L’ECONOMIA ACCELERA, O FRENA?

La Compagnia
La domanda può sembrare bislacca ma non è priva di fondamento, dal momento che ci sembra di assistere ad una sorta di “guerra delle statistiche”. L’economia italiana a leggere le prime pagine dei giornali non ha quasi mai avuto prospettive così floride, mentre i governi di tutto il resto del mondo sembrano essere sull’orlo di una crisi di nervi. Come interpretare il clamoroso divario? Per chi ha pazienza di arrivare a leggere l’articolo fino in fondo, un paio di spiegazioni ho provato a fornirle…

 

CINA E AMERICA FRENANO

Il Sole 24 Ore di Domenica 17 Ottobre‘21 titola a tutta pagina: “nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%“ mentre da ogni parte del mondo arrivano preoccupazioni e segnali d’allarme circa la brusca frenata che sta avendo l’economia mondiale. Da ultima quella della Cina, la cui economia è cresciuta meno delle attese nell’ultimo trimestre soltanto dello 0,2% sul trimestre precedente. L’economia americana, ad esempio, è di nuovo quasi al palo, come si può leggere inequivocabilmente dal grafico qui sotto riportato:

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Questo grafico, pubblicato da Bloomberg il 14 ottobre scorso ma riferito alla settimana precedente è addirittura superato: l’aggiornamento del 15 Ottobre rileva infatti che il medesimo indice è ulteriormente sceso di un altro 0,1% . Il cosiddetto “GDPNow”, relativo alla crescita economica Usa del terzo trimestre che due mesi fa era al 6%, oggi è all’1,2% e si teme che sia in ulteriore contrazione. Se poi vogliamo guardare al di quà dell’oceano nella vicina Germania, le prospettive non vanno molto meglio: l’attesa per fine anno del Pil tedesco sono già passate dal +3,7% al +2,4% e anche qui si teme di dover segnare presto altre riduzioni nell’ultimo periodo dell’anno.

L’ITALIA SI LIMITA AL RIMBALZO

In Italia siamo in un’isola felice allora? La risposta è francamente no, dal momento che l’eredità negativa che il governo Conte ci ha lasciato per il 2020 (quasi meno 9% del PIL e una serie infinita di problemi irrisolti e soltanto rinviati) forse la recupereremo soltanto verso la fine del 2022, come si può leggere dalle stime del Centro Studi di Confindustria, riportate nella tabella qui sotto:

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Stiamo infatti semplicemente rimbalzando dopo il tonfo dell’anno precedente, come farebbe persino un gatto morto lanciato dalla finestra. Altri Paesi nel mondo sono caduti meno di noi con il lockdown (ad esempio la Germania) e hanno fatto prima di noi il rimbalzo, guadagnando posizioni preziose nella competizione internazionale, quella che forse ai politici interessa poco ma all’economia nazionale invece si, dal momento che l’economia del nostro Paese si regge soprattutto sulle esportazioni.

Ma oggi quegli stessi paesi che hanno performato meglio di noi fino all’estate, hanno di nuovo il fiato corto, a causa di una combinazione di fattori negativi quali: l’inflazione, la scarsità i ritardi e i maggiori costi nella fornitura di materie prime e semilavorati, la nuova frenata dei consumi individuali e una maggior cautela negli investimenti industriali. Tutte cose che si può ragionevolmente temere siano presto in arrivo anche a casa nostra. Siamo soltanto sfasati dal punto di vista temporale e questo, per una volta, ci favorisce (almeno nelle statistiche).

UNO SFORZO MEDIATICO

È evidente tuttavia che Confindustria, come pure il Governo, stanno facendo uno sforzo per infondere ottimismo e invitano le imprese a investire il più possibile, segnalando la congiuntura favorevole. E’ un lodevole tentativo di propagare il rilancio (e soprattutto la sua percezione) cui deve andare il plauso degli Italiani se vogliamo tornare a sperare di dimenticare gli anni bui che ci hanno appena lasciato.

In effetti l’Italia era rimasta così tanto indietro negli anni precedenti che oggi è lecito sperare -con gli opportuni scivoli e incentivi- che la ripresa in corso non si fermi tanto in fretta. E poi stavolta le politiche economiche sembrano rivolte nella direzione più corretta, che è quella di favorire gli investimenti (essenziali per alleviare la disoccupazione) e di detassare le innovazioni e le ristrutturazioni.

