incremento dell’inflazione dei prezzi si è recentemente ampliata ad una moltitudine di fattori, soltanto alcuni dei quali vengono normalmente presi in considerazione dagli operatori di mercato. Eppure rischiano di essere quelli che conteranno di più…

 

Chi compra e vende in Borsa infatti ha soltanto parzialmente la possibilità di informarsi sui macro-trend di lungo periodo e forse non vi è nemmeno troppo interessato dal momento che resta sempre valida la famosa massima di John Maynard Keynes: “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Eppure talvolta può avere senso guardare anche oltre l’orizzonte per chiedersi dove va il mondo, soprattutto quando nel breve termine le nebbie dell’incertezza lo avvolgono e una serie di segnali di possibile inversione del ciclo mettono paura e costringono chi ne rimane interdetto a cercare di comprendere meglio ciò che succede.

Le borse notoriamente tendono ad anticipare le grandi tendenze di fondo, anche quando queste anticipazioni possono rivelarsi contraddittorie e rischiano di venire ribaltate. È la natura dei mercati ed è il motivo per il quale, di tanto in tanto, la volatilità dei loro corsi si impenna e arrivano tempeste. Difficile predirle con certezza e ancor più difficile è mettersi al riparo quando arrivano.

Questa volta la congiuntura economica non potrebbe apparire più in contraddizione con l’andamento dei mercati finanziari, così come lo è addirittura una serie di segnali che, storicamente, li hanno accompagnati ad importanti ribassi, quali la prospettiva di un rialzo dei tassi d’interesse, quella di un vistoso ribasso dei rendimenti “reali” (cioè al netto dell’inflazione), e persino quella di una possibile riduzione dei profitti aziendali.

Se in passato tutti questi indicatori avrebbero riempito di timori chi investe per professione o per gestire i propri risparmi, oggi sembra che le famose “regole del pollice” possano non funzionare più come una volta, almeno nel breve termine. Se poi ci aggiungiamo che la vera causa di ciò risiede probabilmente nelle tendenze di lungo termine (cioè quelle che poi nessuno guarda davvero quando opera) ecco che il disorientamento cresce e ci si può chiedere con angoscia se stiamo vivendo in un mondo rovesciato (e di conseguenza quanto potrà durare).

Probabilmente si, una serie di coordinate dell’intelletto appaiono oggi saltate o in seria difficoltà a fornire indicazioni utili e, nonostante tutto quanto sopra possa indicare con decisione la prospettiva di un consistente ribasso dei mercati e rialzo dei tassi d’interesse, non si trova (quasi) nemmeno uno spaventapasseri pronto a scommetterci seriamente. Tutti sanno che l’albero della cuccagna non ha esaurito i suoi frutti, sebbene si possa soltanto tentare vagamente di comprenderne le ragioni:

  • Le banche centrali non vogliono e non possono allentare davvero la presa sugli acquisti di titoli a reddito fisso (quantomeno quelli che finanziano i debiti pubblici) perché è la politica che -indirettamente- glielo impone. Dunque i mercati rischiano di restare a lungo piuttosto liquidi, nonostante ogni tanto qualche portavoce dei “prestatori d’ultima istanza” provi a fare “buh”! e faccia finta di andare nella direzione opposta.
  • I profitti aziendali non scenderanno davvero e non hanno alcuna prospettiva seria di ribasso nonostante il peggioramento tangibile dell’economia reale. I motivi: probabilmente perché non vivono al “ground zero” come gli altri comuni mortali: il 60-70% del valore di capitalizzazione totale dei maggiori indici borsistici è composto di grandi e grandissime conglomerate multinazionali, il cui potere di mercato tende soltanto a crescere e le cui risorse tecnologiche tendono soltanto ad aumentare. Morale: comprate titoli di larga capitalizzazione e state attenti agli altri, soprattutto quando esprimono un basso contenuto tecnologico. Le innovazioni in arrivo rischiano di radere al suolo la vecchia industria e di continuare ad arricchire le imprese più capaci di “cavalcare la tigre”!
  • È in arrivo (nonostante i debiti pubblici) una montagna di denaro pubblico e di garanzie governative a favore dei grandi investimenti infrastrutturali che porteranno forti salti di qualità nello sviluppo delle città, dei mezzi di comunicazione e dei sistemi logistici e di trasporto. Non perché qualche politico illuminato lo abbia voluto strenuamente, bensì per la mole di interessi che vi risiedono attorno. I grandi “contractors” non potranno che continuare a guadagnare, così come i banchieri che li assistono e i fornitori strategici che li controllano di fatto (a partire da quelli che li approvvigionano di energia, materie prime e semilavorati strategici, o che cercano e forniscono risorse umane. Anche i titoli di questi ultimi perciò sembrano molto bene impostati ma… attenzione! Soltanto quelli più importanti e più globalizzati!
  • Il Green Deal è tutt’altro che morto dopo la pandemia epocale che stiamo tutt’ora subendo: anzi rischia di esaltarne i diktat e le priorità politiche, dunque anche su questo fronte c’è da attendersi una montagna di investimenti pubblici e privati, grandi incentivi fiscali e grandi monopoli e oligopoli di fatto che nessuno si sognerà di sanzionare (per il momento almeno). Ne beneficeranno ovviamente tutti i settori più esposti alla cosiddetta “sostenibilità” ambientale, a partire dai produttori di veicoli elettrici e di energie da fonti rinnovabili, fino a chi gestisce l’ecologia e il riciclo dei materiali (anche se in misura minore).
  • Infine ancora una volta la tecnologia. Ma non quella de’noantri! Quella epocale e “spaziale”: l’intelligenza artificiale, la grande cybersecurity, la robotica, l’informatica quantistica e iper-performante sui “big data”, la fabbricazione delle batterie del futuro e dei sistemi di conservazione dell’energia e, soprattutto, la ricerca medica e farmacologica più avanzata. I titoli dei gruppi (grandi e piccoli) capaci di accreditarsi come i campioni di questi settori non potranno che volare alle stelle, indipendentemente dalla loro effettiva capacità di trasformarsi in grandi produttori profittevoli. Di nuovo: almeno per il momento! Di questi operatori c’è un grande bisogno anche se è chiaro a tutti che prima o poi la festa arriverà alla sua conclusione naturale…

Morale: non è difficile prevedere che di fronte a “cotanto consesso” di candidati a guadagni stellari per tutti gli altri non resteranno che le briciole, se resteranno. E, a prescindere dal fatto che siano quotate in borsa o meno, le imprese più profittevoli, più estreme e con maggiore di capacità di crescere verticalmente e globalmente saranno ovviamente le altre preferite. Per esempio dai grandi fondi di private equity, che arrivano dove non arriva la Borsa e dove non ha senso che arrivi il Venture Capital. Insomma la grande finanza sembra destinata a vincere dovunque, sempre per il momento. E dove non arriva la grande finanza è probabile che resti soltanto un deserto.

E in Borsa sono quotate soprattutto le imprese migliori, gli indici di borsa sono composti dalle imprese più grandi e più globalizzate. E circa la metà di tutta la capitalizzazione di borsa dell’indice Standard & Poor 500 (a Wall Street) è fatto da imprese iper-tecnologiche. Difficile pensare che – nella lotta per la sopravvivenza –  avranno la peggio, così come è difficile prevedere un futuro roseo per le borse dei Paesi Emergenti o delle repubbliche più piccole dell’Unione Europea, persino quando le quotazioni delle rispettive borse hanno ancora un bel diverso di performance da recuperare, come nel caso dell’Italia.

