CINQUE GRAFICI RIASSUMONO IL 2017

Ecco a Voi cinque grafici, pubblicati dal Guardian, che riassumono efficacemente l’andamento delle principali variabili economiche dell’anno. E qualche considerazione che se ne deduce.

LE BORSE DI TUTTO IL MONDO SONO QUASI SOLO ANDATE SU:

NONOSTANTE LA LORO CORSA SFRENATA HANNO REGISTRATO LA PIÙ BASSA VOLATILITÀ DEI CORSI DELLA STORIA RECENTE, CONFERMANDO LA NATURA ASSAI POCO SPECULATIVA DEGLI ACQUISTI E FORNENDO STABILITÀ ALLA CRESCITA:

IL COMMERCIO GLOBALE HA FINALMENTE RIPRESO LA SUA CORSA NEL 2017 (nonostante la globalizzazione abbia fatto aumentare il numero degli stabilimenti produttivi nel mondo) E LO SI VEDE DALL’ANDAMENTO DEI PREZZI DEI NOLI MARITTIMI :

MENTRE IL PETROLIO HA INIZIATO A METÀ ANNO A RISALIRE E DA QUEL MOMENTO LO HA FATTO STABILMENTE, EVIDENTEMENTE LA FORTE RIPRESA MONDIALE ALIMENTA LA DOMANDA DI ENERGIA CHE, CONTRO OGNI PREVISIONE, SUPERA DI MISURA LA GRANDE OFFERTA DI MATERIA PRIMA :

E INFINE IL TORMENTONE DELL’ANNO: IL BITCOIN, PARTITO DA 1000 DOLLARI A GENNAIO E ARRIVATO QUASI A 20.000 DOLLARI PER POI RITRACCIARE, MA SOLO DI POCO:

 

COSA SE NE PUÒ DEDURRE?

•che le borse non crolleranno così presto, anzi!
•che la volatilità dei corsi potrebbe però tornare a crescere;
•che l’impennata del commercio globale fa bene alla crescita economica ;
•che la risalita del prezzo del petrolio è indice di forte salute dell’economia globale e, a sua volta, favorisce le esportazioni di molti paesi emergenti;
•che la crescente liquidità mondiale cerca strade alternative a quelle imposte dalle banche centrali, probabilmente proprio dove le restrizioni sono più forti, riversandosi sulle criptovalute le quali vengono viste come riserva di ricchezza al riparo da dittature e tassazioni anche a causa dell’impossibilità di incrementarne artificialmente l’offerta;
•che la tecnologia sottostante, il blockchain, è considerata inattaccabile e sarà perciò presto adottata in una miriade di altre applicazioni collegate alla “nuvola”.

 

Stefano di Tommaso




LA TRAHISON DES IMAGES (OVVERO: LE BANCHE CENTRALI SONO DAVVERO IN RITIRATA?)

Ci sono artisti che passano alla storia per le loro vite intense (si pensi al Caravaggio o a Van Gogh). E poi c’è René Magritte, un uomo elegante, come tanti, educato e distinto come un banchiere, ma capace di evocare la trasformazione della realtà come nessun’altro. In questo sta il suo genio: nell’invito a osservare il mondo con occhi diversi, a stupirci di ciò che è apparentemente banale, a scavare sotto la superficie per scoprire che la realtà è molto più affascinante di quanto non appaia. « Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa»

 

La Trahison des images (la fuorvianza delle immagini) è un suo dipinto realizzato nel 1928-29 (l’anno della più grande delle crisi di Borsa della storia). L’opera, contestando la raffigurazione della pipa (non si tratta di fatto di una pipa, bensì di una sua immagine), mira a mettere in risalto la differenza di tangibilità e consistenza che il mondo della realtà ha con quello dei segni, invitando alla riflessione sulla complessità del linguaggio. A cinquant’anni dalla morte di Maigritte il messaggio della filosofia surrealista lanciato con forza proprio dalla pittura di grandi evocatori di concetti astratti come lui (ma anche da Miró, Ernst, Dalí, de Chirico ecc…), non poteva essere più attuale nel contesto odierno dei mercati finanziari.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TAPERING

