L’ITALIA ALLA PROVA DEL RATING

Il prodotto interno lordo (PIL) nazionale nel 2018 aumenterà “soltanto” dell’1,3%, ma soprattutto saranno i consumi a mostrare la crescita più lenta: +1%, la più bassa dal 2014. In soldoni scenderanno di 5 miliardi di Euro rispetto a quanto previsto, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove la ripresa è più solida. A fine 2017 infatti i consumi segnavano aal’incirca +11% in Germania, +9% in Francia, +5% in Gran Bretagna rispetto al 2007, mentre in Italia erano sotto di quasi il 3% (€26 miliardi). E questo in assenza degli ancora possibili rincari dell’IVA (previsti dalle clausole di salvaguardia) che abbatterebbero in modo molto più deciso le prospettive per gli anni futuri incrementando il divario con il resto del continente.

 

L’INDAGINE DEL C.E.R. PER CONFESERCENTI

Il grido d’allarme proviene da Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, per la quale il centro di ricerche CER ha pubblicato un’indagine macroeconomica impietosa. Senza una ripresa del mercato interno -prosegue la De Luise- le piccole e medie imprese italiane resteranno al palo, oberate da una tassazione media al 60% dei redditi e da un eccesso di burocrazia che pesa 22 inutili miliardi l’anno. Poi c’è la diminuzione del credito alle imprese, che solo l’anno scorso si è ristretto di 12 miliardi, mentre i tassi che salgono (a casa nostra piu che altrove per effetto del rialzo dello spread, arrivato a ridosso del +3% rispetto ai titoli tedeschi) contribuiscono ad annegare la competitività nazionale.

 

SERVIREBBE UN FORTE STIMOLO PER L’ECONOMIA

Dunque servirebbe un forte stimolo all’economia italiana, una riduzione della spesa improduttiva e un incentivo agli investimenti, ma per farlo lì per lì ci vogliono risorse pubbliche e invece le pressioni della Commissione Europea sul nuovo governo vanno esattamente nella direzione opposta: ridurre il deficit anziché incrementarlo (l’anno scorso quello di Gentiloni si era limitato allo 0,9% sul PIL). La negoziazione in corso tra il ministro Tria e il commissario europeo Moscovici (guarda caso un altro francese) verte perciò su un deficit dell’1,5% (circa 10 miliardi in più di spesa rispetto allo 0,9%) ma che è lontano dal 3% indicato come tetto massimo dal Patto di Stabilità sul bilancio europeo.

 


Ma per evitare lo scatto delle clausole di salvaguardia legate all’aumento dell’Iva sono necessari 12,4 miliardi, uno sforzo che vale 0,7 punti percentuali di deficit. I provvedimenti cardine del contratto di governo dovranno essere coperti con tagli alla spesa o con aumenti di entrata che, evidentemente, avrebbero un effetto depressivo sull’economia italiana.

Il ricatto morale è evidente: la Francia è rientrata sotto il tetto del 3% di disavanzo pubblico sul PIL soltanto l’anno scorso, ma il vero problema dell’Italia sono indubbiamente le prospettive: se l’economia non cresce il problema si avvita su sè stesso e il debito pubblico risulta insostenibile (come si può vedere dalle tabelle e grafici qui sotto riportati) e la Commissione Europea ne approfitta per mettere in difficoltà un governo che da altri punti di vista (immigrazione, BCE, eccetera) non ha perso occasione per fare polemiche.

IL CONFRONTO CON IL RESTO D’EUROPA

1) La storia recente dei deficit pubblici

2) Le previsioni delle principali voci macro-economiche per il 2018

 


3) La crescita del PIL in Europa nel 2017(primo grafico) e negli ultimi 10 anni(secondo)

 

 

IL RICATTO DEL RATING

Il vero punto di caduta però ancora una volta potrebbero determinarlo le Agenzie di Rating (quelle società “indipendenti” che valutano il merito di credito della nazione). Pochi giorni fa la prima di queste, in scadenza di revisione del nostro punteggio, la Fitch, non ha tagliato il suo giudizio sul debito sovrano dell’Italia (l’Italia merita ancora un punteggio BBB) sebbene abbia rivisto l’outlook (la prospettiva) facendo sapere che d’ora in poi le azioni del governo saranno sotto stretta osservazione.

