DELL RITORNA A WALL STREET PER CAVALCARE LA TRASFORMAZIONE DIGITALE DELLE AZIENDE

Dopo cinque anni di assenza da Wall Street il nome di Michael Saul Dell è destinato a farsi sentire di nuovo alle grida, dopo che in Ottobre sarà stata perfezionata l’operazione che decreta il ritorno alla quotazione sul listino americano della società che porta il suo nome: Dell Technologies, una società che sarà “strategicamente orientata a trarre vantaggio dalle applicazioni commerciali delle nuove tecnologie tra le quali “Internet delle Cose”, la realtà virtuale, l’intelligenza artificiale, i sistemi di apprendimento automatico dei computers, le telecomunicazioni di 5^ generazione, e la “Nuvola” per l’archiviazione dei dati in mobilità (cloud computing)”.

“La crescita senza precedenti di questi anni e il posizionamento del nostro portafoglio di tecnologie e servizi su un’offerta che copre gli ambiti della trasformazione digitale delle aziende cosa che ci posiziona in modo unico in un momento molto importante per la società” ha precisato agli analisti Michael Dell, in occasione della presentazione dell’operazione di ritorno in Borsa della sua società. Due mesi prima Michael Dell, nel corso della convention aziendale a Las Vegas, aveva spiegato che la sua società si concentrerà sul futuro tecnologico, che porta inevitabilmente allo sviluppo della partnership tra Uomo e Macchina: il connubio tra intelligenza umana e tecnologie potenti che impatterà sul progresso umano dei prossimi 10-15 anni. Un futuro che ovviamente richiederà alla sua società forti investimenti.

LA STORIA

Figlio di una agente di cambio ebrea e di un ortodontista la cui famiglia era immigrata in America in fuga dalla Germania nazista, Dell -che oggi ha solo 53 anni- avviò nel 1984 la sua società per fabbricare personal computer destinati ad essere venduti per corrispondenza a basso prezzo in tutto il mondo. All’epoca egli aveva 19 anni e soli otto anni dopo quella sua società era già entrata nella classifica di Fortune come una delle 500 più grandi aziende al mondo ed era quotata a Wall Street. Ancora oggi non c’è al mondo un ufficio, studio professionale o azienda che non utilizzi qualche macchina o monitor con scritto sopra il nome DELL a caratteri cubitali.

IL “DELISTING”

Nonostante il grande successo raggiunto la Dell Corporation fino a sei anni fa restava sostanzialmente una fabbrica di personal computers e anche per questo motivo aveva sperimentato un vistoso calo della capitalizzazione di borsa. Allora Michael Dell propose al mercato di ricomprarsi le azioni quotate che costituivano il “flottante” riconoscendo alla società di cui era a capo una valutazione di 25 miliardi di dollari. Nel 2013, dopo quasi un anno dall’annuncio e molte polemiche che videro il noto raider Carl Icahn accusarlo di pagare troppo poco agli azionisti di minoranza i titoli che egli ritirava dal listino, l’iniziativa di Dell ebbe successo e la società venne “delistata” dalla borsa newyorkese .

Dal canto suo Michael Dell si difese dalle accuse accusando a sua volta gli analisti di borsa di guardare troppo al breve termine, e affermando che l’unico modo per riuscire a rispondere alle sfide imposte dalle mutate condizioni di mercato con una strategia priva di condizionamenti esterni -basata sulle nuove tecnologie e non più sulla produzione di macchine- era quello di far tornare l’azienda in ambito “privato” (cioè non quotata) per poi stravolgerne liberamente i connotati.

L’ACQUISIZIONE DI EMC E LA QUOTAZIONE DELLE TRACKING STOCKS SU VM WARE

Tre anni dopo la riuscita di quell’operazione (2016) la sua Dell Inc. poteva annunciare di aver finalizzato per 67 miliardi di dollari l’acquisizione della EMC, il colosso mondiale dei data centers” (centri per l’archiviazione dei dati sui quali si basa il Cloud Computing) con l’ausilio del fondo Silver Lake, di Microsoft e di un gruppo di banche, dopo aver montato una delle più complesse operazioni finanziarie della storia per riuscirvi.

Parte del denaro per questa operazione era pervenuto dall’offerta al mercato borsistico di “tracking stocks” (azioni virtuali senza diritto di voto) della VM WARE (dove VM sta per “virtual motion”: software per la realtà virtuale), garantite dalla partecipazione di controllo posseduta da EMC nella medesima azienda al momento dell’acquisto di EMC da parte di Dell.