Sono quasi due anni che I banchieri centrali ci raccontano della loro volontà di procedere a una graduale ritirata da quello che è stato forse il loro più vasto e profondo intervento nella storia dell’economia: il Quantitative Easing (l’allentamento della politica monetaria seguìto alla brusca riduzione della liquidità in circolazione dopo la crisi borsistica del 2008). All’epoca si rischiava di ripercorrere pedissequamente gli otto anni di crisi economica che erano seguiti alla crisi finanziaria del 1929 e i principali banchieri centrali nel mondo, capitanati da quelli anglosassoni, decisero nel 2008 di controbilanciare con vigore la riduzione del moltiplicatore monetario del credito (e della velocità di circolazione della moneta) con l’acquisto sul mercato di grandi quantità di titoli e dunque con la conseguenza di affogarli di liquidità. I tassi di interesse discesero perciò più o meno bruscamente intorno allo zero e questo fatto risultò a sua volta essenziale per rendere sostenibile un altro macigno che rischiava di schiacciare per sempre l’economia mondiale: l’eccesso di indebitamento generale (tanto privato quanto degli Stati sovrani).

Che la manovra di Quantitative Easing (di stampo chiaramente keynesiano) sia risultata ex-post fortemente appropriata, nonostante le numerosissime critiche che piovevano soprattutto da economisti conservatori, lo dimostra il periodo di eccezionale crescita economica che oggi -a nove anni di distanza- il mondo intero sta vivendo in forma per di più sincrona: tanto per le economie più sviluppate quanto per quelle emergenti.

Il “Tapering” però (che dal punto di vista economico dovrebbe essere l’esatto opposto della manovra espansiva) sbandierato da due anni a questa parte dagli annunci dei medesimi banchieri centrali, preoccupati dall’incessante e dilagante crescita dei valori azionari e obbligazionari, è risultato tuttavia così prudente e graduale da apparire sostanzialmente inesistente. Un caso così estremo da risultare sostanzialmente illusorio di quella “Forward Guidance” (anticipazione verbale delle future manovre) che le banche centrali amano utilizzare per indirizzare i mercati quando vedono degli eccessi che potrebbero trasformarsi in futuri disastri.

Ecco allora che oggi si materializza una fuorviante rappresentazione della realtà: quella che tocchiamo con mano appare molto diversa da quella che ci viene comunicata dalla Yellen (governatrice della Federal Reserve bank of America), da Zhou Xiaochuan (presidente della banca centrale cinese) da Mark Carney (presidente della banca centrale inglese) e via dicendo, sino all’ultimo arrivato nella lista degli “annunciatori”: Mario Draghi (governatore della banca centrale europea).

NESSUNO PUÒ PERMETTERSI UN’IMPORTANTE RISALITA DEI TASSI DI INTERESSE

Ad ascoltare gli annunci bellicosi di aumenti dei tassi di interesse della Yellen sembrava che una nuova crisi dei mercati potesse arrivare solo per effetto di tale manovra, attuata invece sino ad oggi in forma quasi simbolica, perché lo sanno tutti che un vero rialzo dei tassi di interesse I governi di tutto il mondo non possono permetterselo, fino a quando non saranno riusciti a monetizzare buona parte del debito pubblico, cioè per molti anni ancora. Tanto per fare due numeri, dal 2007 i debiti globali (pubblici e privati) sono infatti aumentati di oltre il 70%, arrivando a sfiorare i 140mila miliardi di dollari secondo il Fondo monetario internazionale. E’ chiaro anche a un bambino che -se un’importante risalita dei tassi si materializzasse- il maggior costo del servizio del debito non farebbe che incrementare I disavanzi pubblici e dunque la massa del debito stesso, impedendone il rientro a volumi più fisiologici. Ecco dunque che si procede sistematicamente a graduali rinvii dei rialzi annunciati e a piccoli passi di un quarto di punto percentuale alla volta, augurandosi che l’omeopatia funzioni davvero nel limitare gli eccessi dei mercati finanziari.