Ora si dovranno attendere i pareri di S&P’s e Moody’s. Ed è chiaro che la differenza la farà il Documento programmatico di Economia e Finanza (DEF), in febbrile lavorazione in questi giorni. Se sarà innovativo, pragmatico, costruttivo e prudente forseagmatico, costruttivo e prudente forse riuscirà a convincerle della bontà dei programmi del nuovo esecutivo. Ma molti vedono nel potere discrezionale delle agenzie di rating la “pistola puntata” dei poteri forti nei confronti di un esecutivo che ne denuncia le nefandezze. Dunque certi risultati potrebbero giungere “a prescindere” dall’effettiva capacità di chi governa il Paese.

Fitch, che ipotizza nuove elezioni politiche nel corso del 2019, vede una tendenza dell’Italia a concedersi ulteriori politiche di spesa “che renderà il già elevato debito più esposto rispetto a potenziali shock” arrivando a prefigurare l’uscita del nostro Paese dall’Unione Europea . Fitch stima perciò nel 2018 un deficit che arriva all’1,8% del Pil (più alto di 0,3 punti rispetto alle stime) e al 2,2% del Pil nel 2019.

L’APPETIBILITÀ DEI TITOLI DI STATO

Dunque il vero sorvegliato speciale è il rapporto del deficit di bilancio con il prodotto interno lordo. L’aspettativa di vedere in crescita di quest’ultimo e, di conseguenza, la qualità della spesa pubblica (se essa sarà rivolta ad investimenti produttivi, per esempio a stimolare quelli infrastrutturali piuttosto che a mero assistenzialismo, cioè vecchia maniera) è essenziale per giudicare la sostenibilità del debito pubblico italiano, cioè l’appetibilità delle nuove emissioni di titoli di stato.

 

E LA BORSA NE RISENTE

Dopo che in primavera è stato pubblicato il programma di governo, tra i detentori di Bot e Btp è aumentato il peso delle banche italiane (da 345 a 373 miliardi nel mese di maggio) e delle istituzioni finanziare italiane (da 422 a 445 miliardi), mentre è diminuita l’esposizione di investitori esteri (da 722 a 699 miliardi) e di altri residenti italiani (da 95 a 80 miliardi). È chiaro tuttavia che se la tendenza dovesse proseguire sarebbero i rating di queste ultime a rischio. E poiché molte di esse sono quotate in borsa, non è un caso che le loro quotazioni scendano e, con esse, l’intero listino.

 

Una buona occasione per comperare titoli mediamente sottovalutati a causa della disaffezione verso il listino di Milano, oppure un primo segnale d’attenzione per ciò che può succedere a breve all’Italia se un’altra bufera finanziaria si abbatterà sulla credibilità del nostro fragile bilancio pubblico.

 

Stefano di Tommaso




SE L’INFLAZIONE FRENA

Come sempre gli Stati Uniti stanno anticipando alcune tendenze di fondo (deregulation, diminuzione della pressione fiscale ma anche razionalizzazione della spesa pubblica, investimenti infrastrutturali, allargamento dei buyback azionari e dei piani di stock options, crescita salariale, riequilibrio della bilancia dei pagamenti) che non potranno non estendersi presto a buona parte del resto del mondo, a partire dalle altre due grandi nazioni del Nordamerica (Canada e Messico).

 

DOMANDA BASSA E OFFERTA ABBONDANTE CALMIERANO LA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Quanto avviene negli Stati Uniti ha effetti decisamente positivi sull’incremento dell’offerta di beni e servizi, perché tutto ciò accresce il reddito disponibile per i consumi, soprattutto quelli digitali e in servizi avanzati, mentre sul fronte della domanda di beni e servizi invece si intravede una correzione al ribasso a causa di molti fattori, dall’avanzata del commercio digitale al ritorno dei capitali verso le piazze finanziarie più “sicure”, ai dazi, alle sanzioni nei confronti di Cina e Russia, fino al conseguente e voluto ritorno della centralità del dollaro (usato come arma politica) alla progressiva ri-localizzazione delle produzioni industriali dai paesi (emergenti) a più alto sviluppo demografico verso quelli a crescita negativa.

Il fenomeno più evidente è l’ampiamente previsto rallentamento della produzione industriale cinese e, di conseguenza, il rallentamento della crescita dei prezzi di materie prime e forniture energetiche (gas e petrolio) che probabilmente avrà ripercussioni positive anche nel resto del mondo.

Anche per questi motivi Wall Street resta imperterrita sui valori massimi storici, nonostante sia dato per scontato l’ennesimo aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve.

Le aspettative sono buone per il prossimo futuro anche per l’Europa, sebbene l’Italia debba ancora dimostrare che non creerà problemi di credibilità istituzionale.

 

LE GUERRE DOGANALI MONTANO AD EST E SI PLACANO AD OVEST

Anche le paure legate alle cosiddette “guerre commerciali” che hanno riempito le testate dei giornali di tutto il pianeta sembrano stemperarsi, soprattutto per ciò che riguarda il Nordamerica e l’Europa, le cui dispute tariffarie paiono avviarsi verso soluzioni di accettabile compromesso, come peraltro era stato ampiamente anticipato su queste colonne, e con buona pace dei “soloni” della domenica che prefiguravano scenari apocalittici.

La più modesta realtà che si dispiega invece sembra quella di un presidente americano propenso (anche a scopi elettorali) a percepire il dividendo immediato di un rieqdella bilancia commerciale a americana tramite accordi bilaterali bonari, almeno nei confronti dell’Europa e del resto del Nord America, dal momento che con Russia e Cina è invece in atto un confronto politico ben più profondo; volto al ridimensionamento della loro influenza sui paesi emergenti limitrofi.

Il risultato dello scenario che si può cercare di anticipare per Settembre sui mercati finanziari sembra essere quello di una dinamica di inflazione assai meno preoccupante, cresciuta si ma oggi stabilizzata sostanzialmente attorno ai valori già visti (poco più del 2% in America e qualche centesimo in meno in Europa), se non addirittura in lieve ribasso, anche poiché l’impennata vista nella prima parte del 2018, fortemente influenzata dalla risalita dei prezzi di materie prime e derrate alimentari, sembra aver esaurito il suo vigore.


Anche in Italia l’inflazione è cresciuta insieme alla mini-ripresa economica, ma in misura decisamente inferiore al resto d’Europa, tanto a causa della scarsa dinamica salariale (la disoccupazione resta stabilmente sopra al 10%) quanto per la pressione fiscale, addirittura in lieve aumento.

Uno dei fattori che spingono al raffreddamento delle pressioni inflazionistiche è poi l’elevatissimo livello di indebitamento, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, non soltanto in Cina ma anche in tutto il resto del mondo. Il de-leveraging che ne dovrebbe conseguire potrebbe costituire una polizza di garanzia contro l’avanzata dell’inflazione ancora per molti anni a venire.

 



IL COSTO DEL LAVORO NON SALE

Altro fattore di contenimento della possibile dinamica inflazionistica è il progressivo affievolimento dell’influenza delle battaglie sindacali sulle relazioni industriali, quantomeno quelle sull’incremento dei redditi, visto che la crescente automazione produttiva determina, per quelli di base, addirittura una pressione al ribasso e la crescita dei salari, casomai, riguarda le elevate specializzazioni in servizi, tecnologia e manutenzione degli impianti.

Ma il contenimento del costo del lavoro è anche dettato dalla progressiva rarefazione dei posti di lavoro nell’industria, nel commercio e nell’agricoltura a causa dell’automatizzazione dei processi e della logistica, mentre al contrario in tutto il mondo la forza lavoro si accresce per motivi demografici, per i milioni di immigrati che sono di recente sbarcati in Europa (costituiscono ampliamento dell’offerta di lavoro che accetta salari minimi anche per le attività più faticose) e per la progressiva maggior quota di lavoro femminile. Il risultato è garantito: il costo del lavoro incide sempre meno sul prezzo finale del prodotto o servizio.

LA MODERATA INFLAZIONE BILANCIA LA CONTRAZIONE DELLA LIQUIDITÀ

Per fortuna questi fattori, di per sè non una buona notizia per l’umanità, lo sono nell’indicare che l’inflazione può rimanere sotto controllo, e coincidono con l’esigenza del mondo occidentale e industrializzato di ridurre l’indebitamento complessivo, cosa che restringe il moltiplicatore del credito, proprio quando le banche centrali che cercano faticosamente di fare retromarcia negli stimoli monetari rischiavano di far collassare i mercati finanziari per rarefazione della liquidità complessiva in circolazione.

Il rischio che ad un rialzo dei tassi quasi ineluttabile segua anche una fiammata inflazionistica (azzerando dunque i rendimenti reali del reddito fisso) è percepito (in parte tutt’ora) come un macigno che incombe sul l’elevato livello complessivo raggiunto dalle quotazioni delle borse e dei titoli obbligazionari. Invece la mancata fiammata inflazionistica è una boccata d’ossigeno per le produzioni industriali e i mercati finanziari.

Ma se si osserva l’indice più accreditato per la misura della volatilità delle borse (l’indice VIX detto anche l’indice della paura) negli ultimi mesi esso è ugualmente schizzato verso l’alto e bisogna dunque chiedersi se esistono altri motivi, diversi dalla paura irrazionale di un crollo repentino dei mercati e dell’arrivo di una nuova recessione globale, per i quali abbia senso tale segnale.

L’INDICE DELLA PAURA POTREBBE AVER TOCCATO IL MASSIMO

L’analisi fondamentale fornisce invece buone notizie per le borse e per i tassi d’interesse, almeno per l’autunno in arrivo. Buone notizie anche per la prosecuzione della fortunata stagione riguardante i profitti industriali e in teoria esiste anche la possibilità che si verifichi una qualche riduzione degli stock di magazzino, ciò mentre l’investimento nell’automatizzaziine degli impianti produttivi, degli imballaggi e delle spedizioni difficilmente potrà registrare una battuta d’arresto, a causa dei forti incentivi fiscali (in tutto il mondo) e dei minori costi conseguenti.

IL DEFAULT DELL’ITALIA È IMPROBABILE

Cosa dire invece del timore che i mercati scatenino una caccia alle streghe sul debito dell’Italia? Chi mi ha seguito sino ad oggi deve prendere atto che non ci ho mai creduto davvero, sia perché la disistima che il “mainstream” dell’informazione pubblica nutre verso la nuova coalizione sembra mal riposta, come per il fatto che non esistono le condizioni oggettive perchè l’Europa possa permettersi di fare a meno dell’Italia nel processo di inevitabile convergenza politica dell’Unione. Tra l’altro ciò significherebbe un “casus belli” ulteriore nei confronti degli Stati Uniti d’America e forse il definitivo funerale dell’alleanza atlantica: uno scenario non solo poco realistico ma assolutamente non conveniente per nessuno dei protagonisti.

Dunque l’Italia subirà strattoni e limitazioni, ma alla fine potrebbe farcela tanto a superare la stagione dei rinnovi dei titoli di stato in scadenza quanto quella delle spese straordinarie per l’adeguamento delle proprie infrastrutture, giudicate da tutti oramai improcrastinabili. Come dire che il default italiano non è probabilmente dietro l’angolo.

 

Stefano Di Tommaso




CHI COMPRERÀ TITOLI ITALIANI ?

La storia infinita della fondatezza (o meno) dei timori di insostenibilità del debito pubblico italiano secondo molti commentatori si avvia -con l’arrivo dell’autunno- verso un “momento della verità”. Non si tratta del solito complotto più volte denunciato da questa o quella forza politica bensì del combinato disposto di una serie di eventi che si apprestano ad accadere, dalla fine del Quantitative Easing europeo, alla disaffezione dei capitali verso le piazze finanziarie più marginali, fino al dilemma relativo a come finanziare il deficit nostrano in concomitanza con le promesse elettorali della nuova coalizione politica oggi al governo (che evidentemente non ha facili soluzioni).
 Adesso, dopo i fatti di Genova, ci si è messo anche il tormentone della crisi di affidabilità delle infrastrutture viarie, che richiederà una miriade di interventi in cui bisogna investire capitali, ma non è chiaro da dove arriveranno. La disponibilità di capitali per gli investimenti è funzione diretta dell’appetibilità degli stessi e, se un paese rischia di entrare in una fase di instabilità politica e finanziaria, il mercato si dilegua, come sta succedendo in questi giorni con la fuga dei capitali stranieri dai titoli italiani (tra maggio e giugno gli esteri hanno venduto 58 miliardi di euro di titoli di Stato).
LE RAGIONI DELL’ALLARME
Però bisogna doverosamente notare che, se qualcuno oggi vende i titoli di stato (i volumi di questo Agosto sono decisamente più alti del solito), questo significa per certo due cose:
– la prima è che evidentemente ci sono motivi per allarmarsi (e infatti lo “spread” dei loro rendimenti con i titoli tedeschi è al livello di guardia, poco sotto i 3 punti percentuali),
– la seconda è che evidentemente c’è anche qualcuno che acquista.
CHI COMPRA SONO SOLO LE BANCHE ITALIANE
 Il punto del ragionamento di chi oggi lancia l’allarme sulla possibilità che le cose peggiorino nettamente si basa proprio sulle due suddette considerazioni: i motivi di allarme che determinano il Sell-Off (la fuga) degli stranieri sono più che
oggettivi e poi se coloro che comprano tutto ciò che i primi (s)vendono sono -come sembra- solo le banche italiane (si veda il grafico qui sotto), ecco allora che l’Italia potrebbbe cadere in un “tranello” regolamentare, dal momento che il prestatore di ultima istanza di queste ultime è la Banca Centrale Europea, e non la Banca d’Italia, che ha abdicato alle sue prerogative.

LE BANCHE ITALIANE POTREBBERO ESSERE COSTRETTE A NON COMPRARE PIÙ TITOLI DI STATO ITALIANI

Se infatti il rischio Italia peggiora (a fine Agosto inizia la revisione del Rating Italia da parte di Fitch) e i titoli di stato vengono acquisiti soltanto dalle banche del medesimo Paese, ecco che il loro rating peggiora corrispondentemente, dal momento che sono più esposte al rischio di default del nostro Paese. Dunque, passato un certo limite, la banca centrale europea potrebbe decidere di non voler più rifinanziare le medesime, oppure le normative sulla convergenza bancaria potrebbero mettere uno stop all’acquisto dei titoli di stato oltre una certa quota del capitale “di vigilanza” di quelle banche.

E se ciò accadesse scomparirebbe chiaramente l’ultima specie vivente oggi disponibile ad acquisire, a prescindere da prezzi e rendimenti (siamo tornati sugli scudi), i titoli di stato che devono essere emessi in sostituzione di quelli in scadenza, oltre a quelli nuovi che vengono emessi per finanziare il deficit. La partita dunque diverrebbe molto aspra, e non bisogna faticare granché per prefigurare uno scenario visto già a lungo nell’incubo vissuto dalla vicina Grecia, dove persino gli sportelli bancari avevano smesso di funzionare data la corsa dei residenti a ritirare i depositi in contanti per poterli trasferire altrove.
ALLA RICERCA DI ALLEANZE
Resta perciò aperta la questione iniziale: chi comprerà i titoli italiani? I neo-ministri stanno agitandosi molto (e a ragione) al riguardo, tanto nel dialogo con la banca centrale (Savona è andato a trovare Draghi) e con le altre istituzioni europee (cui chiedono di prolungare il periodo di Q.E. e/o di mostrare se ci tengono alla permanenza dell’Italia nell’euro-zona) quanto con le possibili alternative: le potenze economiche del Pacifico (prima Conte in America e adesso Tria in Cina), cui stanno proponendo vantaggiosi accordi di collaborazione commerciale.
La logica non fa una piega: se i “partners” europei non ci ascoltano facendoci correre il rischio di insolvenza dei conti pubblici, allora magari possiamo aprire le nostre frontiere ad altri partners più generosi, chiudendole ai primi. À la guerre comme á la guerre, insomma!
D’altronde, comunque si giri la frittata, la partita d’autuno per il governo Savini-DiMaio è ardua, e il “ricatto dello spread” che si è già visto avere la capacità di riuscire a terminare il secondo governo Berlusconi, è un rischio che gli attuali leaders non vogliono correre senza provarle tutte, ivi compresa la carta delle alternative all’Unione Europea, se non collabora.
E qui la partita si fa delicata, perché se è vero che sulla parola di un Presidente americano perennemente sotto assedio non c’è da contare troppo, ecco che tornano d’interesse le alternative come la Cina (dove Tria, il ministro dell’economia pentastellato si è recato per un’intera settimana) dato anche il fatto che il fondo di investimento sovrano “Silk Road” possiede il 5% di Autostrade e potrebbe avere un deciso interesse strategico a soppiantare Atlantia e che tanto la Cina quanto la Russia potrebbero trovare interessante investire nelle infrastrutture viarie del nostro Paese (la partita sui titoli di stato si intreccia fortemente con quella della necessità di investimento nelle infrastrutture nazionali).

 
IL RISCHIO DI “CONTAGIO”
Insomma il “circolo vizioso” (doom loop) che rischia di ripetersi è quello già visto nel 2008/2009, quando la crisi di fiducia sulle banche (e tra le banche) aveva a sua volta alimentato le vendite sui titoli di stato fino a creare la voragine globale che ricordiamo.
Ora poiché nel medesimo autunno caldo che si appresta a vivere l’Italia c’è anche il rischio di un “sell-off” sulle borse europee ed americane (sia per i massimi toccati da Wall Street che per il rischio di contagio di quelle europee in caso di allarme sui titoli italiani), ecco che il debito italiano potrebbe avere tutte le caratteristiche per diventare il detonatore di una nuova crisi finanziaria globale e che anche su questo tavolo i ministri penta-leghisti cercheranno di vendere cara la pelle prima di ritrovarsi costretti al commissariamento europeo !
Stefano di Tommaso




VERSO UN “PIANO MARSHALL” ITALIANO

Il Governo Italiano ha fatto chiaramente capire alla comunità internazionale che non intende rimanere indifferente alla tragedia del Ponte Morandi di Genova, che rischia di trasformarsi in una immagine pubblica fortemente negativa per il Bel Paese (dove le infrastrutture collassano perché non sono sufficientemente controllate e dove quindi anche il turismo e il business sono potenzialmente a rischio) e si appresta a dialogare con la Commissione Europea per lanciare un suo piano Marshall per la ricostruzione e la manutenzione delle principali opere pubbliche.
L’iniziativa -un vero e proprio anticipo sulla Manovra Economica d’Autunno- riguarderebbe una miriade di infrastrutture, la parziale ri-nazionalizzazione delle Autostrade per l’Italia (API, il veicolo attraverso il quale Atlantia controlla il 50% delle concessioni autostrada) nonché la ricostruzione di migliaia di scuole, il riassetto di circa 10.000 strade e di parte dei circa 60.000 ponti presenti nel territorio, viene valutata secondo le prime stime non ufficiali in almeno 80 miliardi di euro, anche a causa del pesante ritardo con il quale sono proceduti sino ad oggi gli interventi manutentivi ordinari.
PERCHÉ UN “PIANO MARSHALL”
L’Italia infatti soffre più di altri paesi del ritardo di numerosi investimenti che altrove sono stati spesso finanziati con risorse private ma quasi mai a casa nostra. Gran gran parte delle infrastrutture viarie italiane ha superato infatti i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile associabile alle opere in calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra (anni ’50 e ’60).
Il problema è di grandi dimensioni e di forte impatto mediatico: il costo di un ponte è stato fino ad oggi all’incirca pari a 2.000 euro/mq. dunque le cifre necessarie per evitare altre tragedie come quella accaduta e provvedere all’ammodernamento dei soli ponti italiani più a rischio ammonterebbero a decine di miliardi di euro. Per questo motivo si descrive l’operazione come il “piano Marshall” delle infrastrutture stradali italiane, basato sulla sostituzione di gran parte di esse con nuove opere caratterizzate da una vita utile decisamente superiore ai 50 anni (in buona parte scaduti) del passato.

Si veda in proposito il grafico qui sopra riportato, che mostra investimenti in infrastrutture viarie che si sono mantenuti relativamente stabili in Germania e Francia, sono tornati a crescere in Gran Bretagna, mentre sono bruscamente crollati in Italia con l’arrivo della crisi economica (dai quasi 14 miliardi del 2007 fino a 3,4 miliardi del 2010 e da allora non si sono quasi più ripresi. Nel 2015 ammontavano a 5 miliardi di euro contro gli 11,7 della Germania, i 10 della Francia e i 9 della Gran Bretagna (che ha molti meno chilometri di strade dell’Italia):
Per non parlare dell’andamento generale degli investimenti pubblici in Italia e in Europa (grafico a destra):
UNO STIMOLO AL PRODOTTO INTERNO LORDO
L’iniziativa riguardante gli investimenti infrastrutturali avrebbe anche un secondo interessante risvolto, che è quello di avere tutte le caratteristiche per fungere da importante stimolo al prodotto interno lordo italiano (potrebbe arrivare ad ammontare a un intero punto percentuale in più di P.I.L.) nell’anno in corso e nel prossimo, rilanciando così tanto l’occupazione (che resta stabilmal di sopra del 10%) e gli investimenti produttivi delle imprese che ne saranno coinvolte.

Ultima ma non trascurabile caratteristica di questa iniziativa sarebbe la possibilità di considerare il finanziamento (in deficit rispetto al budget statale) di tali spese pubbliche in maniera differente rispetto alla spesa corrente e, come tale, sembra che possa contare su una prima approvazione informale della Commissione Europea, proprio perché basato su investimenti e dunque potrebbe essere interpretato come cosa diversa dal precedente programma (essenzialmente composto di linea dura con l’Unione Europea e maggiori voci di spesa corrente) con il quale il governo penta-leghista era stato varato.
D’altra parte il reddito di cittadinanza e la “Flat Tax” (la tassa sul reddito fino a 100mila euro ad aliquota unica 15%) di fronte all’immane sciagura di Genova oggi possono anche attendere uno o due semestri (si è stimato che possano costare fino a 6 punti percentuali di P.I.L.) mentre se nel frattempo si potesse registrare una maggior crescita dell’economia -nell’ordine, diciamo, del 2% (in linea con la media europea)- questo potrebbe aiutare non poco ad attuare, in un prossimo futuro, anche le iniziative elettoralmente più rilevanti per la base che ha votato l’attuale maggioranza politica.
ITALIA SORVEGLIATO SPECIALE
L’Italia in questi giorni post-ferragostani è chiaramente il “sorvegliato speciale” delle agenzie di rating di tutto il mondo, ma è anche un enorme macigno che può avere la massa critica per far cadere a pezzi la costruzione europea qualora le sue finanze pubbliche si avvitassero in una sequela di aspettative negative e maggiori tassi di interesse, che significherebbero maggior costo del debito pubblico, il quale a sua volta ridurrebbe automaticamente la sostenibilità del medesimo. Un‘iniziativa volta a contrastare i timori e la sfiducia dei mercati potrebbe giovare molto, così come anche la tempestività della manovra potrebbe aiutare moltissimo alla credibilità del Paese.
L’attesa degli analisti infatti per i nostri conti pubblici è “border-line”, atteso che la crescita economica nel 2018 è vista in calo rispetto a quanto registrato con il governo Gentiloni e che nessuno si aspetta inasprimenti fiscali o innalzamenti delle aliquote IVA (come previsto nel “giugulare” patto di stabilità sottoscritto in precedenza con la Commissione Europea) per contrastare il deficit derivante dalla deriva della spesa pubblica, che ogni anno si incrementa significativamente più del prodotto interno lordo.
UNA “MANOVRA D’AUTUNNO” ANTICIPATA GIOVEREBBE ALLA CREDIBILITÀ INTERNAZIONALE DEL NUOVO GOVERNO
Dunque è piuttosto probabile che con quelle premesse si arrivi a sfondare il tetto del 3% (in rapporto al P.I.L.) del deficit di bilancio e, senza qualche altra notizia di segno positivo, sarebbe difficile convincere la comunità finanziaria internazionale della costanza di sostenibilità del debito pubblico. Sino ad oggi il Ministro Tria si è prodigato in generiche dichiarazioni ma poi non ha detto nulla di più concreto, mentre la delibera anticipata a fine Agosto o ai primi di Settembre di una Manovra Finanziaria d’Autunno (che rischia per altri versi di risultare decisamente “caldo” per il Governo) che risulti compatibile con le esigenze di stabilità sarebbe un atto collegiale dell’intero Esecutivo e potrebbe aiutare moltissimo a ristabilire la fiducia internazionale (e con essa la riduzione del famigerato “spread” con i titoli di stato tedeschi).
Stefano di Tommaso