L’ITALIA ALLA PROVA DEL RATING

Il prodotto interno lordo (PIL) nazionale nel 2018 aumenterà “soltanto” dell’1,3%, ma soprattutto saranno i consumi a mostrare la crescita più lenta: +1%, la più bassa dal 2014. In soldoni scenderanno di 5 miliardi di Euro rispetto a quanto previsto, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove la ripresa è più solida. A fine 2017 infatti i consumi segnavano aal’incirca +11% in Germania, +9% in Francia, +5% in Gran Bretagna rispetto al 2007, mentre in Italia erano sotto di quasi il 3% (€26 miliardi). E questo in assenza degli ancora possibili rincari dell’IVA (previsti dalle clausole di salvaguardia) che abbatterebbero in modo molto più deciso le prospettive per gli anni futuri incrementando il divario con il resto del continente.
L’INDAGINE DEL C.E.R. PER CONFESERCENTI
Il grido d’allarme proviene da Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, per la quale il centro di ricerche CER ha pubblicato un’indagine macroeconomica impietosa. Senza una ripresa del mercato interno -prosegue la De Luise- le piccole e medie imprese italiane resteranno al palo, oberate da una tassazione media al 60% dei redditi e da un eccesso di burocrazia che pesa 22 inutili miliardi l’anno. Poi c’è la diminuzione del credito alle imprese, che solo l’anno scorso si è ristretto di 12 miliardi, mentre i tassi che salgono (a casa nostra piu che altrove per effetto del rialzo dello spread, arrivato a ridosso del +3% rispetto ai titoli tedeschi) contribuiscono ad annegare la competitività nazionale.

SERVIREBBE UN FORTE STIMOLO PER L’ECONOMIA
Dunque servirebbe un forte stimolo all’economia italiana, una riduzione della spesa improduttiva e un incentivo agli investimenti, ma per farlo lì per lì ci vogliono risorse pubbliche e invece le pressioni della Commissione Europea sul nuovo governo vanno esattamente nella direzione opposta: ridurre il deficit anziché incrementarlo (l’anno scorso quello di Gentiloni si era limitato allo 0,9% sul PIL). La negoziazione in corso tra il ministro Tria e il commissario europeo Moscovici (guarda caso un altro francese) verte perciò su un deficit dell’1,5% (circa 10 miliardi in più di spesa rispetto allo 0,9%) ma che è lontano dal 3% indicato come tetto massimo dal Patto di Stabilità sul bilancio europeo.

Ma per evitare lo scatto delle clausole di salvaguardia legate all’aumento dell’Iva sono necessari 12,4 miliardi, uno sforzo che vale 0,7 punti percentuali di deficit. I provvedimenti cardine del contratto di governo dovranno essere coperti con tagli alla spesa o con aumenti di entrata che, evidentemente, avrebbero un effetto depressivo sull’economia italiana.
Il ricatto morale è evidente: la Francia è rientrata sotto il tetto del 3% di disavanzo pubblico sul PIL soltanto l’anno scorso, ma il vero problema dell’Italia sono indubbiamente le prospettive: se l’economia non cresce il problema si avvita su sè stesso e il debito pubblico risulta insostenibile (come si può vedere dalle tabelle e grafici qui sotto riportati) e la Commissione Europea ne approfitta per mettere in difficoltà un governo che da altri punti di vista (immigrazione, BCE, eccetera) non ha perso occasione per fare polemiche.
IL CONFRONTO CON IL RESTO D’EUROPA
1) La storia recente dei deficit pubblici

2) Le previsioni delle principali voci macro-economiche per il 2018

3) La crescita del PIL in Europa nel 2017(primo grafico) e negli ultimi 10 anni(secondo)


IL RICATTO DEL RATING
Il vero punto di caduta però ancora una volta potrebbero determinarlo le Agenzie di Rating (quelle società “indipendenti” che valutano il merito di credito della nazione). Pochi giorni fa la prima di queste, in scadenza di revisione del nostro punteggio, la Fitch, non ha tagliato il suo giudizio sul debito sovrano dell’Italia (l’Italia merita ancora un punteggio BBB) sebbene abbia rivisto l’outlook (la prospettiva) facendo sapere che d’ora in poi le azioni del governo saranno sotto stretta osservazione.
Ora si dovranno attendere i pareri di S&P’s e Moody’s. Ed è chiaro che la differenza la farà il Documento programmatico di Economia e Finanza (DEF), in febbrile lavorazione in questi giorni. Se sarà innovativo, pragmatico, costruttivo e prudente forseagmatico, costruttivo e prudente forse riuscirà a convincerle della bontà dei programmi del nuovo esecutivo. Ma molti vedono nel potere discrezionale delle agenzie di rating la “pistola puntata” dei poteri forti nei confronti di un esecutivo che ne denuncia le nefandezze. Dunque certi risultati potrebbero giungere “a prescindere” dall’effettiva capacità di chi governa il Paese.
Fitch, che ipotizza nuove elezioni politiche nel corso del 2019, vede una tendenza dell’Italia a concedersi ulteriori politiche di spesa “che renderà il già elevato debito più esposto rispetto a potenziali shock” arrivando a prefigurare l’uscita del nostro Paese dall’Unione Europea . Fitch stima perciò nel 2018 un deficit che arriva all’1,8% del Pil (più alto di 0,3 punti rispetto alle stime) e al 2,2% del Pil nel 2019.
L’APPETIBILITÀ DEI TITOLI DI STATO
Dunque il vero sorvegliato speciale è il rapporto del deficit di bilancio con il prodotto interno lordo. L’aspettativa di vedere in crescita di quest’ultimo e, di conseguenza, la qualità della spesa pubblica (se essa sarà rivolta ad investimenti produttivi, per esempio a stimolare quelli infrastrutturali piuttosto che a mero assistenzialismo, cioè vecchia maniera) è essenziale per giudicare la sostenibilità del debito pubblico italiano, cioè l’appetibilità delle nuove emissioni di titoli di stato.

E LA BORSA NE RISENTE
Dopo che in primavera è stato pubblicato il programma di governo, tra i detentori di Bot e Btp è aumentato il peso delle banche italiane (da 345 a 373 miliardi nel mese di maggio) e delle istituzioni finanziare italiane (da 422 a 445 miliardi), mentre è diminuita l’esposizione di investitori esteri (da 722 a 699 miliardi) e di altri residenti italiani (da 95 a 80 miliardi). È chiaro tuttavia che se la tendenza dovesse proseguire sarebbero i rating di queste ultime a rischio. E poiché molte di esse sono quotate in borsa, non è un caso che le loro quotazioni scendano e, con esse, l’intero listino.

Una buona occasione per comperare titoli mediamente sottovalutati a causa della disaffezione verso il listino di Milano, oppure un primo segnale d’attenzione per ciò che può succedere a breve all’Italia se un’altra bufera finanziaria si abbatterà sulla credibilità del nostro fragile bilancio pubblico.
Stefano di Tommaso

Anche per questi motivi Wall Street resta imperterrita sui valori massimi storici, nonostante sia dato per scontato l’ennesimo aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve.







Adesso, dopo i fatti di Genova, ci si è messo anche il tormentone della crisi di affidabilità delle infrastrutture viarie, che richiederà una miriade di interventi in cui bisogna investire capitali, ma non è chiaro da dove arriveranno. La disponibilità di capitali per gli investimenti è funzione diretta dell’appetibilità degli stessi e, se un paese rischia di entrare in una fase di instabilità politica e finanziaria, il mercato si dilegua, come sta succedendo in questi giorni con la fuga dei capitali stranieri dai titoli italiani (tra maggio e giugno gli esteri hanno venduto 58 miliardi di euro di titoli di Stato).
Però bisogna doverosamente notare che, se qualcuno oggi vende i titoli di stato (i volumi di questo Agosto sono decisamente più alti del solito), questo significa per certo due cose:
Il punto del ragionamento di chi oggi lancia l’allarme sulla possibilità che le cose peggiorino nettamente si basa proprio sulle due suddette considerazioni: i motivi di allarme che determinano il Sell-Off (la fuga) degli stranieri sono più che


Resta perciò aperta la questione iniziale: chi comprerà i titoli italiani? I neo-ministri stanno agitandosi molto (e a ragione) al riguardo, tanto nel dialogo con la banca centrale (Savona è andato a trovare Draghi) e con le altre istituzioni europee (cui chiedono di prolungare il periodo di Q.E. e/o di mostrare se ci tengono alla permanenza dell’Italia nell’euro-zona) quanto con le possibili alternative: le potenze economiche del Pacifico (prima Conte in America e adesso Tria in Cina), cui stanno proponendo vantaggiosi accordi di collaborazione commerciale.
E qui la partita si fa delicata, perché se è vero che sulla parola di un Presidente americano perennemente sotto assedio non c’è da contare troppo, ecco che tornano d’interesse le alternative come la Cina (dove Tria, il ministro dell’economia pentastellato si è recato per un’intera settimana) dato anche il fatto che il fondo di investimento sovrano “Silk Road” possiede il 5% di Autostrade e potrebbe avere un deciso interesse strategico a soppiantare Atlantia e che tanto la Cina quanto la Russia potrebbero trovare interessante investire nelle infrastrutture viarie del nostro Paese (la partita sui titoli di stato si intreccia fortemente con quella della necessità di investimento nelle infrastrutture nazionali).

PERCHÉ UN “PIANO MARSHALL”
Per non parlare dell’andamento generale degli investimenti pubblici in Italia e in Europa (grafico a destra):


Dunque è piuttosto probabile che con quelle premesse si arrivi a sfondare il tetto del 3% (in rapporto al P.I.L.) del deficit di bilancio e, senza qualche altra notizia di segno positivo, sarebbe difficile convincere la comunità finanziaria internazionale della costanza di sostenibilità del debito pubblico. Sino ad oggi il Ministro Tria si è prodigato in generiche dichiarazioni ma poi non ha detto nulla di più concreto, mentre la delibera anticipata a fine Agosto o ai primi di Settembre di una Manovra Finanziaria d’Autunno (che rischia per altri versi di risultare decisamente “caldo” per il Governo) che risulti compatibile con le esigenze di stabilità sarebbe un atto collegiale dell’intero Esecutivo e potrebbe aiutare moltissimo a ristabilire la fiducia internazionale (e con essa la riduzione del famigerato “spread” con i titoli di stato tedeschi).