IL RITORNO DI DELL A WALL STREET

L’operazione che vede oggi Dell tornare a Wall Street è anche tecnicamente interessante perché non consiste in una classica “Initial Public Offering” (IPO) cioè nel collocamento di titoli azionari che si fa in occasione della quotazione in borsa di una società, bensì in una proposta -rivolta ai detentori di quelle “tracking stocks” di VM WARE quotate- di acquisto (per 9 miliardi di dollari) e scambio (per la restante parte fino al valore complessivamente proposto di 21.7 miliardi di dollari) delle medesime, trasformandole in azioni ordinarie della Dell Technologies stessa in ragione di una tracking stock ogni 1,3 azioni di Dell Technologies. Se quegli azionisti voteranno a favore della proposta, ad essi dopo l’operazione a apparterrà una quota variabile dal 21% al 31% di quest’ultima.

L’offerta appare generosa perché la valutazione implicita riconosciuta ai detentori di quelle “tracking stocks” (21,7 miliardi di dollari) è superiore nel complesso di quasi il 30% alla loro capitalizzazione di borsa al momento della proposta (circa 17 miliardi di dollari), sebbene essa consista solo in parte in un’offerta di denaro e per la maggior parte in azioni della Dell Technologies che da cinque anni non è più quotata ma che nel frattempo ha acquisito la EMC Corporation e, con essa, anche il controllo della VM WARE che resta indipendente nella sua gestione e quotata separatamente a Wall Street (fattura meno di 8 miliardi di dollari ma capitalizza più di 60 miliardi di dollari).

LE VALUTAZIONI IMPLICITE, L’INDEBITAMENTO E CHI CI HA GUADAGNATO

In realtà il vero affare lo fanno Michael Dell, la Microsoft e il fondo Silver Lake, che per finanziare parzialmente la quota cash riconosciuta agli azionisti delle “tracking stocks” chiedono alla VM Ware di distribuire dividendi per 9 miliardi di dollari (che per la maggiora7saranno pagati alla sua controllante Dell Technologies), e poi ottengono un implicito riconoscimento dal mercato di un elevatissimo valore per la loro partecipazione nella Dell Technologies (partecipazione che nel complesso scenderà ex post dal 100% al 72%, con la quota in mano a Michael Dell dal 47% al 54% ), senza metterne in discussione l’indebitamento (circa 53 miliardi a livello consolidato) in buona parte contratto all’epoca dell’acquisto di EMC. Una leva finanziaria che ha consentito loro di beneficiare della rivalutazione della società in questi anni (la valutazione implicita della Dell Technologies supera i 70 miliardi di dollari) senza condividerla con altri investitori. Michael Dell infatti cinque anni fa, al momento del delisting della sua Dell Corporation ne possedeva soltanto il 14%.

GLI ULTERIORI INVESTIMENTI A SUPPORTO DELL’EVOLUZIONE TECNOLOGICA

Ma bisogna anche notare che il ritorno in Borsa, già approvato dai Consigli di Amministrazione di Dell e VM Ware, risulta soprattutto funzionale agli investimenti che saranno necessari per mettere in pratica la strategia che Michael Dell ha annunciato a Maggio a Las Vegas alla Convention Annuale della sua azienda, che raduna oltre 14.000 clienti e fornitori: un percorso che traguarda il 2030, basato sulle quattro esigenze che accompagnano la trasformazione delle aziende: il passaggio dal mondo analogico a quello digitale, l’evoluzione degli strumenti di calcolo, la necessità di sicurezza informatica e quella dell’evoluzione delle competenze informatiche della forza lavoro. Che trovano risposte estremamente avanzate nel portafoglio di società del mondo Dell (Dell EMC, Pivotal, RSA, Secureworks, Virtustream e VM Ware) che copre dall’edge computing, al core computing, fino al cloud computing.

Una strategia basata sulla possibilità di coprire in modo integrato tutte le esigenze di Information Technology delle aziende, che parte dall’offerta storica di computers, di sistemi di archiviazione e di infrastrutture di rete, fino a arrivare a coprire anche quella di sistemi per lo sfruttamento della mole di dati che proviene da Internet delle Cose, di proposte per Intelligenza Artificiale nelle aziende, di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata per le vendite online. E che necessiterà evidentemente di continui investimenti.

Stefano di Tommaso




IL LUXURY FASHION CEDE ALLE LUSINGHE DELL’E-COMMERCE

Il mercato dei servizi digitali sta cambiando le nostre abitudini nel modo più profondo e pervasivo che avremmo mai potuto immaginare.

 

C’era una volta il commercio elettronico, iniziato con la libreria di Amazon, poi piano piano esteso a praticamente ogni merceologia si possa immaginare. Quello che forse nessuno poteva prevedere era il repentino trapasso dell’intero mondo digitale al mobile, integrando la messaggistica, i social networks, i sistemi di pagamento, e persino il controllo della salute.

Ovviamente l’estendersi a macchia d’olio del fenomeno del commercio elettronico sta rivoluzionando non solo la distribuzione organizzata, la logistica e la comunicazione, ma anche tutti gli altri business ad esso collegati, ivi compresi quelli avanzati di molti dei grandi pionieri del web e dei colossi delle comunicazioni.
Già perché non solo stanno cambiando -più o meno velocemente- le nostre abitudini, ma ci sono intere popolazioni , come quelle del sud-est asiatico, che si sono adattate più in fretta delle altre ai nuovi standard digitali e il business sulla rete da quelle parti rischia di correre molto più velocemente di quanto accada nei paesi OCSE, quelli ricchi per intenderci. E in Asia, si sa, vivono oltre 5 miliardi di individui. Se queste popolazioni si adattano più velocemente di noi ai nuovi modelli di business, è probabile che anche le loro aziende trarranno maggior benefici dalla rete!

In Cina oramai il numero dei telefonini cellulari (oltre 800 milioni) ha soppiantato quello dei televisori e -complice la relativa carenza di altre infrastrutture- molte delle esigenze di consumo o di servizio della popolazione passano oggi dalla rete mobile. È questa la prima ragione del grande successo di Tencent, nome occidentalizzato di Téngxùn Kònggǔ Yǒuxiàn Gōngsī (alla lettera: informazione crescente): oggi l’azienda di maggior capitalizzazione in Cina (340 miliardi di dollari) e con il maggior numero di utenti: ben 770 milioni di persone in tutto il mondo. Tencent è la titolare del servizio di messaggistica online “WeChat” (alla lettera “noi chiacchieriamo”, in cinese Weixin) e dell’omonimo servizio di pagamenti elettronici cui aderiscono oltre 300 milioni di utenti nel mondo.

La vera notizia è che WeChat non soltanto ha iniziato a vendere online apparecchi vari, accessori e abbigliamento, bensì sta corteggiando i giganti del lusso, forte della sua vastissima base clienti e di una proposta innovativa: agire da canale diretto di comunicazione tra di essi e il grande pubblico (con una piccola percentuale a suo favore). Il mercato del lusso e della moda era fino a ieri confinato nelle strade più esclusive delle metropoli del pianeta, circondato da un’aula magica di fascino, stile e discrezione, inarrivabile per i più, aspirazionale per molti altri.

Oggi il tentativo delle major del commercio elettronico è quello di attrarre il maggior numero dei “vendor” tra le proprie maglie, perché più efficienti e più diretti alle specifiche esigenze di ogni loro utente, del quale conoscono un gran numero di preferenze e caratteristiche. Ma c’è una differenza tra gli altri grandi operatori e Tencent: nessuno degli altri (come Alibaba, Zalando o Amazon) ospita sulla propria rete i discorsi privati del pubblico di potenziali acquirenti! Nessuno è sempre collegato con loro.

Inoltre fino a ieri ciascuna catena di shopping online si configurava come un potenziale acquirente dei prodotti del fashion e del lusso, non come un canale per dialogare direttamente con l’utente finale!
Alibaba ha fatto un passaggio importante nel cercare di integrare nella sua rete un sistema proprietario di pagamenti (Alipay), così come lo hanno fatto altri grandi operatori (esempio: Apple Pay), ma non ospita già sui suoi server le comunicazioni dei propri potenziali acquirenti.
Infatti la quota di mercato di Alipay in Cina è passata in un anno dall’80% al 54%, grazie alla “discesa in campo” di WeChat.

 

Potranno gli acquirenti più esigenti rinunciare all’emozione delle vetrine dell’ “high street”? Probabilmente si per gli articoli di minor valore.
Cederanno i giganti del lusso alle lusinghe della rete?  Accetteranno le maison del lusso di vedersi recapitare a casa dei loro clienti i lussuosi pacchetti che le contraddistinguono? Anche qui la risposta è probabile che sia positiva, per un motivo assai banale: già oggi buona parte degli sforzi di immagine e di pubblicità delle grandi case si rivolgono alla rete. E dalla presenza in rete alle vendite in rete il passo è breve.

 
Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA MIGLIORA MA I CONSUMI CROLLANO

(lo scenario indica che le aziende industriali dovranno fare i conti con un calo strutturale e delle vendite dovuta alla crescente disuguaglianza sociale mentre la digitalizzazione industriale e la sharing economy continueranno la loro avanzata).

 

Spesso scrivo analisi e previsioni economiche e spesso, nel parlare con conoscenti e clienti mi è successo di aver mostrato un certo orgoglio per aver previsto correttamente l’attuale fase di crescita economica globale, per molti invece inaspettata dopo le vittorie politiche della Brexit e del Presidente Trump.

Più di una volta però, alla domanda “com’è possibile che l’economia migliori se il reddito disponibile di tutti quelli che conosco invece peggiora?”  mi è capitato di dover correggere il mio ottimismo laddove, invece di fare riferimento alle statistiche, si osserva il benessere effettivo della gente comune.

È un dato di fatto per esempio che i giovani di oggi possano condividere uno stock di ricchezza e un potere d’acquisto-fatte le debite proporzioni- molto inferiore a quello dei loro genitori.

IL P.I.L. CRESCE MA IL REDDITO DISPONIBILE SCENDE A CAUSA DELLA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

Il motivo della divergenza tra incrementi del prodotto interno lordo e diminuzione della ricchezza disponibile per la gente comune è apparentemente semplice da spiegare (sebbene sia molto complicato opporvi ogni possibile rimedio): a causa della “finanziarizzazione” dell’economia degli ultimi vent’anni , la distribuzione della ricchezza sta cambiando e la disuguaglianza sociale aumenta a dismisura!

In America, dove le stesse cose che poi accadono da noi succedono sempre con largo anticipo, siamo arrivati all’assurdo che lo 0,1% della popolazione (di  quasi 320 mln di abitanti) possiede lo stesso ammontare di ricchezza del 90% inferiore della medesima popolazione: come dire che 1 abitante su mille possiede novecento volte ciò che hanno in media a testa i novecento abitanti meno ricchi sui mille totali !

PERCHÉ SCENDONO LE VENDITE DEI BENI DI CONSUMO

I (moderati) successi economici degli ultimi anni in Occidente che ci riferiscono le statistiche dopo la crisi del 2008 dunque, sono in realtà soltanto il risultato di una media tra gli avanzamenti di reddito ottenuti dai possessori di attività finanziarie e immobiliari e gli arretramenti dei percettori di salari, un po’ come la media di un pollo a testa di Trilussa, tra chi ne ha due e chi non lo ha. Una media composta da un avanzamento della ricchezza concentrata nelle mani di pochi e da un arretramento netto di quella della maggior parte della gente.

Ora bisogna tenere presente che se Berlusconi vende il Milan e incassa un fantastico assegno, ben difficilmente egli lo spenderà in un maggior numero di vestiti, automobili, gioielli ed arredi perché ne ha già tanti.
La spesa per consumi è infatti soprattutto mossa dagli acquisti quotidiani e “aspirazionali” delle classi più basse della popolazione, le stesse che però hanno vissuto negli ultimi anni un deciso arretramento della loro ricchezza.
I risultati “populisti” delle elezioni politiche di molti paesi occidentali hanno rispecchiato (e rispecchieranno ancor più in futuro) questo quadro di deterioramento del tenore di vita delle classi medie e basse, dal momento che il voto nei paesi democratici è imprescindibilmente capitario.

Ma soprattutto è il welfare (previdenza e assistenza sociale) la vera bomba ad orologeria: l’impossibilità dei governi di assicurare adeguati ammortizzatori sociali alla maggioranza della popolazione che rimane senza lavoro o non può pagare per la sanità privata, le difficoltà dei sistemi pensionistici (pubblici o privati) di tenere il passo con il costo della vita è ciò che più di ogni altra cosa determina una minor propensione all’acquisto dei beni di consumo (e anche di quelli durevoli).
E l’incombente difficoltà dei fondi pensione a mantenere le promesse fatte ai propri sottoscrittori tempo addietro sarà solo la ciliegina sulla torta!

LA CONGESTIONE DEI RISPARMI E LA RIVALUTAZIONE DEI BENI DI INVESTIMENTO

Paradossalmente il fenomeno dell’impoverimento e delle minori garanzie sociali comporta perciò un aumento dei risparmi e dunque una tendenza dei mercati finanziari a continuare a galleggiare su una massa di liquidità crescente.
Ma al tempo stesso il reddito fisso mantiene rendimenti limitatissimi e dunque il risparmio aggiuntivo che vi si riversa non fa che alimentare quel fenomeno di bassi tassi dovuti alla grande liquidità che si riversa sui mercati finanziari.
La stessa che ha determinato un arricchimento delle classi più ricche della popolazione e ci ha portati all’aumento della disuguaglianza sociale attraverso la corposa rivalutazione del valore di immobili, strumenti finanziari e mezzi di produzione.

Quella rivalutazione giova a chi già possiede capitali e ne ottiene un reddito aggiuntivo, mentre essa necessariamente riduce il benessere di coloro che non ne hanno e che con la rivalutazione faranno  ancora più fatica a comperarli.
Questo circolo vizioso sembra difficilmente correggibile senza provocare instabilità e danni irreparabili all’economia.

Sul fronte delle strategie industriali il fenomeno della riduzione dei consumi è stato fino a ieri imputato alla recessione e non si è ancora manifestato nella sua interezza per diversi motivi, ma non tarderà a farsi evidente.
Oggi la ripresa economica europea è trainata principalmente dalle esportazioni, in buona parte di tecnologia, impianti e macchinari verso i Paesi Emergenti, che godono di una crescita economica derivante dalla demografia positiva e poi risentono in ritardo del rallentamento dei consumi.

GLI ACQUISTI VANNO VERSO L’ECONOMICITÀ E LA QUALITÀ

Ma la tendenza cui faccio riferimento è di quelle che si dispiegano nel lungo termine: solo in America la media delle famiglie del 90% inferiore della popolazione (cioè la quasi totalità) ha visto nel 2016 diminuire le sue disponibilità (reali) del 40% rispetto al 2007.
Le imprese manifatturiere dovranno perciò prima o poi fare i conti con un cospicuo calo delle vendite dei beni di consumo,  “nonostante” le buone notizie sul fronte del prodotto interno lordo dei Paesi Occidentali potrebbero proseguire ancora a lungo!

Il fenomeno, sebbene di lungo termine, dal punto di vista della strategia industriale è da comprendere molto bene, svicescerare e poi cavalcare, attraverso il riorientamento delle produzioni verso beni di minor costo intrinseco, ma anche attraverso il controllo dei costi, la produttività del lavoro e la capacità di assicurare qualità e durevolezza nel tempo.

La stagione dei dividendi 2017 (che si apre più o meno da questo mese) sembra portare risultati clamorosamente al rialzo, a partire ovviamente dalle economie più avanzate e dotate delle valute più forti, ma la spesa per consumi è segnalata in discesa proprio in queste ultime, e la cosa si spiega quasi solo con l’incremento delle disuguaglianze sociali!
Non a caso in Cina, dove sta avvenendo l’esatto opposto e le classi medie sono in espansione, l’incremento dei consumi nel 1.trimestre 2017 (+10,9%) ha superato di slancio l’espansione della produzione industriale (+7,6%) e la crescita del Prodotto Interno Lordo (+6,9%, peraltro in crescita rispetto al 2016).

L’AVANZATA DEL DIGITALE E DELLA “SHARING ECONOMY”

La generazione di nuova ricchezza dovrebbe invece -in un mondo ideale- accompagnarsi ad una riduzione in termini reali dei valori dei cespiti immobiliari, delle attività finanziarie e degli strumenti di produzione. Cosa che in teoria può generarsi con la crescita della “sharing economy” e della digitalizzazione della produzione delle imprese manifatturiere.
Il loro avanzamento dunque non potrà che far bene alla stabilità e alla crescita economica e gli investimenti ad essi collegati contribuiranno alla produttività del lavoro (fattore essenziale per remunerare meglio i percettori di salari).

Sino ad oggi invece il Quantitative Easing ha lavorato in direzione opposta, servendo soprattutto a mantenere in vita il mercato secondario dei titoli dei debiti pubblici (cosa peraltro necessaria alla buona salute dell’economia).

Nessuno al momento è forse in grado di sfornare una teoria economica che indichi come conciliare la salute del mercato dei capitali (che alimenta le imprese e le loro innovazioni ma gonfia il valore delle attività finanziarie e provoca l’aumento dell’ineguaglianza sociale) con quella dei bilanci pubblici e con la crescita del benessere della popolazione.
Ma non illudiamoci troppo: ci sono molti e importanti interessi in gioco affinché nei paesi occidentali la giostra vada avanti esattamente così com’è impostata oggi…

 
Stefano di Tommaso