Se vi piace vincere facile dunque bisogna riuscire a scommettere sui titoli quotati, sulla grande finanza, sui settori favoriti e sulle grandi trasformazioni epocali. Al momento è così, mentre rischia di essere molto “grigia” per tutti gli altri, per la piccola industria di stampo tradizionale e per le imprese familiari che non hanno acceso ai monopoli e oligopoli garantiti dalla politica. E tutto questo sempre per il momento. Quando sarà passato questo momento nessuno sa bene cosa succederà. E non mi stupirebbe osservare una specie di cataclisma che si abbatterà sul mondo. Ma quelli della mia generazione rischiano di non vivere abbastanza a lungo per riuscire ad osservare il ritorno alla realtà. Oggi è quella virtuale che vince su tutto!

Stefano di Tommaso




CHI SOSTERRÀ L’EXPORT ITALIANO?

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Apparentemente le notizie sono eccellenti per l’economia italiana: il primo semestre dell’anno ha visto una straordinaria ripresa dei volumi di produzione ed export della macchina industriale nazionale. Ma il successo per l’economia del nostro Paese è meno scontato di quanto sembri, a causa del potenziale spiazzamento delle piccole e medie imprese italiane derivante dall’elevata tassazione, e a causa dell’inflazione e del rischio di non trovare sufficiente credito. In questo il governo italiano sta facendo molto ma non ancora a sufficienza.

 

OTTIMI RISULTATI INDUSTRIALI NEL PRIMO SEMESTRE

La direzione corporate di Intesa San Paolo ha presentato nei giorni scorsi i risultati di un’indagine sui 158 distretti industriali italiani, i cui risultati appaiono estremamente lusinghieri per il primo semestre 2021: nuovo record dell’export nazionale nei 6 mesi a quasi €65 miliardi (oltre quelli del 2019), 145 di essi appaiono in crescita (il 92%) e 101 distretti produttivi sono andati oltre i livelli del 2019.

Come si può leggere dal grafico sotto riportato, primeggiano nella crescita delle esportazioni i produttori di elettrodomestici, metallurgia, arredo e costruzioni. Poco sotto i livelli del primo semestre 2019 l’export del settore meccanico, mentre è ancora pesantemente dietro ai livelli pre-covid il sistema moda (-29%) con gli altri beni di consumo (-10%) . In totale ci si attende per fine anno un avanzo commerciale dell’industria italiana di oltre 100 miliardi di euro.

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Se dopo la crisi del 2009 ci vollero due anni per tornare ai livelli produttivi pre-crisi, dopo quella del 2020 sono apparentemente bastati soli sei mesi. Ovviamente è stato di sicuro complice di tale risultato la pesante riallocazione delle filiere di sub-fornitura della grande industria europea a favore delle imprese continentali, tra le quali quelle italiane sono spesso tra le principali terziste, anche se la festa rischia di durare poco.

La performance industriale del resto d’Europa nello stesso periodo è stata infatti assai meno positiva, come si può leggere dalla tabella comparativa qui sotto riportata (la performance si riferisce al periodo gennaio-luglio 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020, nei quali come è noto il nostro Paese aveva fermato più di altri la macchina produttiva) :

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INFLAZIONE E CONGIUNTURA RISCHIANO DI ROVINARE LA FESTA

A preoccupare però sono i rincari di energia e materie prime scattati nel secondo semestre del 2021, che oggi minacciano le imprese di far azzerare i margini industriali accumulati nel primo semestre, oltre evidentemente ad un deterioramento complessivo del clima di ripresa e fiducia che si era diffuso all’inizio dell’anno.

Il rincaro delle materie prime cui assistiamo negli ultimi mesi è soprattutto l’inevitabile conseguenza del rimbalzo post-lockdown della domanda di energia, che si è scontrata con una carenza di offerta di idrocarburi derivante anche dalla pretesa di sostituire velocemente le tradizionali fonti energetiche di origine fossile (tipicamente petrolio, gas e carbone) con quelle rinnovabili come sole e vento. Non soltanto la produzione di energie da fonti rinnovabili non ha ancora raggiunto in molti casi l’efficienza necessaria a fare a meno dei sussidi pubblici (la cosiddetta “carbon parity”), ma non è ancora altresì sufficientemente assistita da adeguati sistemi di accumulo dell’energia prodotta nelle ore di punta.