Calcola la Banca Pictet che, secondo gli annunci odierni dei loro governatori, dopo i 2.540 miliardi di dollari iniettati sui mercati dalle 5 maggiori banche centrali del mondo nel 2017, si scenderà a “soli” 510 miliardi nel 2018 per poi teoricamente azzerare la liquidità immessa a partire dal 2019. Dunque bisogna aspettare almeno un biennio per verificare se toccheremo con mano una riduzione della liquidità sui mercati.

Per quest’anno invece ancora due triliardi e mezzo di dollari continueranno ad affogare gli acquisti di azioni e obbligazioni.

Poi si vedrà, anche sulla base della misura dell’inflazione dei prezzi al consumo (quasi inesistente), mentre di quella dei prezzi degli “assets” non se ne infischia nessuno.

D’altra parte una fetta consistente di questa liquidità è affluita sotto forma di investimenti nei Paesi emergenti. Negli ultimi anni essi hanno attirato importanti flussi d’investimento (superiori a 300 miliardi di dollari nel solo 2017) e questo ha aiutato decisamente il sincronismo della crescita economica globale che oggi registriamo, unitamente alla loro crescita demografica. È altresì indubitabile che la crescita generalizzata dei profitti aziendali cui assistiamo negli ultimi mesi (che a sua volta traina la corsa delle borse) c’entra parecchio con le maggiori esportazioni che il mondo più industrializzato realizza nei confronti dei Paesi Emergenti.

CHI VUOLE FERMARE IL CAVALLO IN CORSA?

“Davvero qualcuno vuol fermare il galoppo dell’economia ?” (avrebbe chiesto Maigritte con ironia). Nessuno, davvero, nemmeno se “sospinto” da forze artificiali. Anche perché i Paesi OCSE sanno benissimo che senza la manna dell’accelerazione del prodotto globale lordo che oggi finalmente si dispiega essi non potrebbero sostenere le tensioni sociali interne che derivano dal fatto che le classi meno agiate dei paesi più ricchi hanno beneficiato sino ad oggi ben poco della ripresa economica. La crescita indotta dalle facilitazioni monetarie ha in prima battuta favorito i detentori di attività finanziarie. Cioè h ampliato la disuguaglianza economica. Ci vuole tempo perché i suoi benefici si trasmettano all’economia reale.

Lo scenario perciò di graduale riduzione delle facilitazioni monetarie che ci viene propinato va filtrato attentamente con la realtà, che sembra riferirci uno scenario diverso, che nessuno vuole vedere tramontare troppo in fretta. Non lo vuole l’America, che si prepara a controbilanciare il suo tapering (tutto da vedere se poi si materializzerà dopo la nomina del successore della Yellen) con un pacchetto di riduzioni fiscali e incentivi all’industria proprio orientato al miglioramento dei redditi più bassi. Non lo vuole la Cina, ancora pesantemente impegnata a finanziare il suo sviluppo anche per strappare alla fame qualche centinaio di milioni residui di propri cittadini ancora dediti all’agricoltura più retrograda.

Non lo vuole nemmeno l’Europa, preoccupata più di quanto si possa immaginare dalle tensioni interne e dalle spinte separatiste che potrebbero far tramontare presto la stagione di crescita in corso, minacciata dal potenziale tracollo del debito sovrano dei suoi membri più deboli.

“Non credete minimamente a ciò che dico. Non prendete nessun dogma o libro come infallibile” diceva Buddha. E “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, gli faceva eco Sherlock Holmes nei romanzi di sir Arthur Conan Doyle. Forse un esercizio utile anche in economia.

Stefano di Tommaso




(FOLLI ?) VALUTAZIONI DI BORSA

Quanto sono folli le (attuali) valutazioni di borsa? Mano mano che le borse toccano sempre nuovi massimi gli analisti, gli economisti, gli investitori e persino i banchieri centrali continuano a chiederselo da molto tempo e in particolare da almeno un anno i timori di un loro crollo si fanno più insistenti.

