METAMORFOSI

LA COMPAGNIA HOLDING
Avevamo descritto il recente rally delle borse come un rimbalzo destinato a scomparire in fretta. Lo stesso si era detto per la resilienza delle economie occidentali: destinata a scomparire non appena le tensioni geopolitiche dovessero crescere ancora. Tutti oggi prevedono una recessione nei prossimi mesi che però si fa quantomeno attendere. Nel frattempo tuttavia l’economia globale rallenta, il commercio internazionale crolla e l’inflazione sembra recedere ma è assai improbabile che torni in fretta al livello sperato (2%) dalle banche centrali.
Le mosse di queste ultime sono le più temute al momento, ma la verità sembra essere che al contrario oggi le banche centrali hanno ben poche munizioni da sparare all’arrivo di una possibile nuova crisi. Dunque il mondo si avvia verso il baratro? Probabilmente no, ma è altresì assai difficile interpretare l’attuale congiuntura, se non analizzando i profondi cambiamenti che la generano.

 

(da Wikipedia) “Metamorfosi” è un sostantivo femminile che significa:

  1. Trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, come elemento tipico di racconti mitologici o di fantasia, spesso consacrati in opere letterarie, spec. del mondo classico
  2. In zoologia, la modificazione funzionale o strutturale di un animale durante lo sviluppo, nel passaggio dalla fase larvale a quella adulta (per es. in Insetti e Anfibi).

GRANDI MUTAMENTI IN CORSO

Cosa succede all’economia globale alle soglie del nuovo anno? Provo a cercare previsioni autorevoli ma non ne trovo. Trovo invece molti catastrofisti e molti “navigatori di lungo corso” che tendono ad affermare un po’ di tutto, appellandosi ai benchmark, ai capricci delle banche centrali e a quelli del presidente ucraino, per potere aver una scusa per ogni stagione. Perché?

La verità sembra essere che -in un mondo che oggi cambia più bruscamente e più imprevedibilmente che mai- non esistono certezze circa l’evoluzione possibile non soltanto dello sviluppo economico, ma anche dei mercati finanziari, dei livelli dei prezzi e dei fattori che scarseggeranno, tanto da lasciare spazio a grandi timori. In realtà tuttavia è possibile cercare di analizzare le grandi trasformazioni in corso, perché è molto probabile che da esse dipenderà la maggior parte degli sviluppi che prenderanno forma nel corso dei prossimi anni, a partire dal 2023.

Inutile dunque tentare di emettere semplici e sensazionali previsioni per i mesi a venire, proprio in virtù della complessità dei cambiamenti in corso. Se anche ci provassimo, i rischi di sbagliare sarebbero molto più elevati che in passato. Molto meglio provare ad esaminare i singoli fattori della metamorfosi economica in corso, per dedurne degli andamenti e, in ultima analisi, per farci una nostra idea di ciò che succederà nel prossimo futuro.

LA RECESSIONE CHE VERRÀ

Sicuramente le variabili in gioco sono innumerevoli, e questo giustifica il comportamento “attendista” dei più moderati. Giustifica anche i numerosissimi “market pundits” (“soloni” dei mercati) come Jamie Dimon o Nouriel Roubini, i quali sono quasi tutti concordi nel pronosticare grandi disastri per i mercati finanziari nell’anno a venire.

LA COMPAGNIA HOLDINGSecondo il primo tanto l’inflazione quanto possibili nuove tensioni geopolitiche scateneranno tensioni sul fronte dell’approvvigionamento energetico e una recessione. Conseguentemente le borse torneranno a scendere del 30% circa. Per quanto autorevole Dimon si aggiunge peraltro ad una lunga lista di persone che la pensano allo stesso modo, tant’è vero che qualcuno ha definito la recessione in arrivo come la più “preannunciata” della storia recente.

Ma se andiamo indietro nel tempo quasi tutte le altre recessioni sono alla fine arrivate contro ogni previsione, mentre quelle annunciate alla fine si sono dissolte nel nulla. Proprio per questo viene il dubbio che, quando tutti sembrano concordare per un crollo delle borse, non sia altrettanto scontato che ciò succeda davvero.

LE DIECI “D”

Secondo Roubini invece la questione è più complessa: il mondo che cambia porta con sé dieci fattori-chiave che impediranno quello che potremmo chiamare il “ritorno alla normalità”: Debito, Demografia, Deflazione, Devaluation (svalutazione delle monete ufficiali), Digitalizzazione, De-globalizzazione, Democracy Backlash (arretramento della democrazia nel mondo), Duopolio (tra Stati Uniti e Cina), Digital Warfare (guerra delle tecnologie), Disastri (pandemici, ambientali, finanziari).