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Tecnicamente dunque l’ambizione di sostituire rapidamente le fonti energetiche tradizionali con quelle meno inquinanti è stata prematura. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: la forte riduzione degli investimenti nell’estrazione di petrolio, gas e carbone (penalizzati dalle normative ambientaliste) ha determinato uno strozzamento dell’offerta delle materie prime energetiche di origine fossile e un deciso rincaro dei relativi prezzi. Questi ultimi hanno agito da detonatore per un rialzo generalizzato dei costi delle materie prime, che ha a sua volta provocato l’inflazione dei prezzi immediatamente a valle: quelli dei principali fattori di produzione dell’industria.

E poiché in molti casi la concorrenza e la subalternità di fornitura di parecchie piccole e medie imprese italiane mei confronti delle grandi multinazionali non consente di scaricare a valle il rincaro subìto nei costi dei fattori di produzione, ne consegue un pericolo per la stessa sopravvivenza di molti dei distretti produttivi italiani.

GLI INTERVENTI DI MARIO DRAGHI

Per una volta il governo italiano ne è stato perfettamente conscio ed è intervenuto silenziosamente ma efficacemente più volte, tanto nell’assicurare l’arrivo dei primi fondi europei, quanto nello sblocco di maggiori forniture di gas (con il sostegno all’apertura del North Stream, il gasdotto che passa dal nord Europa), come pure nel ridurre i limiti e le strozzature alla normativa per l’utilizzo degli incentivi alle ristrutturazioni edilizie (il cosiddetto “Superbonus”), e infine nell’evitare tensioni inflative e salariali con la fiscalizzazione di parte dei rincari della bolletta energetica.

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Ma la partita per le piccole e medie imprese italiane è ancora molto più complessa: se da un lato esse hanno bisogno di mantenere margini positivi tra costi di produzione e ricavi, dall’altro lato sono sottoposte ad una fortissima pressione fiscale (“vantano” il record mondiale di tassazione, come si può leggere dalla tabella qui accanto riportata), dall’altro ancora hanno anche bisogno di sostenere finanziariamente l’incremento di capitale circolante e, soprattutto, di tornare a investire.

Tutto questo mentre è in corso un duro scontro politico nel Paese circa le riforme economiche (e fiscali) e mentre la congiuntura generale del mercato finanziario rischia un deciso peggioramento, con il rialzo dei tassi d’interesse e i cali del mercato borsistico.

I RISCHI FINANZIARI PER LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

In Italia il 90% delle esigenze finanziarie delle piccole e medie imprese (PMI) è tutt’ora fornito dal sistema bancario, sul quale ha agito efficacemente nel recente passato la vigilanza della Banca Centrale Europea, allentando i requisiti patrimoniali richiesti nell’erogazione del credito e lanciando il cosiddetto “PEPP” (Pandemic Emergency Purchase Program) per fornire adeguata liquidità agli istituti di credito, che si è rivelato provvidenziale.

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Il punto è che tali misure erano legate al raggiungimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2% (fino all’inizio del 2021 c’era viceversa un serio rischio di deflazione) che oggi è stata ampiamente superata anche nelle statistiche (che notoriamente sono sempre in ritardo) mentre i livelli di erogazione del PEPP a Settembre stavano già eccedendo l’obiettivo programmato di 1700 miliardi.

L’inflazione in Germania ha viaggiato invece nell’ultimo mese al 4,1% e la media europea ha raggiunto il 3,6%. Il rischio dunque è che i paesi “frugali” del nord Europa possano richiedere la riduzione degli incentivi alla liquidità del sistema bancario nel timore che essi possano alimentare la spirale inflativa. Ciò ridurrebbe la provvista finanziaria per le banche italiane e a farebbe tornare a crescere il livello dei tassi d’interesse, cosa che andrebbe immediatamente a scoraggiare gli investimenti produttivi. Tutto questo mentre la domanda di produzione industriale è in crescita e l’esigenza di fare efficienza aumenta la necessità di modernizzare l’industria.

COSA FARE DUNQUE ?

Le imprese italiane sono state storicamente sottoposte ad una serie di svantaggi competitivi rispetto a quelle di quasi tutto il resto del mondo che andrebbero rimossi. Ad esempio:

  • il progressivo riavvio delle attività di riscossione delle cartelle esattoriali (ancora sospese in Italia causa pandemia) rischia presto di drenare molta liquidità al sistema produttivo e occorrerebbe procedere alla loro rottamazione;
  • al momento ancora non si parla di possibili de-fiscalizzazioni degli investimenti, che sarebbero tanto più necessari dal momento che l’orientamento politico nazionale non sembra ancora indirizzato alla riduzione delle aliquote di tassazione, per rimuovere la differenza con le altre imprese europee;
  • come si può dedurre da quanto sopra la situazione economica italiana è sì in ripresa (si parla di un rimbalzo del prodotto interno lordo di circa il 6% nel 2021, ma si confronta con un calo del P.I.L. del 9% dell’anno precedente) ma il rischio per le imprese nazionali è quello di non disporre di un adeguato supporto finanziario proprio mentre stanno subendo una forte riduzione dei margini;
  • resta certamente da prendere in seria considerazione un rilancio degli investimenti infrastrutturali, sui quali non si è ancora fatto abbastanza e che potrebbero contribuire non poco tanto al rilancio dell’economia reale quanto al miglioramento dell’ambiente generale nel quale si muove l’industria nazionale. Non soltanto nelle telecomunicazioni e nell’apparato viario (sebbene siano fortemente arretrati) ma anche nello sviluppo dei sistemi logistici intermodali, nella modernizzazione della pubblica amministrazione, nel supporto a ricerca, innovazione e start-up, negli incentivi atti a contrastare la fuga dei cervelli e degli imprenditori;
  • anche l’intera filiera turistico-ricettiva (ivi compresi i servizi connessi, l’intrattenimento e la ristorazione) è stata messa a dura prova dal lockdown e resta, dopo la crisi subìta, ancora fortemente danneggiata. Nei confronti degli operatori di quel settore ancora molto poco è stato fatto per supportarne tanto la ripresa dell’attività quanto gli investimenti, nonostante il nostro Paese contempli la maggior parte del patrimonio storico e artistico mondiale;
  • esistono numerosi incentivi e misure di supporto agli investimenti legati alle esportazioni, previsti dalla Simest (la finanziaria di Stato che finanzia le imprese italiane quando vanno all’estero), che tuttavia non hanno ricevuto nel recente passato sufficiente una copertura finanziaria. Ragione per cui molte imprese italiane che avrebbero potuto beneficiarne ne sono beffardamente rimaste escluse. Poter disporre finalmente di tali misure nei limiti di legge senza dover sottostare a bandi e infinite graduatorie potrebbe migliorare non poco la capacità di esportazione degl’Italiani.

Occorre in definitiva una forte presa dì coscienza al riguardo delle misure ancora necessarie per il sostegno all’industria nazionale, altrimenti la pandemia non ancora terminata passerà alla storia come la buccia dì banana che ha fatto scivolare l’Italia al livello dei paesi del terzo mondo! Il governo Draghi sta comportandosi oggettivamente nel migliore dei modi possibili ma la ripresa dell’occupazione dipende soprattutto dalla performance delle attività private, perché quelle pubbliche sono già finanziate in deficit e non potranno perciò ragionevolmente espandersi ancora.

Stefano di Tommaso