 

LO SCENARIO “GOLDILOCKS” E I TIMORI DI TORNARE A UN NUOVO 2008

 

La fatina dei mercati dai riccioli d’oro (la oramai mitica bambola Goldilocks che preferisce un ambiente misurato: non troppo freddo, non troppo caldo ecc…) continua a regalarci uno scenario incantato nel quale la crescita economica economica globale è meravigliosamente in atto ma non è troppo forte (e dunque non fa crescere l’inflazione né i costi dei fattori di produzione), le borse galleggiano sui massimi di sempre ma senza strappi e nemmeno rilevanti oscillazioni, il commercio mondiale ha ripreso la sua corsa nonostante la diffusione di tecnologia e informazioni non necessiti più di dover produrre solo in alcune parti del mondo (perché la globalizzazione prosegue alla grande e le fabbriche sono oramai dappertutto) e dunque i mercati finanziari assaporano i frutti (e i profitti) dell’espansione economica mondiale apparentemente senza doverne scontare i tipici aspetti negativi (fiammate salariali, tassi di interesse in aumento, dinamiche dei prezzi in tensione, valori degli “assets” troppo speculativi, eccetera).

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da più di un anno si è diffuso tra gli investitori il timore di vivere all’interno di una gigantesca bolla speculativa attanaglia ogni categoria di investimenti nel mercato dei capitali e perciò coloro che si aspettano brusche correzioni di rotta sono oramai divenuti la maggioranza. Ovviamente questo ha determinato una loro pesante sotto-performance rispetto all’andamento dell’indice di borsa, come è mostrato dal grafico qui riportato.

Il punto è che da altrettanto tempo sentiamo cornacchie gracchiare pervicacemente contro le smisurate valutazioni implicite delle imprese quotate in borsa e ogni volta dobbiamo constatare che esse hanno avuto torto. E si dà il caso che le cornacchie siano giustappunto animali estremamente intelligenti, come del resto lo sono i professori, i premi Nobel e i capi degli uffici studi di tutto il mondo che le impresonano ma quando la campana suona a morto così a lungo e poi invece tutti gli astanti risultano essere in buona salute, allora bisogna chiedersi: “cosa sta succedendo”?


COSA STA SUCCEDENDO?


Le risposte che troppe volte ci siamo sentiti propinare a questa domanda sono state la favoletta (assolutamente fondata, per la verità) della liquidità in eccesso che fa galleggiare anche ciò che dovrebbe andare a fondo, l’altra favola degli effetti perversi di tassi troppo bassi che generano l’assenza di valide alternative all’investimento azionario (come negarla?) e, per i più sofisticati, anche quella della “congestione dei risparmi” (saving’s glut) dovuta ai cicli generazionali della demografia (altrettanto vera) che provoca sovraffollamento nella domanda di attivi finanziari.

Secondo chi ce le propina però, sono situazioni congiunturali che hanno prodotto effetti significativi anche perché fortemente concomitanti ma, per loro natura, sono vicende destinate a smorzarsi nel breve termine perché connesse a fattori tendenzialmente irripetibili.


Sarebbe stato tutto molto credibile se effettivamente i picchi delle quotazioni di borsa (cui rischiamo di abituarci senza più fare domande) fossero risultati temporanei e connessi ad un incremento della volatilità dei corsi, che tipicamente si associa a movimenti di breve periodo. Il breve periodo però è passato da un pezzo e la domanda resta: quanto sono folli le (oramai consolidate) valutazioni di borsa?

Il cittadino americano medio (grande frequentatore dei borsini rispetto alla media degli altri nel mondo) si fida oramai molto più dell’investimento in borsa rispetto al resto degli altri investimenti possibili.

I commentatori che gridano “al fuoco” sempre più a corto di argomenti si sono allora spostati sull’arcinoto concetto di “bolla speculativa”, secondo il quale una serie di concause psico-sociologiche possono determinare un rigonfiamento innaturale dei valori espressi dai mercati, ma prima o poi tale rigonfiamento, come una bolla di sapone, è destinato a scoppiare, esattamente come è già successo in precedenza per i prezzi dei tulipani, per le valutazioni immobiliari, per i crediti al consumo e i titoli derivati. Peccato che la maggior crescita delle quotazioni borsistiche si sia accompagnata alla più bassa volatilità dei corsi che la storia ricordi…

 