In effetti i grandi cambiamenti in atto è probabile che ci consegneranno quasi per certo un futuro denso di novità che potremmo appunto definire come una “metamorfosi economica”. Sarà forse un futuro che potrà alla fine risultare anche migliore, ma che oggi porta con sé grandi timori e grandi interrogativi circa il benessere dell’umanità, oltre che circa l’identità dei possibili vincitori e delle possibili vittime di questi profondi cambiamenti. Da un certo punto di vista sono dunque comprensibili le “allerte” che vengono lanciate, anche se non sono certamente da prendere alla lettera.

Proviamo perciò innanzitutto ad approfondire in ordine più o meno sparso i principali fattori del cambiamento che oggi è possibile toccare con mano:

  • L’Inflazione:

Sino a poco più di un anno fa sembrava che il mondo stesse per avvitarsi in un processo profondamente deflattivo di riduzione dei costi di quasi tutte le materie prime e, di conseguenza, dei prezzi di prodotti e servizi. Poi quasi di colpo sono iniziate a scarseggiare tanto alcune materie prime quanto le cosiddette “risorse energetiche”, sferzando bruscamente l’economia e togliendo il terreno sotto i piedi ai consumatori di tutto il mondo. Per una moltitudine di nazioni si tratta all’incirca di una perdita del potere d’acquisto di circa il 10% medio che si traduce, guarda caso, in una riduzione generalizzata dei consumi che si pensa indurrà una recessione economica. È indubbio che il calo degli acquisti riduce la capacità delle imprese di trasferire “a valle” i maggiori costi sostenuti per produrre e dunque le prospettive di mantenere elevati margini di profitto.

E se le imprese venderanno meno e non faranno profitti allora proveranno a tagliare i costi e ridurranno assunzioni e investimenti, contribuendo ad una frenata generale dell’economia. Ma l’inflazione costringe anche i risparmiatori a vedere decurtato il valore del proprio denaro, o a prendere grandi rischi per evitarlo, dal momento che non è più pensabile mettere semplicemente a reddito i risparmi senza temere di ottenere dei rendimenti reali di fatto nulli o negativi. Da questo punto di vista i mercati azionari possono costituire una miglior difesa dall’inflazione ma sono al tempo stesso più volatili e dunque intrinsecamente più rischiosi.

  • La Crescita dei Debiti:

A livello globale, i debiti del settore privato e pubblico in rapporto al Pil sono saliti dal 200% del 1999 al 350% del 2021. Il rapporto è ora del 420% tra le economie avanzate e del 330% in Cina. E ciò è avvenuto mentre le banche centrali stanno facendo retromarcia sull’enorme creazione di liquidità che ha sostenuto sino ad oggi questi debiti. Roubini argomenta poi che, se quel debito fosse stato impiegato negli investimenti produttivi la faccenda non sarebbe stata così grave. Gran parte di quel debito però è stata impiegata nella previdenza e assistenza sociale, cioè nel welfare, che notoriamente non è produttore di altro reddito, oltre che su poche infrastrutture spesso quasi inutili.

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L’azzeramento dei tassi d’interesse aveva lasciato sperare che quel debito crescente non fosse un vero problema, ma adesso che i tassi sono risaliti e debbono continuare a farlo, adesso che l’economia non cresce più, si rischia l’ insolvenza generalizzata, sebbene l’inflazione riduca al tempo stesso il valore reale del debito. Secondo Roubini questa incongruenza verrà amplificata dalle banche centrali e comporterà degli shock sui mercati dei capitali che si ripercuoteranno sulle borse e faranno sparire la speranza di un “atterraggio morbido” dopo anni di crescita economica.

  • Le Tensioni Geopolitiche:

Ovviamente oggi tutti parlano della guerra tra Ucraina (e la NATO che la sostiene) e la Russia. Ma la situazione geopolitica globale è peggiorata da tempo. Il mondo sta attraversando una serie di profondi e numerosi cambiamenti strutturali a causa dell’emergenza climatica e nelle relazioni tra popoli, nazioni, schieramenti e sinanco gruppi sociali, tali da renderlo in pochi anni letteralmente irriconoscibile. Uno degli effetti più deleteri delle nuove tensioni geopolitiche è sicuramente l’attuale caduta verticale del commercio globale. Ma anche il rincaro delle materie prime, la competizione tra le nazioni e dunque duplicazione della spesa per le ricerche scientifiche e tecnologiche

Ci sono molte ragioni profonde alla base delle numerose fratture che stanno emergendo tra i diversi blocchi di nazioni. Ignorarle sarebbe come voler chiudere entrambi gli occhi. Ma una cosa è certa: l’intera geografia industriale del mondo cambierà in pochi anni a causa di tali tensioni, con il rischio che la maggior parte delle risorse rivolte alla scienza e alla ricerca tecnologica possano essere deviate verso scopi militari, rallentando lo sviluppo tecnologico dell’umanità nel suo complesso.

