ECONOMIA DI GUERRA

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Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

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…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

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Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

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Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

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Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

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IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

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COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

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Stefano di Tommaso




L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

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Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

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MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

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L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

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Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




SETTEMBRE, TEMPO DI MIGRARE

“Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natia rimanga né cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io co’ miei pastori?”
(Gabriele D’Annunzio)

 

Il mese di settembre per i mercati finanziari non è mai stato facile o tranquillo, né ricco. E chiunque abbia già vissuto qualche decina di altre stagioni osservando i listini può scommetterci forte: nemmeno questo Settembre promette bene, come peraltro si è già abbondantemente visto tanto sulle piazze principali, come a Wall Street e al Nasdaq, ma anche in quelle secondarie come la nostra Milano.

Soprattutto sono le emozioni dell’ottovolante quelle che oggi spaventano più gli investitori, perché se da un lato i mercati hanno mostrato chiaramente di non essere ancora arrivati a toccare i massimi, dall’altro lato sempre più professionisti dei mercati finanziari ora hanno la pancia piena, le idee confuse e poca voglia di mettere a rischio le performance già realizzate fino a questo momento (vedi grafico):

Continuando con l’analogia dei pastori che si apprestano alla transumanza, essi “hanno bevuto profondamente” alle fonti della ricchezza e ora più che mai sentono essere arrivati vicini al momento della svolta, del “Sell-off”, sebbene neanche questa volta c’è qualcuno in grado di affermare che le borse abbiano toccato il massimo, tanto per la clamorosa crescita dei profitti (che rilancia in alto la sfida dei multipli di borsa), quanto per la sempre maggiore polarizzazione dei listini intorno ai titoli che promettono clamorose crescite per il futuro, lasciando invece a bocca asciutta le altre Blue Chips dei bei tempi che furono.

Dunque i mercati non sono stupidi, nè sembrano arrivati al capolinea. Operano importanti “distinguo” e cercano ulteriori spazi operativi, e impongono ai gestori una cospicua rotazione dei portafogli. Ma è altrettanto vero che il trenino degli alti e bassi di un giorno o di una settimana al massimo, dopo la pausa ferragostana è oramai già ripartito da un pezzo e promette per l’autunno molte evoluzioni e altrettanti brividi, a partire dalla clamorosa svendita settembrina dei titoli tecnologici, per poi passare ai rischi che comportano i mercati emergenti fino alle sorprese che possono riservarci il comparto energetico e quello obbligazionario anche a causa del crescente indebitamento globale (vedi grafico qui sopra).

Di motivazioni per temere importanti svarioni ce ne sono infatti a bizzeffe: dalla statistica che vede l’impennata settembrina dell’indice VIX (quello della volatilità di Wall Street) al possibile rilancio autunnale dell’inflazione e comunque al quasi scontato aumento dei tassi d’interesse, fino ai dubbi sulla tenuta dei bond italiani. Al momento hanno preso respiro, ma in qualche mese di tempo le tensioni potrebbero riemergere con rinnovato vigore, e questo non incentiva capitali e investimenti. Il treno della ripresa insomma da noi farà un minor numero di fermate, e probabilmente senza molto preavviso.

Ma la vera questione è un’altra, molto più banale di argute considerazioni geo-politiche e macro-economiche alla base della psicologia dei mercati: D’Annunzio concludeva il suo “Settembre”: “ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io co’ miei pastori?”

Traduzione: i pastori (gli investitori) abbandonano le montagne e tornano alle terre natíe (le maggiori piazze finanziarie), per godere ancora un po’ il calore di Settembre (i grassi profitti realizzati), ebbri di ricordi e felici della calma apparente dell’ultimo sole d’estate. Perché poi è in arrivo l’ennesimo autunno caldo, con le solite questioni inflazionistiche, politiche, sociali e istituzionali che non ci faranno dormire sonni tranquilli…

Si spiega forse così la discesa in corso delle quotazioni dei titoli tecnologici (quelli che sino a ieri si erano rivalutati maggiormente) e anche il deciso trapasso dalle obbligazioni ad alto reddito e lunga scadenza a quelle di più breve durata e più sicure, fino al potente risucchio dei capitali dai paesi emergenti verso Wall Street e Londra, con conseguente rivalutazione di Dollari e Sterline, tendenza che a occhio e croce continuerà.