Anche dal punto di vista del rilancio degli investimenti energetici, della transizione ecologica e dell’innovazione tecnologica le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembrano accompagnate da una indubbia mano forte nelle politiche del governo affinché le risorse europee non vengano sprecate ancora una volta.

I PROFITTI NON CRESCONO PIÙ

Dunque niente male. Ma l’economia globale lancia al tempo stesso segnali di forte preoccupazione, tali da rischiare di mandare all’aria buona parte degli sforzi in corso. Non soltanto l’economia ha frenato bruscamente in quasi tutto il resto del mondo già alla fine del terzo trimestre dell’anno, ma anche il sistema industriale, rappresentato innanzitutto dai colossi multinazionali quotati a Wall Street, mostra segnali di stanchezza, con la previsione di una decisa riduzione della crescita dei profitti alla fine di Settembre, che fino all’inizio dell’estate sembrava invece impetuosa, come si può leggere nel grafico qui riportato:

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I motivi della frenata sono numerosi ed eterogenei (dalla compressione dei margini industriali derivante dal rialzo dei costi -anche energetici- e dai ritardi nei processi produttivi, fino alla scarsità di disponibilità di manodopera qualificata e al rallentamento degli investimenti che ne consegue).

Pertanto difficilmente si può classificare tali motivi come “passeggeri”: sono soprattutto le filiere di fornitura di materie prime e semilavorati ad essere sempre più sotto pressione, anche in funzione delle tensioni geopolitiche, che con l’arrivo di Biden alla presidenza americana si sono soltanto moltiplicate, facendo temere il peggio per il prossimo futuro.

In effetti i tempi di attesa nelle forniture industriali non soltanto si sono dilatati moltissimo a partire dall’estate, ma hanno poi continuato ulteriormente a crescere, come si può leggere dal grafico qui riportato (relativo ai soli microchip, i quali però sono oramai dappertutto):

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A Settembre eravamo arrivati a quasi 22 settimane di arretrato e non ci sono al momento segnali di miglioramento, nonostante il rallentamento nel frattempo intervenuto nella produzione e dunque anche nei loro ordinativi. L’industria automobilistica, come pure quella degli elettrodomestici e degli articoli elettronici, è in ginocchio per questa ragione. E le consegne di prodotti finiti sono calate di circa un quinto del totale!

IL RISCHIO DI STAGFLAZIONE

Del pari, come non bastasse, il costo delle materie prime continua a crescere, come rivela il grafico qui riportato, relativo all’indice dei prezzi delle materie prime (il“Commodity Research Bureau BLS/U.S. Spot Raw Industrials Index”):

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Se ci aggiungiamo che l’indice medesimo è relativo ai prezzi espressi in Dollari americani, i quali si sono rivalutati anche loro, si può comprendere il livello di allarme che, oltralpe e oltreoceano, viaggia sulla bocca di tutti. Di seguito l’andamento dell’Euro contro il suddetto Dollaro, che si è rivalutato del 6-7%, dopo il doppio massimo (classica figura che segnala l’inversione di un trend) segnato durante l’estate:

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Per non parlare della recrudescenza pandemica in corso (di cui da noi stranamente non sembra esserci traccia), in certa misura ampiamente attesa per l’autunno (per fattori stagionali) ma che stavolta sembrava dovesse invece risparmiare almeno una parte della popolazione mondiale a causa dell’incremento di vaccinati. È evidente che -in tutto il mondo- i vaccini sono un bel business ma non funzionano sempre, e che di conseguenza le assenze sul lavoro e i ricoveri ospedalieri contribuiscono anch’essi a frenare la crescita economica e i profitti aziendali!

I timori complessivi fuori dei nostri confini nazionali insomma non sono soltanto relativi ad una possibile precoce inversione del ciclo economico, ma addirittura di arrivare a piombare in una vera e propria trappola da “stagflazione” (stagnazione+inflazione) che spiazzerebbe completamente la posizione delle banche centrali, fino a ieri i principali alfieri degli stimoli alla ricrescita economica. Come si può leggere dal grafico qui riportato, in Germania i prezzi all’ingrosso sono arrivati a crescere del 13% al 30 Settembre (e del 18% rispetto ai minimi dell’anno):

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In Italia invece il presidente di Confindustria -Carlo Bonomi- parla di “rischio prezzi per ora contenuto”! Cosa sta succedendo? L’ondata di buone notizie, persino talvolta false e tendenziose (come quella relativa alle materie prime) fa pensare ad un supporto senza quartiere all’attuale governo Draghi, già da tempo definito “il migliore di quelli possibili”, onde evitare di perdere i contributi europei.

LE RIFORME ANCORA DA FARE

Sono infatti 42 le riforme ancora da far passare in Parlamento negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno, sperando che nel frattempo le tensioni politiche in crescita dopo le elezioni amministrative non arrivino a bloccarle del tutto. Senza quelle riforme è piuttosto probabile che succeda all’Italia ciò che la Commissione Europea ha già fatto con l’Ungheria di Orban: bloccare i fondi! E quelle riforme corrispondono ad una cura da cavallo per il nostro Paese, utile si, ma non priva di ripercussioni anche sociali (si pensi solo all’allungamento dell’età pensionabile, all’incremento degli estimi catastali e all’inasprimento delle normative sulla crisi di impresa).

D’altra parte con l’arrivo del nuovo governo in Germania gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea sono di nuovo messi in discussione e l’Italia è tornata ad essere un sorvegliato speciale. E Draghi vuole evitare che qualcuno al nord del continente pensi che non stia facendo tutto il possibile. La grancassa che stiamo ascoltando insomma sembra da un lato ricordare al resto d’Europa i clamorosi risultati di questo governo “di transizione” e dall’altro lato sembra preludere alla necessità di provocare ancora una volta uno scossone importante non appena si materializzeranno anche nelle statistiche le problematiche già viste all’estero, pur di mantenere la rotta sul fronte delle riforme necessarie per portare a casa i contributi europei!

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




LE STARTUP AMERICANE FANNO CASSA

La quotazione in borsa di Uber Technologies sembra la perfetta occasione per fare qualche considerazione di fondo sulla schiera di “unicorni” (così vengono chiamate le nuove imprese dell’era digitale che superano la valutazione di un miliardo di dollari) i cui sopravvalutatissimi titoli stanno per riversarsi ancora una volta a Wall Street, sulla scia della nuova ondata di liquidità che le banche centrali continuano a immettere sui mercati.

 


Secondo una stima indipendente al momento si possono contare più di 340 di quegli “unicorni” quando ce n’erano circa un decimo in numero solo cinque anni fa (39 per l’esattezza), la maggior parte dei quali (21 per l’esattezza) oggi sono già quotati in borsa, cambiandone radicalmente i connotati.


Non che sia andata così male: se prendiamo l’andamento delle famose FAANG (Facebook Amazon Apple Netflix e Google), le loro quotazioni negli ultimi tempi hanno corso ben più dell’indice più usato per valutare l’andamento della borsa americana, come si può leggere dal grafico qui riportato:


Ma la proliferazione di queste società (gli “unicorni” sono soltanto la punta dell’iceberg di un’intera generazione di startup che hanno trovato risorse presso gli investitori privati) e delle loro favolose valutazioni è probabilmente anche il risultato della ricerca spasmodica -da parte degli investitori- di nuove più rischiose opportunità su cui investire la montagna di liquidità sulla quale essi sono seduti. Nel 2018 per la prima volta gli investimenti complessivi nelle startup tecnologiche da parte degli americani hanno superato i 100 miliardi di dollari !


Solo pochi anni fa qualcuno aveva denunciato il fenomeno del cosiddetto “savings glut”(cioè la congestione dei risparmi, che non erano mai stati così alti a causa del miglioramento delle condizioni generali di vita, dell’invecchiamento progressivo della popolazione ricca, eccetera…) facendo notare al tempo stesso che le opportunità di investimento mobiliare non si erano moltiplicate allo stesso ritmo, spingendo in tal modo al rialzo i titoli a reddito fisso (e al ribasso i loro rendimenti) e a nuove vette le quotazioni delle principali borse del pianeta. Già questo fenomeno può spiegare in buona parte la montagna di quattrini che si riversano sugli investimenti più rischiosi.

Ma come si può riuscire a distinguere tra l’oceano di nuove iniziative quelle che faranno le migliori performances, quando supereranno la fase iniziale di perdite di bilancio? La risposta più onesta è che molto spesso non si può. Quello che oggi conta di più tra le vincenti della loro categoria è piuttosto la loro capacità di attrarre risorse finanziarie per crescere dimensionalmente.

Uber da questo punto di vista, con la sua teorica valutazione di 100 miliardi di dollari è la perfetta prova di tale affermazione! Dopo dieci anni di sonore perdite economiche (ha bruciato circa 20 miliardi di dollari) il suo giro d’affari, 11,3 miliardi nel 2018, è salito del 42% rispetto al 2017, che invece aveva visto il raddoppio rispetto a 2016. Il numero di utenti mensili è balzato del 34% a 91 milioni nell’ultimo anno e sua volta era cresciuto ben di più, del 51%, nel 2017. Le risorse finanziarie di cui è stata dotata hanno infatti permesso a Uber di espandere il proprio modello di business a qualsiasi servizio dove avrebbe potuto utilizzare dei collaboratori esterni per fare consegne, di qualsiasi cosa, nonostante la quasi totalità di quei servizi sia in perdita.

Lyft, che si è quotata in Borsa pochi giorni fa a livelli ben più bassi (24 miliardi), ha semplicemente spinto meno sull’acceleratore perchè aveva meno risorse da spendere per la sua crescita. E la notizia che le operazioni di quotazione sembrano andare benone sta spingendo Pinterest, l’ennesimo social network in forte perdita, a scaldare anche lei i motori per la borsa!

È quello che recentemente gli economisti hanno battezzato come “esuberanza irrazionale”: l’eccesso di ricchezza (e di aspettative sulla crescita economica) porta a scommettere su nuovi modelli di business persino laddove non c’è alcun indicatore che possa far presumere razionalmente la prospettiva di un profitto. Ovviamente la misura di questa esuberanza è cresciuta soprattutto negli ultimi anni, insieme con la ricchezza degli investitori, come si può vedere dal grafico:


Ma il fenomeno della montagna di liquidità che -aperte le cateratte della borsa- si riversa sugli unicorni al momento della quotazione ha molti altri risvolti sociali e industriali. Innanzitutto quello sulla competitività con i loro concorrenti del passato: inutile far notare che il momento è drammatico per tutti coloro che si occupano di consegne locali “alla vecchia maniera” nelle città dove Uber o Lyft sono presenti. Nessuno di loro dispone delle risorse che hanno questi colossi per perdere ancora denaro! E’ chiaro che per tutti gli altri i margini si schiacciano e il modello di business in può più prescindere da internet e dalla pubblicità online, cosa che a sua volta riduce le entrate pubblicitarie dei giornali locali, delle televisioni regionali e delle affissioni.

Ma la cosa più buffa sono i prezzi delle case, che nelle città più interessate (San Francisco e Los Angeles) alla pioggia di denaro che si sta riversando da Wall Street sono già in passato schizzati alle stelle e ancora una volta si apprestano a crescere. Molti dei beneficiari delle gigantesche valutazioni hanno infatti dormito in un appartamento in comune con molti altri giovani fino a poco tempo fa, e adesso vogliono spostare sull’economia reale i guadagni realizzati su quella “di carta”.

Rischia di andare un po’ come per l’oro del Portogallo, arrivato nel diciassettesimo secolo assai copioso dalle colonie d’oltreoceano, è stato capace di bruciare l’economia reale nel giro di pochi anni, arrestandone il normale funzionamento. Ma per fortuna questa volta il fenomeno sociologico è ben più esteso. Da ogni parte del mondo si investe e si è investito nelle società che sono destinate a cambiare per sempre il volto industriale del mondo. E i frutti che ne derivano vanno anch’essi in tutte le direzioni.

Se poi sarà davvero una manna o viceversa risulterà essere stata una (pericolosissima) moda del momento, lo sapranno soltanto i posteri. Per ora possiamo soltanto cercare alche paragone, come ad esempio la statistica degli ultimi 55 anni qui sotto riportata, che distingue tra imprese valutate poco in relazione ai loro elevati profitti (primo istogramma), quelle dell’indice più diffuso della borsa americana (secondo) e quelle valutate molto e con bassi profitti (terzo):


È chiaro che partire dal 1963 può essere un po’ distorsivo, ma è altrettanto vero che abbiamo già visto scoppiare la bolla speculativa delle “dot.com” dei primi anni ‘90 ed è piuttosto elevato il rischio che anche stavolta la bolla delle aspettative scoppi prima che il nuovo corso si consolidi.

Stefano di Tommaso




REBUS ITALIA

Nel primo trimestre dell’anno l’indice Ftse Mib è cresciuto del 18,45% contro il -16,15% dell’intero 2018. Da inizio anno i titoli di Stato italiani a 10 anni hanno subito un rialzo dei prezzi e una discesa conseguente del rendimento dell’8,13%. Ai prezzi attuali il rendimento a scadenza è del 2,51%,un punto in meno di pochi mesi fa. Insomma la borsa italiana, il cui capitale flottante (la parte di titoli quotati non legata a maggioranze di controllo o patti di sindacato, che viene comunemente scambiata) appartiene per la massima parte a investitori stranieri, sembra scommettere, alla conclusione del primo trimestre del 2019, sul buon andamento del nostro Paese, contrariamente a quanto succedeva nel 2018.

 


LE STATISTICHE SONO NEGATIVE

Nel frattempo i dati a fine marzo (cioè pochi giorni fa) sulla crescita dell’economia italiana non potrebbero essere più deludenti. Cito letteralmente un recente articolo a firma di Morya Longo sul Sole 24 Ore: “Che l’Italia cresca meno degli altri Paesi europei è noto a tutti… Un rapporto di The European House-Ambrosetti individua tre motivazioni strutturali: scarsa produttività, scarsa formazione, scarso livello di investimenti. La produttività italiana è cresciuta del 6,7% negli ultimi 23 anni, contro il 31,6% della Germania, il 27,8% della Francia, il 16,8% della Spagna e il 27,4% medio dell’Unione europea. Il motivo principale è dato dal fatto che in Italia è mancata la spinta della cosiddetta produttività «multifattoriale»: quella legata alla managerialità, alla digitalizzazione, alla meritocrazia, alla formazione e all’ambiente economico. Insomma: non cresce un Paese che mette le persone sbagliate nei posti sbagliati e che non ha cultura manageriale. Sul capitale umano l’Italia è ancora più indietro. Il nostro è infatti il Paese con la percentuale di laureati più bassa: solo il 17,7% della popolazione. L’Italia è anche il Paese che investe meno in istruzione, dato che in percentuale al Pil si ferma a un misero 0,3% per le sole università. Molto meno di Spagna (0,6% del Pil), Francia (0,6%) e Germania (0,8%). Anche questo è un freno evidente alla crescita: minori competenze rispetto agli altri Paesi significano infatti minore capacità di innovare. Ma anche minori competenze nella forza lavoro. Infine l’altro grande problema dell’Italia è la scarsità degli investimenti.”

MIGLIORI PROSPETTIVE

Numeri e fatti che lasciano poco spazio alle argomentazioni politiche e retoriche di entrambe le fazioni: maggioranza e opposizione, circa lo stato di salute dell’economia reale del nostro Paese. Ma com’è possibile che i mercati finanziari sottovalutino grandemente il pericolo che l’economia italiana possa avvitarsi ancor di più generando a sua volta una vera e propria crisi di fiducia nel debito pubblico nazionale? Evidentemente non basta guardare alle cifre storiche appena citate ma bisogna piuttosto interpretare i segnali prospettici per trovare una risposta all’altrimenti inspiegabile ottimismo degli investitori circa il destino economico della nostra Penisola.

In effetti il governo in questi giorni sta scaldando i motori su un certo numero di fronti caldi in fase di definizione del “DEF” (il documento di programmazione economico finanziaria): lo sblocco dei cantieri per gli investimenti infrastrutturali, la “Flat Tax” (che significa in definitiva un taglio delle tasse sul reddito), il rimborso ai risparmiatori coinvolti nei crack bancari, e un certo numero di semplificazioni burocratiche (ance se di esse è stato annunciato poco o niente). Lo spirito della manovra programmatica è quindi molto chiaro: fare tutto il possibile per far ripartire l’economia italiana nonostante i numerosi vincoli di bilancio e finanziari imposti da Bruxelles. D’altra parte il ritardo nella spesa infrastrutturale accumulato è comune a tutta l’Europa, (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato) e dipende dall’impostazione fortemente ideologica della Commissione Europea a proposito del vincolo di bilancio. Un ritardo che lascia sperare nella possibilità che nuovi importanti investimenti saranno deliberati presto dall’intera Unione per recuperare il terreno perduto.


LA FINANZA INTERNAZIONALE SCOMMETTE SULL’ITALIA

E a crederci non sono soltanto gli elettori dell’attuale compagine governativa, bensì gli investitori finanziari stranieri, che notoriamente sono molto meno teneri nei loro giudizi di convenienza.

La maggioranza di governo peraltro si avvia a un mese dalla prossima consultazione elettorale (quella per il rinnovo del Parlamento Europeo, a Maggio) con una prospettiva per lei decisamente positiva, sebbene i sondaggi prevedano una discesa delle preferenze del partito di attuale maggioranza relativa (i 5 Stelle) e una crescita delle preferenze per la Lega di Salvini, accreditato oramai stabilmente di oltre il 30% dei consensi. Il tutto con un pericolo di dissoluzione dell’attuale governo in carica che risulta nei fatti ancora piuttosto limitato, nonostante il bombardamento mediatico che indica un litigio crescente tra i due partiti al governo e le voci che circolano a proposito di Mario Draghi, governatore uscente della Banca Centrale Europea, che sarebbe stato individuato da Mattarella come candidato ideale per gestire la fase successiva all’eventuale crisi di governo e prima delle eventuali elezioni anticipate, che ragionevolmente non ci sarebbero prima dell’autunno inoltrato.

Forse è anche per questo pericolo (il Quirinale non è mai stato tenero con l’attuale governo) che la maggioranza giallo-verde risulta oggi più compatta di quello che la stampa vorrebbe farci credere. E i mercati finanziari ne prendono atto, lasciando lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi ai minimi dell’anno e premiando addirittura le quotazioni di Piazza Affari e dei BTP.

MA IL “MAINSTREAM” È IMPIETOSO

Uno iato più forte tra il “mainstream” di stampa e televisioni e il “sentiment” dei pragmatici investitori stranieri non potrebbe nemmeno essere immaginato! Chi ha ragione? Purtroppo nessuno può prevedere il futuro e nè i commentatori nè gli investitori possono essere sicuri delle loro contrastanti indicazioni.

Quel di cui si può tuttavia prendere atto è che la congiuntura internazionale sembra essere indirizzata sulla via del miglioramento, e in particolare la fiducia degli operatori economici tedeschi (riportata dall’indice IFO) sembra essere ripartita a Marzo, mentre Francia e Spagna sembrano continuare la loro crescita sopra la media europea e persino l’andamento del Prodotto Interno Lordo italiano è già tornato sopra lo zero nel primo trimestre 2019. Dunque qualche elemento oggettivo di speranza rimane ancorato ai numeri tendenziali.

MEGLIO LA CINA CHE L’EUROPA?

Il Governo in carica ha oggettivamente le gambe azzoppate dall’eccessivo fardello di debito ereditato e dall’approccio impietoso degli altri membri dell’Unione Europea verso un Paese che le sta provando tutte per riprendere vigore.

Forse è per questo motivo che il Governo ha abbracciato con così grande entusiasmo le proposte giunte dalla Cina per il programma di investimenti della Belt & Road Initiative (la cosiddetta “nuova via della seta”) e i conseguenti capitali in arrivo dall’ex celeste impero. I quali genereranno sicuramente un costo e una qualche dipendenza nei suoi confronti, ma gli italiani si chiedono altresì se la Cina potrà essere per il nostro Paese un partner peggiore che non la la Francia, la Germania, l’Olanda e la Finlandia.

E la risposta non è poi così scontata, come afferma in un recente articolo, tranquillamente e con distacco, l’autorevole rivista americana “Barron’s” (che riflette il punto di vista degli Americani, cioè coloro che avrebbero dovuto indignarsi di più)!

Stefano di Tommaso