  • I Disastri Ambientali

Negli ultimi anni soprattutto l’Occidente ha provato a imprimere una decisa svolta a tutte le attività umane che possono generare emissioni nocive o danni ambientali. Ma ciò ha contribuito a far lievitare il costo dell’energia e, in ultima analisi, a far crescere l’inflazione, che riduce la propensione agli investimenti infrastrutturali di cui il mondo ha bisogno affinché l’ambiente naturale possa risultare maggiormente protetto. Dunque la transizione ecologica non sarà semplice e non può avvenire troppo in fretta.

Al tempo stesso l’assommarsi delle emissioni nocive sta già provocando la “tropicalizzazione” del clima temperato la quale a sua volta genera (direttamente o indirettamente) una serie di disastri ambientali la cui portata è difficile stimare, ma che rischiano di lasciare un serio impatto (negativo) sulla crescita economica. Talvolta poi il riscaldamento globale comporta ondate di gelo senza precedenti, proprio perché saltano gli equilibri preesistenti.

Senza contare il fatto che i rischi di diffusione di virus letali non sono fermati con la vaccinazione contro il COVID19. L’umanità si è scoperta piuttosto indifesa al riguardo e i costi di una maggiore prevenzione e cura dalle malattie sono al momento quasi insostenibili.

  • La Demografia e l’invecchiamento della popolazione:

La popolazione mondiale continua a crescere non solo di numero, ma anche nei consumi e, di conseguenza, nelle emissioni nocive che questi ultimi generano. E già questo fatto pone molti interrogativi circa la sostenibilità ambientale della crescita demografica smisurata. C’è inoltre da chiedersi quali saranno le nuove tendenze e le nuove necessità. Ma c’è anche e soprattutto da interrogarsi circa un altro fattore alla base dei profondi cambiamenti che l’Occidente sta già registrando nel mercato del lavoro e che prima o poi si estenderanno anche al resto del mondo: l’invecchiamento progressivo della popolazione.


Una popolazione che invecchia muta abbastanza radicalmente il proprio paradigma dei consumi, è mediamente più benestante, desidera lavorare meno e in maniera meno faticosa, si sposta di meno e si adatta di meno ai cambiamenti, non accetta più determinate mansioni e richiede come si più elevati. Tutte cose che, a partire dagli Stati Uniti d’America, si stanno manifestando platealmente riducendo la domanda di posti di lavoro e dunque drogando il tasso di occupazione della popolazione, nonché alzando generalmente il costo del lavoro (cosa che può rappresentare uno stimolo alla propagazione dell’inflazione).

LE PROSPETTIVE DI RECESSIONE

Da più parti si sente perciò parlare di una forte probabilità di recessione per l’anno a venire. In parte, come già detto, ciò potrà dipendere dalla riduzione del potere d’acquisto che dovrebbe conseguire all’inflazione. Ma non basta: in realtà ciò che si è potuto vedere sino ad oggi è più che altro un rallentamento generalizzato della crescita economica, Insieme ad una riduzione in quantità (ma non in valore) dei consumi. Non ancora un crollo.

Molti pronosticano -almeno per l’America- un “soft landing” che potrebbe dipendere anche da quanto sapientemente le banche centrali potranno accompagnare la progressiva riduzione del tasso di inflazione. Per l’Europa tuttavia la situazione potrebbe essere facilmente peggiore a causa della maggior dipendenza dalle forniture straniere. Contemporaneamente si sente però parlare di “accorciamento della durata dei cicli economici” e conseguente di una loro certa sovrapposizione. Il che non lascia chiarezza sull’interpretazione dei dati statistici.

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La verità ovviamente non la conosce nessuno, ma quello che sembra già sufficientemente certo è che si stanno registrando tanti e tali cambiamenti (finanziari, tecnologici, produttivi, nella distribuzione e nei consumi) a causa dei quali alcuni settori industriali fioriscono ed altri subiscono forti sconquassi, tanto che è difficile generalizzare delle tendenze dell’economia nel suo complesso. È dunque ragionevole ritenere che sia poco prevedibile l’andamento complessivo del prodotto interno lordo globale (e anche poco utile conoscerlo), a causa del moltiplicarsi dei fattori che ne determinano la crescita o la decrescita.