E se qualcuno lo mette in dubbio bisogna solo fargli presente che è un percorso appena iniziato: i possibili venti di guerra possono solo rafforzarla…

Stefano di Tommaso




SE L’INFLAZIONE FRENA

Come sempre gli Stati Uniti stanno anticipando alcune tendenze di fondo (deregulation, diminuzione della pressione fiscale ma anche razionalizzazione della spesa pubblica, investimenti infrastrutturali, allargamento dei buyback azionari e dei piani di stock options, crescita salariale, riequilibrio della bilancia dei pagamenti) che non potranno non estendersi presto a buona parte del resto del mondo, a partire dalle altre due grandi nazioni del Nordamerica (Canada e Messico).

 

DOMANDA BASSA E OFFERTA ABBONDANTE CALMIERANO LA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Quanto avviene negli Stati Uniti ha effetti decisamente positivi sull’incremento dell’offerta di beni e servizi, perché tutto ciò accresce il reddito disponibile per i consumi, soprattutto quelli digitali e in servizi avanzati, mentre sul fronte della domanda di beni e servizi invece si intravede una correzione al ribasso a causa di molti fattori, dall’avanzata del commercio digitale al ritorno dei capitali verso le piazze finanziarie più “sicure”, ai dazi, alle sanzioni nei confronti di Cina e Russia, fino al conseguente e voluto ritorno della centralità del dollaro (usato come arma politica) alla progressiva ri-localizzazione delle produzioni industriali dai paesi (emergenti) a più alto sviluppo demografico verso quelli a crescita negativa.

Il fenomeno più evidente è l’ampiamente previsto rallentamento della produzione industriale cinese e, di conseguenza, il rallentamento della crescita dei prezzi di materie prime e forniture energetiche (gas e petrolio) che probabilmente avrà ripercussioni positive anche nel resto del mondo.

Anche per questi motivi Wall Street resta imperterrita sui valori massimi storici, nonostante sia dato per scontato l’ennesimo aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve.

Le aspettative sono buone per il prossimo futuro anche per l’Europa, sebbene l’Italia debba ancora dimostrare che non creerà problemi di credibilità istituzionale.

 

LE GUERRE DOGANALI MONTANO AD EST E SI PLACANO AD OVEST

Anche le paure legate alle cosiddette “guerre commerciali” che hanno riempito le testate dei giornali di tutto il pianeta sembrano stemperarsi, soprattutto per ciò che riguarda il Nordamerica e l’Europa, le cui dispute tariffarie paiono avviarsi verso soluzioni di accettabile compromesso, come peraltro era stato ampiamente anticipato su queste colonne, e con buona pace dei “soloni” della domenica che prefiguravano scenari apocalittici.

La più modesta realtà che si dispiega invece sembra quella di un presidente americano propenso (anche a scopi elettorali) a percepire il dividendo immediato di un rieqdella bilancia commerciale a americana tramite accordi bilaterali bonari, almeno nei confronti dell’Europa e del resto del Nord America, dal momento che con Russia e Cina è invece in atto un confronto politico ben più profondo; volto al ridimensionamento della loro influenza sui paesi emergenti limitrofi.

Il risultato dello scenario che si può cercare di anticipare per Settembre sui mercati finanziari sembra essere quello di una dinamica di inflazione assai meno preoccupante, cresciuta si ma oggi stabilizzata sostanzialmente attorno ai valori già visti (poco più del 2% in America e qualche centesimo in meno in Europa), se non addirittura in lieve ribasso, anche poiché l’impennata vista nella prima parte del 2018, fortemente influenzata dalla risalita dei prezzi di materie prime e derrate alimentari, sembra aver esaurito il suo vigore.


Anche in Italia l’inflazione è cresciuta insieme alla mini-ripresa economica, ma in misura decisamente inferiore al resto d’Europa, tanto a causa della scarsa dinamica salariale (la disoccupazione resta stabilmente sopra al 10%) quanto per la pressione fiscale, addirittura in lieve aumento.

Uno dei fattori che spingono al raffreddamento delle pressioni inflazionistiche è poi l’elevatissimo livello di indebitamento, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, non soltanto in Cina ma anche in tutto il resto del mondo. Il de-leveraging che ne dovrebbe conseguire potrebbe costituire una polizza di garanzia contro l’avanzata dell’inflazione ancora per molti anni a venire.