Dunque, a causa della durata record del ciclo rialzista (abbiamo superato l’ottavo anno in USA) la situazione degli investitori —soprattutto le grandi banche e società di gestione del risparmio— è perciò divenuta kafkiana, anzi beckettiana e, come nel notissimo dramma teatrale “Aspettando Godot”, la condizione esistenziale dei personaggi cui ogni volta viene mandato a dire “il signor Godot oggi non viene, verrà domani”, pur angosciosa si tramuta in irrinunciabile, poiché, come accade nel dramma di Samuel Beckett, i protagonisti a un certo punto, prima che il sipario cali, riprendono a dire “adesso andiamo” eppur non si muovono. Evidentemente quei protagonisti, come del resto gli investitori sempre più timorosi di crolli sui mercati, sono la metafora dell’animo umano il quale sebbene resti nell’attesa di un evento che non accade mai, si rafforza sempre più nelle sue convinzioni.


GLI EFFETTI COLLATERALI DEGLI ECCESSI DEI MERCATI : VALUTAZIONI ECCESSIVE

Tornando alle valutazioni di borsa, senza dubbio eccessive secondo i più, esse non risultano essere soltanto materia riservata agli investitori e speculatori che operano sul mercato mobiliare. Come minimo invece influenzano anche le valutazioni di tutte le altre imprese, cioè quella miriade di società e gruppi industriali i cui titoli non sono quotati sui mercati borsistici ma risultano ugualmente essere oggetto di stima di valore. Ciò vale innanzitutto per i titoli tecnologici che hanno mostrato negli ultimi anni la miglior dinamica degli utili operativi e che pertanto influenzano le valutazioni persino delle start-up.

Ma non solo. Le borse ai massimi storici dunque influenzano anche il mare magnum di fusioni e acquisizioni che si estende al mondo intero, come pure l’oceano sconfinato delle valutazioni di credito da parte di banche e società finanziarie. Valutazioni che si basano sempre più, secondo le ultime teorie, sul cosiddetto “equity value” delle imprese affidate (cioè sul valore di mercato delle loro quote sociali, più o meno indipendentemente da quello contabile).

Se oggi i moltiplicatori dell’utile (p/e) che girano in borsa toccano la media di 30 volte, allora, pur scontando significativamente per la minor liquidità i titoli che non risultano quotati, difficilmente scendiamo sotto livelli di 15 o 20. I quali però risultano comunque al di sopra delle medie storiche di borsa (mi pare che la media delle medie risulti pari a 16 volte e, ovviamente, si riferisce a titoli mediamente molto “pesanti”. Lo stesso vale per la valutazione dei titoli a garanzia ai fini dei finanziamenti per le acquisizioni: se voglio indebitarmi per 50 per comperare un titolo che viene comunemente valutato 100 sto facendo un’operazione chiaramente molto prudente. Ma se quel 50 che prendo a debito corrisponde alla metà delle suddette valutazioni “prudenziali” di 15 o 20 volte l’utile, allora chi finanzia sta fornendomi un finanziamento che anmonta a 7 o 10 volte l’utile, che comunque rischia di risultare eccessivo.

Ecco dunque che l’economia reale risulta in ogni caso fortemente influenzata dai valori borsistici, sebbene talora sembri che i due mondi (quello dell’economia reale e quello dell’economia “di carta”) non si parlino.

MOLTE (DISCORDANTI) MISURE DELLA SOPRAVVALUTAZIONE

Esistono in proposito numerosi criteri da considerare se vogliamo affrontare il tema delle valutazioni d’impresa senza parteggiare per alcuna delle scuole di pensiero, a partire da quelli suggeriti dal famoso professor Robert Shiller e dal suo “CAPE RATIO” (cyclically adjusted price-to-earnings ratio: il rapporto prezzo/utili ponderato con la misura dell’inflazione e dei tassi di interesse) sulla base del quale egli ha lanciato ripetuti allarmi.

Numerosi sono però altri illustri pensatori come il professor Jeremy (autore del libro “Stocks for the Long Run” del 1994) che non condividono quei punti di vista perché, anche volendo considerare un eccesso nel livello dei moltiplicatori di valore, quando l’aggiustamento dell’indice viene operato sulla base della progressione degli utili in rapporto alla crescita economica, le attese di valore crescono fino a livelli più che accettabili.

Lo stesso vale quando andiamo a prendere il medesimo indice prezzo/valore ma lo consideriamo su base prospettica e lo compariamo con il cosiddetto “Misery Index “, vale a dire con la somma del tasso di inflazione più quello della disoccupazione. Se andiamo a osservare le serie storiche di nota una decisa correlazione inversa tra l’uno e l’altro indice: quando inflazione e disoccupazione sono contemporaneamente più basse è logico che gli investitori risultino più ottimisti e accettino quotazioni basate su multipli di valore più elevati.

Un indicatore ancora più deciso che punta a sfatare il mito delle valutazioni eccessive riguarda l’ultimo grafico qui riportato: l’indice dei rendimenti reali dei titoli azionari (il tasso di rendimento del paniere di azioni che compongono l’indice S&P500 di Wall Street depurato del tasso di inflazione dei prezzi al consumo): se esso risultasse troppo basso questo significherebbe che le azioni quotate risulterebbero troppo care, ma non è così. Se guardiamo alla media di lungo termine (dal 1935, pari al 3,7%) ci troviamo oggi al 2,6% vale a dire poco al di sotto di essa.

A dirla tutta ci sono altri indicatori molto meno rassicuranti da guardare con altrettanta attenzione, in particolare quello preferito da Warren Buffett, il rapporto tra capitalizzazione di mercato e valore del prodotto interno lordo (che rappresenta una misura grossolana del valore dei titoli quotati rispetto ad un anno di attività economica (e soltanto dell’America) oggi apparentemente a livelli preoccupanti: 135%. Ben oltre la misura suggerita in passato dal mago di Omaha (non oltre il 100%).

Non per niente la sua holding di partecipazioni, la Berkshire Hathaway, oggi detiene un livello record di denaro liquido : $100 milioni sul totale dei propri investimenti: $450 milioni. Un segnale di cautela.

Come pure un elemento da non trascurare nelle valutazioni di borsa è rappresentato dalla convenienza (in termini di rendimenti prospettici) ad investire in azioni come alternativa ai titoli obbligazionari, oggi invertita (convengono i bond) sebbene riferita ai rendimenti passati, non a quelli futuri (che è sempre difficile stimare).


ALLORA CHI HA RAGIONE: OTTIMISTI O PESSIMISTI?

Allora forse ha ragione Warren Buffett a preferire investimenti obbligazionari e ad accumulare grande liquidità? A modesto avviso di chi scrive, forse questa volta meno del solito.

A parte il fatto che abbiamo notato in precedenza (il ripetersi da più di un anno di segnali di allarme sulle borse, a posteriori del tutto ingiustificati), bisogna ricordarsi del fatto che l’investimento azionario ha caratteristiche di rischiosità correlate alla speranza di rendimenti futuri che possono differire non poco da quelli passati, soprattutto negli anni di deflazione e bassa crescita che abbiamo appena sperimentato.

Molti analisti oggi concordano che non solo l’economia globale cresce ben più del previsto, ma soprattutto cresce di più in funzione di fattori demografici in zone diverse da quelle dove precedentemente ha fatto meglio (l’Asia invece che l’America) e in modo esponenziale, a causa del diffondersi della digitalizzazione e delle altre nuove tecnologie. Se una piccola parte delle attese economiche legate a tali tecnologie si tramuterà in realtà allora gli utili aziendali delle principali imprese multinazionali quotate in borsa andranno alle stelle, giustificando ampiamente le attese oggi implicite nelle elevate quotazioni azionarie. Nessuno oggi può dirlo con certezza (e nel frattempo qualche ruzzolone di borsa non potrà che capitare), ma forse meno degli altri può parlare del futuro un ottantacinquenne (per quanto arzillo).

Il mondo potrebbe essere a una svolta che lo vede finalmente assaporare i frutti del progresso tecnologico in corso, come potrebbe invece avvitarsi attorno a nuove minacce o sciagure. I mercati finanziari riflettono tali attese, tanto nel bene quanto nel male, ma di solito non hanno torto. E questa volta le premesse perché gli ottimisti abbiano ragione sulla carta ci sono tutte!