A LIVELLO MACROECONOMICO

Qualche tendenza di fondo è comunque possibile percepirla: il credito ad esempio sarà con ogni probabilità più caro un po’ per tutto il mondo, e a prescindere dall’andamento dei tassi di rifinanziamento praticati dalle banche centrali, quantomeno in funzione dei maggiori rischi percepiti dagli investitori. La gamma dei tassi d’interesse dunque si amplierà, facendo divenire poco vantaggiosi i finanziamenti di piccola entità e quelli a soggetti economici di piccola dimensione.

Un altro elemento che sembra emergere con chiarezza sarà il progressivo maggior costo degli investimenti infrastrutturali, a partire da quelli per le abitazioni, a causa delle più complesse normative da rispettare, ad esempio in termini di inquinamento, sicurezza statica, salubrità degli edifici. Facile dunque prevedere che crescerà corrispondentemente (o anche più che proporzionalmente) il costo dei fitti abitativi. Parallelamente anche il costo della vita in generale è possibile che subisca ulteriori impennate, perché il medesimo ragionamento si applicherà a interi quartieri o città, ove quelle che esprimeranno il maggior livello di investimenti saranno corrispondentemente anche le più care.

Se ciò sarà vero è altresì probabile che il costo del lavoro subirà una progressiva impennata, anche a prescindere dal “costo della vita”, proprio perché i lavoratori più specializzati (e meglio pagati) dovranno far fronte ad una maggior spesa “strutturale”. È al tempo stesso probabile che anche l’offerta di lavoro sarà sempre più frastagliata, in funzione della domanda e dell’offerta.

Non necessariamente tutto ciò potrà comportare uno scenario di elevata inflazione che si tramuterà in tassi d’interesse elevati. Anzi, se posso azzardare una previsione temeraria, è possibile che i rendimenti reali del reddito fisso (cioè al netto dell’inflazione) possano risultare molto limitati o addirittura negativi anche nei prossimi anni. Ma sicuramente l’inflazione non sparirà in una stagione.

A LIVELLO MICROECONOMICO

A livello dei singoli settori industriali ci sono indubbiamente tendenze che non muteranno troppo di direzione nei prossimi mesi, quali una certa tensione nei costi energetici, una certa scarsità di talune materie prime e semilavorati, la scarsità di risorse umane qualificate, la necessità di incrementare fortemente gli investimenti per poter risultare competitivi, seppure soltanto a livello “regionale”, eccetera, eccetera. Ma se questo potrà o meno comportare una riduzione dei profitti attesi è assai arduo da prevedere, tant’è che sino a oggi tutte le previsioni per un crollo dei profitti delle principali società quotate sono state smentite dai fatti.

Bisogna poi tenere conto del progressivo intervento delle nuove tecnologie, strutturalmente “deflattive”, grazie alle quali cioè sarà possibile contenere i costi di produzione. La capacità però di investire pesantemente per adottarle diverrà altresì un grosso fattore di discriminazione competitiva. Poche grandi industrie riusciranno a godere di quei benefici, portando progressivamente fuori mercato le altre. È facile perciò immaginare che il processo di concentrazione competitiva dei singoli settori industriali si incrementerà terribilmente, almeno per i prossimi anni.

A LIVELLO BORSISTICO

La metamorfosi in corso dello scenario economico generale produrrà forti conseguenze sui mercati borsistici? È probabile che saranno sempre meno regolamentati, per incentivare imprese e investitori a parteciparvi. In secondo luogo è altrettanto probabile che gli scambi si concentreranno sempre più in pochi centri finanziari globali, di fatto quasi completamente smaterializzati, dunque raggiungibili online da ogni parte del mondo. Queste tendenze comporteranno necessariamente maggiori rischi per gli investitori, che di conseguenza saranno sempre più intermediati da grandi gestori del risparmio.

Se ciò fosse vero sarebbe altresì probabile una progressiva riduzione del trading online da parte dei singoli risparmiatori, ma le statistiche per il momento sembrano indicare il contrario. Così come dovrebbe essere vero che il rialzo dei tassi d’interesse e dei rischi generali degli investimenti (guerre e disastri ambientali compresi) dovrebbero tendere a deprimere gli indici azionari, almeno nel breve periodo. Anche in questo caso tuttavia bisogna tenere conto del fatto che dall’Autunno sta succedendo l’esatto opposto, schiacciando i rendimenti attesi degli investitori e facendo lievitare i moltiplicatori di valore espressi dalle borse di tutto il mondo (in particolare quelle orientali).