 



IL COSTO DEL LAVORO NON SALE

Altro fattore di contenimento della possibile dinamica inflazionistica è il progressivo affievolimento dell’influenza delle battaglie sindacali sulle relazioni industriali, quantomeno quelle sull’incremento dei redditi, visto che la crescente automazione produttiva determina, per quelli di base, addirittura una pressione al ribasso e la crescita dei salari, casomai, riguarda le elevate specializzazioni in servizi, tecnologia e manutenzione degli impianti.

Ma il contenimento del costo del lavoro è anche dettato dalla progressiva rarefazione dei posti di lavoro nell’industria, nel commercio e nell’agricoltura a causa dell’automatizzazione dei processi e della logistica, mentre al contrario in tutto il mondo la forza lavoro si accresce per motivi demografici, per i milioni di immigrati che sono di recente sbarcati in Europa (costituiscono ampliamento dell’offerta di lavoro che accetta salari minimi anche per le attività più faticose) e per la progressiva maggior quota di lavoro femminile. Il risultato è garantito: il costo del lavoro incide sempre meno sul prezzo finale del prodotto o servizio.

LA MODERATA INFLAZIONE BILANCIA LA CONTRAZIONE DELLA LIQUIDITÀ

Per fortuna questi fattori, di per sè non una buona notizia per l’umanità, lo sono nell’indicare che l’inflazione può rimanere sotto controllo, e coincidono con l’esigenza del mondo occidentale e industrializzato di ridurre l’indebitamento complessivo, cosa che restringe il moltiplicatore del credito, proprio quando le banche centrali che cercano faticosamente di fare retromarcia negli stimoli monetari rischiavano di far collassare i mercati finanziari per rarefazione della liquidità complessiva in circolazione.

Il rischio che ad un rialzo dei tassi quasi ineluttabile segua anche una fiammata inflazionistica (azzerando dunque i rendimenti reali del reddito fisso) è percepito (in parte tutt’ora) come un macigno che incombe sul l’elevato livello complessivo raggiunto dalle quotazioni delle borse e dei titoli obbligazionari. Invece la mancata fiammata inflazionistica è una boccata d’ossigeno per le produzioni industriali e i mercati finanziari.

Ma se si osserva l’indice più accreditato per la misura della volatilità delle borse (l’indice VIX detto anche l’indice della paura) negli ultimi mesi esso è ugualmente schizzato verso l’alto e bisogna dunque chiedersi se esistono altri motivi, diversi dalla paura irrazionale di un crollo repentino dei mercati e dell’arrivo di una nuova recessione globale, per i quali abbia senso tale segnale.

L’INDICE DELLA PAURA POTREBBE AVER TOCCATO IL MASSIMO

L’analisi fondamentale fornisce invece buone notizie per le borse e per i tassi d’interesse, almeno per l’autunno in arrivo. Buone notizie anche per la prosecuzione della fortunata stagione riguardante i profitti industriali e in teoria esiste anche la possibilità che si verifichi una qualche riduzione degli stock di magazzino, ciò mentre l’investimento nell’automatizzaziine degli impianti produttivi, degli imballaggi e delle spedizioni difficilmente potrà registrare una battuta d’arresto, a causa dei forti incentivi fiscali (in tutto il mondo) e dei minori costi conseguenti.

IL DEFAULT DELL’ITALIA È IMPROBABILE

Cosa dire invece del timore che i mercati scatenino una caccia alle streghe sul debito dell’Italia? Chi mi ha seguito sino ad oggi deve prendere atto che non ci ho mai creduto davvero, sia perché la disistima che il “mainstream” dell’informazione pubblica nutre verso la nuova coalizione sembra mal riposta, come per il fatto che non esistono le condizioni oggettive perchè l’Europa possa permettersi di fare a meno dell’Italia nel processo di inevitabile convergenza politica dell’Unione. Tra l’altro ciò significherebbe un “casus belli” ulteriore nei confronti degli Stati Uniti d’America e forse il definitivo funerale dell’alleanza atlantica: uno scenario non solo poco realistico ma assolutamente non conveniente per nessuno dei protagonisti.

Dunque l’Italia subirà strattoni e limitazioni, ma alla fine potrebbe farcela tanto a superare la stagione dei rinnovi dei titoli di stato in scadenza quanto quella delle spese straordinarie per l’adeguamento delle proprie infrastrutture, giudicate da tutti oramai improcrastinabili. Come dire che il default italiano non è probabilmente dietro l’angolo.

 

Stefano Di Tommaso