Stefano di Tommaso




CON LA BOMBA A IDROGENO LA QUESTIONE COREANA SI COMPLICA. QUELLO CHE I MEDIA NON RACCONTANO PERÒ…

A molti mesi dalla presa di coscienza del fatto che il leader della Corea del Nord farà di tutto pur di non farsi mettere nel sacco dagli Stati Uniti d’America (più o meno in coincidenza con l’elezione di Donald Trump), molte sicurezze relative alle possibili opzioni politiche e militari sono saltate. Non stupisce oggi di apprendere che i militari al soldo di Kim Jong-Un siano pronti anche a montare una testata nucleare all’Idrogeno da centinaia di chilotoni sui propri missili balistici intercontinentali.

La dura verità è che per gli Stati Uniti d’America non ci sono opzioni militari “sul tavolo”, a meno di non rischiare la perdita di decine di milioni di vite umane nei primi trenta minuti di guerra, tanto in Corea del Sud, quanto in Giappone e persino a casa propria. Non ci sono nemmeno vere opzioni di riuscire a sferrare un attacco “chirurgico” . Il dittatore Kim lo sa bene e mostra i muscoli perché ha capito che è questo l’unico modo che ha per non farsi invadere o farsi destituire e sostituire da qualche fantoccio inviato da fuori.

E poi, se anche ci fosse, la realtà è che nessuna opzione militare americana sembrebbe accettabile per la Cina, che da sempre ha considerato la Corea del Nord come uno stato cuscinetto. Dopo quel che si è visto ai confini della Russia, dove ogni pretesto è stato utilizzato dalla NATO per ampliare la propria sfera di influenza, la Cina come potrebbe sperare che una Corea domani riunificata non diventi un avamposto americano si suoi confini? Se ci facciamo caso, addirittura ultimamente gli USA hanno fatto pressioni per il riarmo del Giappone, da secoli uno stato antagonista della Cina.


Quello che i media non raccontano è che la corsa al riarmo del dittatore coreano è da mettere in diretta corrispondenza con la progressiva pressione militare esercitata dagli americani tanto sulla Corea del Sud quanto sul suo angelo custode cinese, affinché egli venisse destituito. Anzi ultimamente le forze armate americane avevano forse sperato che -in nome di un’alleanza commerciale- questo lo facesse la Cina stessa, ma la verità è che non succederà, perché ciò andrebbe contro i suoi interessi nazionali.

La situazione paradossale cui si è giunti è che se Kim attacca l’America (ipotesi peraltro del tutto irrealistica) è solo lui contro gli USA, mentre se l’America attacca Kim anche la Cina risulterebbe in guerra con loro, per ovvi motivi di salvaguardia dei propri confini e dopo un istante da quando i soldati americani avessero varcato le frontiere della Corea del Nord anche quelli cinesi lo farebbero, reclamando la loro sfera di influenza (esattamente come è già successo nel 1950) e, di fatto, cambiati i personaggi, la situazione finale non risulterebbe troppo diversa.

L’unica vera soluzione della vicenda è quello di un mutuo scambio: la limitazione della proliferazione nucleare coreana contro un ritiro delle truppe americane dalla Corea del Sud e dal Mar del Giappone, cosa che convincerebbe anche la Cina delle buone intenzioni degli Stati Uniti se con ciò essi perdessero davvero la capacità di un “pronto intervento” nella regione. Lo faranno mai? È psicologicamente difficile per chiunque accettare di fare un passo indietro ma è anche razionalmente molto rischioso fare degli altri passi avanti verso un conflitto che coinvolgerebbe immediatamente oltre alla Cina anche la Russia, il Giappone, tutti i paesi della NATO e di conseguenza quasi l’intero pianeta!

L’opzione nucleare con Kim Jong -Un non è mai stata realistica ma oggi lo è meno che mai. Gli Stati Uniti lo sanno bene, anche se non lo dicono, perché dovrebbero ammettere di essere stati beffati. Forse anche per questo i mercati finanziari si rilassano e dormono sonni tranquilli. Per quante dimostrazioni muscolari militari entrambi i rivali possano inviare alle televisioni di tutto il pianeta, nessuno sta davvero prendendo in considerazione l’escalation  verso un conflitto termonucleare globale.

 

Stefano di Tommaso