L’ANDAMENTO DELL’INDICE GLOBALE AZIONARIO MSCI

E’ altresì possibile che, come è successo per l’inflazione, anche per le borse alla fine arrivi il momento di “resa dei conti”. I mercati azionari tuttavia hanno mostrato negli ultimi anni non soltanto una tendenza generale al rialzo, ma anche una notevole resilienza alle crisi di fiducia, forse anche in funzione della grande liquidità in circolazione. Tutti dicono infatti che le cose potrebbero cambiare parecchio man mano che questa si ridurrà.

LA RIDOTTA CAPACITÀ DELLE BANCHE CENTRALI

Sono tuttavia un po’ scettico sulla capacità delle banche centrali di continuare a fare il bello e cattivo tempo sui mercati. Tanto per il fatto che risultano sempre in ritardo sui grandi cambiamenti in corso, quanto perché le armi a loro disposizione tendono strutturalmente a ridursi.

I bilanci delle banche centrali sono al momento ingolfati dall’aver acquistato così tanti titoli in passato che non si possono eliminare con un semplice tratto di penna. Questo impedirà loro di contrastare efficacemente la prossima recessione, soprattutto se questa sarà severa. Ma c’è un altro aspetto che va tenuto in considerazione: la progressiva riduzione della capacità di influire sull’economia attraverso le politiche monetarie. La progressiva perdita di valore delle cosiddette “fiat currencies” si traduce infatti in una minor efficacia delle manovre possibili.

Tende anche ridursi l’autonomia delle banche centrali dai rispettivi governi politici, anche in funzione delle progressive spaccature geopolitiche globali che impediscono loro una effettiva ”concertazione” degli interventi.

…E QUELLA DEI GOVERNI NAZIONALI

È relativamente probabile tuttavia che anche la politica arrivi a risultare meno capace di modificare il corso degli eventi rispetto a quanto è successo in passato, in funzione dei pesanti vincoli di bilancio che interferiscono con le volontà dei governi in carica e che impediscono loro di agire profondamente tramite politiche fiscali.

Non solo oggi nessun governo locale sembra oggi in grado di contrapporsi alle tendenze geopolitiche planetarie. Che vengono tracciate da poche élites globali. Ai governi nazionali restano però in carico i debiti, le spese per l’assistenza sociale e la raccolta di tasse e imposte. Dunque i vincoli esterni alle decisioni politiche sono parecchi e poche sono le leve che possono essere mosse. Ovviamente questo vale molto più per l’Occidente che per l’Oriente, dove le autorità pubbliche sembrano conservare molta più capacità di decisione.

CONCLUSIONI

È l’intero “sistema industriale globale” oggi a vedersi rivoluzionato, tanto per fattori ineluttabili quali la demografia e le nuove tecnologie, quanto per la scelta dei governi occidentali di far prevalere le leggi di mercato a quelle della politica. Ciò comporta sicuramente grandi dubbi sulla “tenuta” delle istituzioni occidentali (più che su quella delle istituzioni “orientali”) ma soprattutto comporta dubbi crescenti sulla sostenibilità economica del modello industriale oggi presente, che non può fare a meno di sostenere una finanza globale sempre meno sotto controllo e ancora non pronta a un’effettiva transizione dei sistemi di produzione e di consumo verso la sostenibilità ambientale e verso il pieno utilizzo di energie da fonti rinnovabili.

Ma questi dubbi non significano per certo sciagure e grandi crisi. Significano quasi sempre soltanto profondi cambiamenti, i quali sconvolgono l’ordine pre-esistente e possono generare sciagure, ma è relativamente improbabile che queste accadano. Ciò che è più probabile è inoltre che i cambiamenti generino altri cambiamenti, che bisognerà riuscire a prevedere e a cavalcare. E che molti effettivamente riusciranno a goderne, sebbene resti inevitabile che altri ne soffriranno.

Per tutti questi motivi è dunque relativamente probabile che il mondo occidentale in tutto questo possa vedere ridotta la propria ricchezza e che dunque debba affrontare una recessione sistemica. Che però non significherà necessariamente fame o malattie. Bensì un probabile freno agli eccessi attuali con benefici dal punto di vista ambientale e con maggiori stimoli verso una sostanziale rappacificazione dei rapporti tra le nazioni. Così come l’inflazione viene stemperata dal rallentamento dell’economia, così probabilmente anche un ridimensionamento dei listini azionari potrà comportare un loro riequilibrio rispetto a taluni eccessi visti di recente e un maggior spazio per i nuovi entranti (le “matricole” cioè le aziende che si quotano in borsa per la prima volta). E ciò non è affatto detto che possa essere un male per l’economia globale.

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso

 




QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso