INFRASTRUTTURE E GIUSTIZIALISMO

Il drammatico caso del ponte Morandi getta una luce sinistra su moltissime opere infrastrutturali realizzate in cemento armato, un materiale dalle grandi proprietà ma con un difetto intrinseco: si deteriora molto in fretta rispetto alle sue alternative (principalmente il metallo). L’esigenza di rimpiazzarle o metterle in sicurezza è molto forte, ma per farlo non si può pensare di arrivare stravolgere lo stato di diritto e di calpestare le regole del mercato dei capitali. Sarebbe un metodo miope che non ci aiuterebbe a raggiungere lo scopo finale.
(PARZIALE) APOLOGIA DEL PONTE MORANDI

Il ponte Morandi era stato proprio progettato male, privo com’era della possibilità che -a fronte di un qualche cedimento strutturale- altre parti del ponte impedissero che venisse giù l’intero manufatto. Ma nel giudicarlo non si può non tenere conto di due fattori fondamentali:

  • all’epoca in cui grandi opere come il “Brooklyn di Genova” (com’era chiamato il ponte in città) furono realizzate c’era anche l’esigenza di ammodernare presto un Paese che viveva ancora di un’economia quasi-rurale e le infrastrutture necessarie erano così numerose che in quegli anni non si poteva andare troppo per il sottile (quanto a sicurezza nei decenni successivi);
  • ma anche i carichi pesanti a cui tali infrastrutture erano sottoponibili erano molto minori da quelli che si sono poi verificati negli ultimi decenni: oggi dove prima transitavano al massimo pulmini e furgoni passano dei mezzi di trasporto infinitamente più pesanti, e soprattutto in numerosità così elevata che si può tranquillamente affermare che un carico complessivo del genere fosse letteralmente impensabile all’epoca della loro realizzazione (cinquanta-sessant’anni fa).


CHI SPENDERA’ I QUATTRINI NECESSARI ?
Insomma la morale è lapalissiana: se da un lato il mondo si evolve e il traffico su strada aumenta ancor più di quanto si potesse sperare in precedenza, sono veramente tante le opere pubbliche del passato da controllare oggi molto meglio, sia in Italia che altrove nel mondo. Ma ovviamente per farlo servono tantissimi denari, che fino a poco tempo fa erano sborsati dalle pubbliche amministrazioni, mentre oggi sono oberate di debiti e scarsamente capaci di proseguire in tale direzione. Dall’altra parte c’è il mercato dei capitali, con le sue regole ma anche con immense disponibilità di cassa.
Si dirà che per fare tutto ciò che sarebbe giusto (mettere in sicurezza, modernizzare, monitorare e ricostruire) ci vogliono tanti, forse troppi quattrini, ma non dimentichiamoci dell’importantissimo flusso di ricavi che le medesime infrastrutture generano già oggi (i pedaggi) e che a maggior ragione essi possono generare in futuro in funzione dei maggiori carichi sopportati! Se non ci fossero stati in precedenza “ trattamenti di favore” nei confronti di una società concessionaria che pretendeva di rimborsare con quegli incassi una grossa mole di debiti contratti per ottenere la concessione stessa (invece che per pagarci nuovi investimenti) se ne potevano prendere moltissime di iniziative, tanto a scopo di sicurezza quanto per migliorare la rete infrastrutturale nazionale!

DA NOI NESSUNO È FESSO…
Ma ci sarebbe voluto un occhio attento e intransigente a dettare legge in tal senso. Mentre abbiamo avuto politici orientati letteralmente all’opposto, ovviamente in cambio di inconfessabili favori e donazioni. Il ponte Morandi non è venuto giù per un terremoto o per un fulmine: è collassato per un evidente difetto strutturale sul quale nessuno ha lanciato l’allarme. Ora nessun Italiano adulto pensa seriamente che i nostri politici siano dei fessacchiotti!

Certo, i drammatici eventi di questi giorni gettano una luce sinistra anche sull’ingegneria che stava alla base del ponte Morandi: un difetto di progettazione già ampiamente esplorato negli scorsi anni che aveva innescato un importante dibattito accademico sulla necessità di intervenire per rimpiazzarlo. Ma a ciò non era seguìta alcuna risposta, nè regolamentare (ad esempio: chiudiamo il ponte o impediamo che ci passino sopra i mezzi pesanti), ne gestionale (ad esempio: avviamo la realizzazione di un nuovo ponte e nel frattempo monitoriamolo meglio).

Per quale motivo ciò potesse accadere sembra oramai una questione assodata: c’era molta “bonarietà” della precedente classe politica (e forse persino della Magistratura) verso il soggetto economico che aveva ottenuto la concessione delle Autostrade per l’Italia, sino al limite di far chiudere a tutti entrambi gli occhi davanti alle evidenze negative ! Non andiamo oltre sulle illazioni riguardanti i possibili motivi che sospingevano tali comportamenti, ma forse è anche per questo che l’attuale coalizione al governo -totalmente alternativa a quella precedente- intende andare con mano pesante alla ricerca delle responsabilità! Non bastano però i funerali di Stato e la pubblica gogna degli amministratori di Atlantia a sanare il problema generale che emerge dalla constatazione dei fatti di Genova : adesso serve fare (presto) qualcosa!
IL RISCHIO CHE IL RIMEDIO SIA PEGGIORE DEL DANNO
Trovare infatti una via di risoluzione dell’attuale situazione giuridico-contrattuale tra lo Stato e Atlantia per passare la gestione delle Autostrade a qualcun altro è affare molto complesso. Persino qualora la magistratura dovesse arrivare a evidenziare in capo a pochi indiscutibili soggetti delle pesantissime responsabilità (cosa quasi impossibile in tempi brevi), non sarebbe comunque facile dare una spallata agli equilibri economico-finanziari che stanno dietro ad una società quotata in borsa dotata di un largo flottante econ quasi tre quarti dell’azionariato di matrice straniera. Difficile pensare insomma di cancellare con un tratto di penna i diritti acquisiti e consolidati da Atlantia (e dagli altri concessionari) sui quali sono state costruite importanti operazioni finanziarie di carattere internazionale. Come si direbbe in Veneto: si rischia che ”xe pèso el tacòn del buso” (il rimedio sia peggiore del danno)!

Ed è qui che l’attuale Governo rischia di scivolare (pur mosso da nobili principi di giustizia e volontà positiva) : nell’agire in maniera incauta davanti a un gigantesco coagulo di interessi e questioni di diritto. Non solo, ma il medesimo trattamento ne verrà riservato a quella società concessionaria che oggi è alla pubblica gogna per i morti di cui è per molti versi direttamente responsabile, un domani dovrà essere usato per tutti gli altri soggetti che gestiscono le altre (numerosissime) infrastrutture che necessitano di ammodernamento nel nostro Paese! Le quali dovrebbero trovare nelle casse pubbliche le risorse per rispondere alle necessità di investimento oppure dovranno essere privatizzate anch’esse, con il rischio che gli eventi si ripetano con riguardo al trattamento che verrà loro riservato.
IL COMPROMESSO, INNANZITUTTO
Ma l’Italia da questo punto di vista è un Paese fortemente bisognoso di interventi infrastrutturali: con una conformazione geografica lunga e stretta e poi anche chiuso com’è tra montagne, valli e costiere scoscese. Senza adeguate infrastrutture il “bel Paese” rischia di pagare molto caro lo scotto della sua bellissima conformazione geografica e di trovarsi un divario con il resto d’Europa anche nei costi di trasporto. Ed è altrettanto ovvio che senza una rinnovata sensibilità nazionale per trovare un equilibrio intelligente tra giustizialismo e stato di diritto, il mercato dei capitali non investirà a casa nostra i molti altri miliardi necessari per rinnovare ed ampliare le nostre infrastrutture, lasciando di conseguenza sempre più a rischio anche la revisione di quelle esistenti. La fine dell’era della corruzione di Stato non passa per la politica del giustizialismo, bensì per la ricerca di soluzioni intelligenti alle scelleratezze dei suoi predecessori.
Stefano di Tommaso




QUANTO VALE ATLANTIA?

Che la concessione delle Autostrade ai pochi gestori privati che se le sono aggiudicate più o meno in assenza di un Processo di gara pubblica sia sempre stato un affare quantomeno „misterioso“ è fatto noto. Più volte i giornali hanno gridato allo scandalo (o hanno finto di farlo) a proposito dei noti rincari delle tariffe autostradali, cresciute nell’ultimo decennio di una percentuale variabile dal 20% sino al 200%, ben al di sopra dunque tanto dell’inflazione quanto della crescita (più o meno negativa) del P.I.L. del Paese. Ma fino a ieri la nazione si era sopita nell’abitudine di tali angherie sino a non farci più caso. I quaranta morti di Genova e il nuovo clima politico invece ne hanno risvegliato la coscienza collettiva e nel mirino della speculazione è finito il maggior gruppo concessionario d’Italia in fatto di autostrade.
CHI È ATLANTIA
Atlantia è una società quotata alla Borsa di Milano che controlla un importante pacchetto di concessioni, per buona parte stradali (non solo in Italia ma anche in Brasile, Cile, India e Polonia), ma anche aeroportuali (i tre aeroporti di Roma, e i tre della Costa Azzurra francese) oltre che diversificate nei servizi di ingegneria, informatica e sistemi di pagamento e infine nelle costruzioni e pavimentazioni stradali.
Nell’immagine qui accanto riportata si indica che i Benetton controllano la società con il solo 30% dell’88% (cioè con il 26,4%) e che la società fa utili netti dopo le tasse di 1,4 miliardi di euro (superiori agli investimenti di 1 miliardo) su ricavi di 6 miliardi (cioè circa il 23,3% del fatturato) con un margine operativo del 62% circa (del fatturato). Interessante notare che la società appartiene a privati italiani soltanto per il 19,9% del flottante che è pari solo al 45,5% del capitale azionario: dunque soltanto il 9% del capitale di Atlantia è in mano a privati Italiani, se si escludono i Benetton e la fondazione CRT. Ma anche contandoli, il totale in mano nazionale non supera il 25% del capitale e stava per divenire la metà se fosse andata in porto la fusione con ACS (autostrade spagnole) controllato dal gruppo di società di costruzione Abertis, operazione al momento in stand-by.
Ma ancora più interessante è il grafico che segue, da cui si evince che le nostre autostrade sono di gran lunga le più care d’Europa, una parte della quale le mette gratuitamente a disposizione di chiunque:

Il gruppo era già noto per la sua “vicinanza” alla politica ma quello che non era noto ai più era il fatto che i famigerati investimenti infrastrutturali che sarebbero stati a fronte degli astrusi calcoli che stavano alla base dei rincari esagerati in realtà non venivano effettuati!

Dalla polemica che infuria dopo i fatti di Genova questo è il dato che emerge più evidente e certifica la poca dirittura morale degli organismi che avrebbero dovuto controllarne l’attuazione (e delle forze politiche che vi stavano dietro), come pure di quelli di gestione della società.
Se questo fatto verrà accertato dalla Magistratura allora non sarà stata del tutto fuori luogo la “boutade” del Governo che intende revocare la concessione delle Autostrade per l’Italia (in sigla ASPI) ad Atlantia innanzitutto, la maggiore concessionaria delle Autostrade italiane con circa 3000 chilometri gestiti su quasi 6000 affidati a soggetti diversi dall’ANAS.. Ovviamente di fronte anche solo a tale rischio ipotetico tutti hanno iniziato a chiedersi quanto vale questa società (e di conseguenza quanto dovrebbe quotare il titolo in Borsa) ?
La polemica è ancor più infuocata se si tiene conto del fatto che la rete autostradale nazionale è al collasso in molti giorni dell’anno anche a causa dei ritardi nell’ampliamento delle carreggiate!
LA POSSIBILITÀ DELLA REVOCA DELLA CONCESSIONE
In teoria il Governo può avviare (come sembra aver fatto) la procedura per la revoca secondo l’articolo 9 della concessione in caso di “grave inadempienza” (tra gli obblighi assunti da Autostrade c’è infatti il “mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse”) con una contestazione formale, dopo la quale al concessionario è concesso un primo “congruo termine” non inferiore a 90 giorni, e un “ulteriore termine non inferiore a 60 giorni per adempiere a quanto intimato ”.
In pratica dunque Atlantia avrebbe però davanti a sè almeno 5 mesi per rimettersi in regola, per poi agire in sede giudiziaria e bloccare tale possibilità. Questo spiega anche perché la stessa si è detta pronta a ricostruire il viadotto in cinque mesi (e non sei o quattro).
Ma l’articolo 9 bis della concessione prevede che “Il Concessionario avrà diritto (…) ad un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione anche per inadempimento del Concedente”. In sostanza, lo Stato sarebbe comunque costretto a risarcire i mancati utili anche in caso di inadempienza accertata (circa € 1 miliardo di utili netti moltiplicato per i vent’anni di durata residua). Niente male per una società che capitalizza in borsa 16 miliardi ! Ovviamente si tratta di una stima della parte di utili che riguardano le concessioni autostradali italiane è sempre nel caso che la revoca le riguardi tutte.
E poi però cosa succederebbe? Assisteremmo al ritorno delle nazionalizzazioni o all’ attribuzione all’ANAS (che oggi gestisce tra l’altro 1000 chilometri di autostrada) degli altri 5870 chilometri appaltati ai privati (di cui 3000 ad Atlantia e 1200 a Gavio)? Oppure si riuscirebbe a cogliere l’occasione della revisione del pasticcio per rilanciare gli investimenti infrastrutturali di-appaltando le autostrade a coloro che sono più disposti a investire in sicurezza e ampliamenti?
Il Governo dovrebbe brigare parecchio per offrire una sponda valida agli oltranzisti della coalizione che vorrebbero agire d’imperio nei confronti della società concessionaria. Più probabile è che venga erogata la mult più alta possibile (€150 milioni) e che il ponte venga rimpiazzato dalla medesima con una spesa di circa 1 miliardi di euro (circa 1,4 euro per azione) oltre a maggiori costi della manutenzione che potrebbero costare meno di altri 3 miliardi per un totale di circa 4-5 euro per azione. Molto meno del calo di 10 euro per azione registrato in questi giorni. Non potendo spingerci oltre nelle ipotesi, cerchiamo allora di capire meglio come il mercato vàluta questa società.
LA VALUTAZIONE DI BORSA DI ATLANTIA
Atlantia al prezzo di 19 euro capitalizza all’incirca 16 miliardi, cioè 13 volte gli utili (P/E ratio), quasi 3 volte il fatturato e 1,8 volte il valore contabile del suo patrimonio netto, dopo copiosi debiti per 28 miliardi di euro residui al 30/6 scorso è un totale dell’attivo di circa €40 miliardi.

Dunque con 3,7 miliardi di euro di EBITDA l’azienda deve sostenere un debito pari a 7,5 volte tale margine: non poco persino per un’azienda così redditizia, soprattutto se dovessero traballare le prospettive di ancora vent’anni di alto reddito e limitati investimenti (720 milioni l’anno scorso).

Se infatti la società dovesse mettere in cantiere investimenti aggiuntivi di circa 2 miliardi di euro il suo cash flow (flusso di cassa netto) diverrebbe pesantemente negativo e la società necessiterebbe di un importante incremento nei mezzi propri, più o meno di pari valore, annacquando l’attuale capitalizzazione di circa il 13%, cioè pari a quei 4-5 euro per azione di cui si scriveva più sopra.
Questo non significa tuttavia che il titolo scenderà ancora, ne che si apprezzerà per tornare alla differenza tra I 28 euro toccati in precedenza (o i 26 prima del crollo) e i 4-5 di riduzione dovuti al crollo del ponte Morandi (dunque da 21 a 23 euro per azione, ben più di quanto quota oggi il titolo), perché a completare il giudizio di valutazione intervengono molti altri fattori, a partire dalle ulteriori prospettive fino al calcolo della redditività prospettica dovuta alla pipeline di ulteriori concessioni, con in più l’incognita della possibile cancellazione “d’ufficio” (e senza rimborso) della concessione API.
Ma se anche lo Stato Italiano dovesse rimborsarle 20 miliardi questa non sarebbe necessariamente una buona notizia per Atlantia, che con quell’importo non completerebbe il rimborso dei 28 miliardi di debito. Persino questa possibilità comporterebbe la necessità di un inevitabile aumento di capitale per sostenere le altre iniziative in corso e ne deturperebbe la valutazione.
COSA PUÒ SUCCEDERE AL TITOLO IN BORSA
Inoltre la volatilità del prezzo del titolo, che sino ad oggi era stata limitata, c’è da attendersi che essa possa crescere significativamente nel prossimo futuro, a meno di una tempestiva fusione della società con qualche altro grande operatore viario internazionale, magari meglio capitalizzato (come la stessa ACS spagnola sopra citata). E senza tale prospettiva questo significherebbe inevitabilmente che la sua valutazione scenderebbe ancora un po’, a parità di tutto il resto.
Difficile perciò tracciare una previsione netta circa la valutazione del titolo, soprattutto dopo i violenti alti e bassi degli ultimi giorni e l’importante ridimensionamento già attuato dal mercato. Quello che si può dire con una certa tranquillità è che la società e anche i suoi azionisti potrebbero trovare dunque un forte giovamento nell’ipotesi suddetta di aggregazione con qualche altro grande operatore internazionale che fornirebbe serenità e sostegno al mercato finanziario. Senza la quale è invece possibile (se non probabile) che il suo Rating venga rivisto al ribasso, spingendo inevitabilmente i grandi investitori oggi presenti nella compagine azionaria di Atlantia a dover abbandonare il titolo.
In assenza di grandi e pesanti iniziative da parte del management (che però è tutto indagato per le probabili omissioni di controlli e misure precauzionali) la spirale discendente della valutazione di Atlantia potrebbe dunque proseguire a causa tanto dela possibile discesa del rating del suo debito (soprattutto in caso di completa revoca delle concessioni italiane) quanto del possibile abbandono di parte della compagine sociale per motivi “statutari”.
(nell’immagine qui sotto un dettaglio della struttura del ponte assai deteriorata dagli agenti atmosferici)

Ma diradate le nebbie dell’incertezza giuridica e gestionale (i suoi amministratori saranno sostituiti?) e gli ulteriori ribassi che ne potranno derivare, i parametri fondamentali del titolo che poi emergerebbero sarebbero probabilmente migliori di oggi, alimentando qualche ricopertura.

Per tutti questi motivi la volatilità attesa nel prossimo futuro di Atlantia è quindi ben più elevata di quella storica, ma per i fegati più forti anche l’opportunità di acquisire a buon mercato un titolo di ampio foottante e con degli ottimi fondamentali può restare valida, soprattutto se si guarda al lungo periodo, fattore essenziale per valutare correttamente la società e che lascia qualche speranza per il futuro.
Stefano di Tommaso




BORSE: IL “VOLO VERSO LA QUALITÀ“ E IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

L’America di Trump non smette di stupire tutti: nonostante gli aumenti dei tassi di interesse della Federal Reserve vadano avanti da un anno e mezzo (più o meno da quando è stato eletto Trump) la sua borsa continua a galoppare, la sua economia si trova tecnicamente ancora in fase espansiva dopo ben nove anni da una delle crisi più terribili della storia recente, le sue aziende continuano a crescere (il fatturato delle quotate nella prima metà del 2018 è cresciuto su base annua mediamente del 10% ) e a fare grassi profitti (cresciuti nella prima metà del 2018 di circa il 24,5% su base annua). Qui sopra è riportato un confronto dell’indice principale di Wall Street con quello delle borse europee e quello dei paesi emergenti: il contrasto, a partire dallo scorso Giugno in poi, non poteva essere più evidente!

 

Gli analisti finanziari hanno denominato questo fenomeno “volo verso la qualità”, spiegando così la razionalità della propensione di chi investe a spostare i capitali dove gli affari vanno meglio e le disgrazie di chi ne resta a bocca asciutta.

I CAPITALI FUGGONO E LA BORSA ITALIANA TREMA

Sull’altra faccia della medaglia c’è infatti l’andamento della borsa italiana, le cui oscillazioni nel medesimo periodo sono state più ampie anche della media europea e la cui discesa persino più accentuata, come si vede dal grafico qui riportato:

 

L’Italia sconta il timore che la nuova coalizione governativa possa accelerare la deriva centrifuga dell’Unione Europea ma soprattutto paga lo scotto di un debito nazionale che non accenna a smettere di crescere, mentre l’ombrellone europeo che ne ha puntellato fino ad oggi la sostenibilità (e non ci viene fornito gratis) è stato annunciato che presto verrà chiuso, sospingendo dunque capitali e imprese italiane a varcare i confini per trovare minor tassazione, meno rischi-paese e migliori infrastrutture.

IL CASO DELLA TURCHIA

C’è poi il caso-Turchia, con il solito copione della svalutazione-inflazione-recessione che sta andando in onda in questi giorni a causa del fatto che il suo leader-tiranno Erdogan, ha fortemente deluso gli investitori stranieri e non ha voluto in alcun modo piegarsi di fronte alla richiesta americana di riequilibrare le proprie esportazioni (di acciaio innanzitutto, di cui l’America era il primo cliente) con altrettante importazioni. Colpita e affondata dalle sanzioni americane e dalla sfiducia degli operatori economici (anche interni), la Turchia deve confrontarsi con una fuga di capitali senza precedenti come si vede dall’evoluzione del tasso di cambio nei mesi estivi.

 

MA LA LIQUIDITÀ FUGGE DALLE PERIFERIE ANCHE PER ALTRI MOTIVI

Il punto però è che il medesimo andamento lo troviamo un po’ dappertutto tra i Paesi Emergenti: da Giugno in poi anche le borse asiatiche puntano al ribasso e il motivo è sempre lo stesso : l’America si sta riprendendo le risorse finanziarie che prima aveva disseminato in giro per il mondo esprimendo dati “fondamentali” economici migliori. La più attenta selezione (da parte di chi alloca le risorse finanziarie) alla qualità degli investimenti, degli ambienti macroeconomici e delle prospettive di sviluppo premia dunque le economie più virtuose.

Questo significa che invece in molti paesi del mondo la liquidità si riduce e ciò amplifica la crisi dei mercati finanziari di nazioni come la Turchia ma anche dell’Italia e di altri paesi mediterranei, per non parlare degli altri paesi emergenti, a partire da quello che è ancora classificato come tale ma di fatto è divenuta la seconda potenza economica globale: la Cina.

Il problema della Cina non è troppo diverso da quello della Turchia: dall’inizio di Giugno i dazi americani stanno danneggiando l’industria e le esportazioni cinesi ma soprattutto stanno danneggiando le prospettive dell’economia cinese, così i capitali fuggono da quel paese e la sua moneta si svaluta, riducendo il potere di acquisto (di beni importati) della popolazione:

 

DAZI E SANZIONI PER ORA HANNO FUNZIONATO (PER L’AMERICA)

Non c’è dubbio quindi che le politiche di Donald Trump per riportare capitali e investimenti in America stiano funzionando alla grande, checchè ne scrivano gli oppositori.

E poi dazi e sanzioni significano forti incassi per le casse federali americane, con i quali si può addirittura arrivare a finanziare gli sgravi fiscali!

Ovviamente alla lunga il sistema rischia di incepparsi, poiché buona parte dei lauti profitti delle aziende americane sono stati sino ad oggi realizzati all’estero, dove i consumi potrebbero cominciare a contrarsi seriamente a causa della forza del Dollaro.

Ma per il momento non è così: i consumi interni agli USA crescono e gli investimenti in tecnologia creano posti di lavoro e tengono alte le aspettative, che sono fondamentali perché le aziende distribuiscano a valle denaro e l’economia cresca. Non è un caso se la crescita del prodotto interno lordo americano è più alta del solito. D’ora in avanti la partita si sposta invece sulla capacità dell’America nel risultare convincente a riequilibrare le bilance commerciali con il resto del mondo e, riuscendovi, azzerare le tariffe doganali. Il grafico qui sotto illustra l’aggravamemto del deficit commerciale con la Cina (e dunque il motivo dell’innalzamento dei dazi):

 

È IL MOMENTO DEI TITOLI “TECNOLOGICI”

E poi se c’è un comparto industriale che -non solo a Wall Street, ma sicuramente lì innanzitutto- sta andando alla grande il borsa è proprio quello delle aziende “tecnologiche”, sia perché in molti casi ha mantenuto le promesse di redditività agli investitori, che per per il fatto che i loro fatturati andranno progressivamente a soppiantare quelli delle altre imprese, destinate inevitabilmente anche a svalutare nel tempo i loro valori di capitalizzazione di borsa.

D’altra parte gli investitori globali si stanno posizionando tutti su un atteggiamento più cauto per il futuro, aumentando la quota di liquidità detenuta, il reddito fisso e i beni-rifugio, sottraendo dunque risorse agli investimenti azionari che infatti stanno in molti casi arretrando.

LA LIQUIDITÀ DEI MERCATI GIOCA UN RUOLO IMPORTANTE

Qualche eccezione (per ora) è data dall’immissione ancora di nuovi mezzi freschi da parte di alcune banche centrali (tra le principali quella europea, quella cinese e a tratti quella del Giappone) e, soprattutto, l’eccezione è data dai forti programmi di buy-back (riacquisto di azioni proprie) delle grandi Corporation americane che dispongono di fortissima liquidità e la distribuiscono in questo modo indirettamente ai loro azionisti. Il fenomeno vale molti miliardi di dollari ed è una delle principali ragioni per le quali Wall Street “tiene” più di altre piazze, come si vede dal grafico riportato:

 

La morale dello scenario appena tratteggiato però è molto chiara: l’America corre perché taglia la tassazione e incoraggia gli investimenti. Le borse che avanzano sono quelle che hanno in listino le aziende più redditizie, mentre quelle che arrancano di più sono le piazze che esprimono le maggiori incertezze riguardo al futuro.

 

 

IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

È in questa prospettiva che si deve leggere l’incremento dello spread italiano, nonché la presa di beneficio dei maggiori investitori stranieri: se il nuovo governo riuscirà anche a favorire la ripresa economica e gli investimenti produttivi allora le migliori prospettive torneranno ad attrarre capitali e questi faranno ri-crescere il listino nostrano, caratterizzato tra l’altro dall’esibire oltre un centinaio di belle ma piccolissime imprese quotate all’Alternative Investment Market (AIM) e in attesa di passare al listino principale una volta raggiunte le dimensioni per farlo. Se lo facessero tutte, allora il numero delle imprese quotate al listino principale di Milano crescerebbe notevolmente, e così la sua liquidità complessiva.

Se viceversa il governo non riuscirà a fare nulla di tangibile allora l’attenzione del mercato dei capitali si sposterà ancora una volta sulla sostenibilità del debito pubblico e lo spread con i tassi tedeschi volerà inevitabilmente alle stelle, aprendo la strada a un copione già osservato prima in Grecia e poi in Turchia. Entrambe guarda caso bagnate dal Mediterraneo e devastate da fenomeni di immigrazione di massa, come del resto il nostro Paese!

Stefano di Tommaso




PROVA A PRENDERMI!

Era il titolo di un famoso film con Leonardo DiCaprio nei panni di un giovane trasformista e truffatore che per sostenere una splendida vita e sposare la donna dei suoi sogni non lesina spavalderia, coraggio e genialità pur di riuscire nel suo intento di scrollarsi di dosso le indagini della FBI. Il film finisce in due modi diversi: da un lato il protagonista viene incastrato e finisce in galera, dall’altro la sua genialità viene riconosciuta dallo stesso governo americano che lo ingaggia come esperto falsario. L’impressionante rassomiglianza tra il protagonista del film (DiCaprio) e quello di un’altra storia: Elon Musk, ha eccitato la mia fantasia: entrambi giovani, spregiudicati e fulminei, ma anche troppi propensi all’estremo per riuscire a farla franca. Come nel film oggi DiCaprio rischia di vedere precocemente terminata la sua avventura a causa di un’indagine dell’autorità di Borsa (SEC) sul suo ultimo “cinguettio” (Tweet) sull’omonimo social network, che può trasformarsi in un‘incriminazione se non potrà provare che sia stato veritiero.

 

Tesla Inc. è una delle maggiori società quotate a Wall Street, ma anche senza il minimo dubbio la più controversa tra le “storie tese” che viaggiano sulla bocca di tutti gli investitori. I suoi prodotti sono amatissimi da chi può permetterseli (il top di gamma delle vetture elettriche) ma capaci di generare perdite mostruose che hanno costretto la società a chiedere continuamente capitali e finanziamenti al mercato, fino a creare molto nervosismo sulla sua capacità di riuscire dopo tanti anni -come promesso nell’ultima assemblea degli azionisti- a non bruciare più cassa. Per una compagnia automobilistica dimostrare di poter presto raggiungere gli obbiettivi di produzione e il pareggio di bilancio è un argomento non aggirabile.

 

LA CAPITALIZZAZIONE DI BORSA

Ciò nonostante il valore in Borsa del titolo (60 miliardi di dollari) è sempre riuscito a galleggiare al di sopra delle malelingue e della conseguente speculazione al ribasso, divenuta negli ultimi tempi l’ossessione del suo fondatore, un aitante ingegnere quarantenne sudafricano, anzi! La vicenda che rischia di vederlo incastrato dalla SEC è relativa alla sua ultima trovata: quella di anticipare sui social network una comunicazione di Borsa a dir poco rilevante come l’aver reperito gli investitori/finanziatori per un’OPA (offerta pubblica di acquisto) del titolo a 420 dollari, finalizzata a cancellarlo dal listino. Ora quella quotazione-obiettivo è il 33% in più di quanto viene valutata oggi e per tutti i piccoli azionisti rapppresenterebbe un ottimo risultato, mentre per Elon Musk, ossessionato dalla speculazione al ribasso, potrebbe essere un modo per concentrare il “focus” manageriale sui risultati a medio termine.

 


SERVONO 30 MILIARDI DI DOLLARI

Ora poiché a quella quotazione ($420) Tesla capitalizzerebbe più di 80 miliardi di dollari, tutti si sono chiesti da dove potessero arrivare i capitali per farlo, trovando risposta soltanto in illazioni. Sintantochè, infatti, il mercato dei capitali è disposto a valutare una fortuna i titoli di aziende tecnologiche come Tesla che esprimono forti aspettative di crescita, si può ancora sperare di reperirli, ma è oramai dall’inizio del 2018 la liquidità sui mercati si è rarefatta e di “venture capitalist” pronti a scommettere almeno 30 miliardi di dollari.

A causa infatti del lungo numero di investitori istituzionali e professionali nella compagine azionaria della società si ritiene che molti di essi potrebbero restare anche dopo il delisting riducendo l’effettivo esborso per l’OPA nell’intorno di tale cifra (si veda la tabella qui sotto riportata).

 

Ciononostante, seppur per “soli” 30 miliardi di dollari, di capitali in Occidente disposti a supportare quest’operazione -e i rischi che ne conseguono- c’è il rischio che non ve ne siano. Anche alla luce di ciò il titolo è scivolato in Borsa al di scodella precedente quotazione ($352).


ARRIVANO DA ORIENTE?

E qui viene il bello: altrove nel mondo invece di investitori che non vedono l’ora ce ne potrebbero essere eccome, soprattutto perché Tesla racchiude in sè importanti tecnologie che farebbero gola alla Cina innanzitutto, ma anche all’Arabia Sudita, il cui fondo sovrano è tra I suoi importanti azionisti: in una parola tutti quei paesi in cerca di un “technology transfer”. Non a caso il famoso “cinguettio” che rischia di incastrare Musk per aggiotaggio è arrivato dopo un viaggio in Cina dove ha incontrato un altro suo grandissimo azionista: Tencent (la società che possiede WeChat ) e dove tutte le grandi corporation dispongono potenzialmente di fondi statali illimitati. La Cina è comunque interessante per Tesla dal momento che si appresta a diventare il più grande mercato al mondo per gli autoveicoli e Musk stava comunque pensando di installarvi una fabbrica per ovviare al peso delle tariffe doganali. Da questo punto di vista Musk ha indubbiamente ancora una volta reperito “valore” dove gli altri non si sognavano nemmeno di andare a cercarlo.

 

LA VICENDA DELLE OBBLIGAZIONI CONVERTIBILI

Ma c’è anche un’altra storia che vale la pena di raccontare: quella del debito di Tesla, espresso principalmente in obbligazioni convertibili. La soglia oltre la quale converrebbe agli azionisti convertire il titolo è guarda caso quella ($360) raggiunta qualche minuto dopo il “tweet” che rischia di incriminare Musk. Se quella quotazione non sarà tenuta allora Tesla in pochi mesi dovrà rimborsare il debito per quasi un miliardo di dollari. Sebbene non si tratti di cifre paragonabili ai valori in gioco, la scadenza era tenuta d’occhio dagli operatori di borsa perché rischiava di essere la buccia di banana sulla quale poteva scivolare l’azienda. Giocare d’anticipo rischia di essere l’unica possibilità di Elon Musk che con gli ultimi scossoni di borsa si sentiva comunque sotto assedio da parte della speculazione al ribasso (coloro che vendono i titoli allo scoperto per poi ricomperare quando scendono) dal momento che Tesla, non generando cassa, può ripagare i suoi debiti solo contraendone altri.

DUE MORALI, COME NEL FILM

Come nel film questa storia ha due morali: da una parte la spregiudicatezza e la temerarietà di un imprenditore che gioca con le perdite di bilancio e con i debiti da anni in tutta naturalezza e alla fine si butta tra le braccia dei dragone cinese (che però potrebbe garantirgli risorse di ogni tipo e vendite di vetture a milioni di persone) hanno una logica che non fa una piega, visto il possibile epilogo. Dall’altra parte il rischio che l’avventura di Musk si fermi prima (dal momento che è già sotto inchiesta e che potrebbe essere incriminato per aver diffuso informazioni confidenziali) andrebbe a danneggiare non soltanto l’azienda, ma anche migliaia di piccoli azionisti che hanno creduto nella borsa americana!

 

Ecco perché la manovra rischia di avere, nonostante tutto, successo. Ma di colpi di scena aspettiamocene ancora un bel numero. Il personaggio è controllato a vista ma non si darà così facilmente per vinto.

 

Stefano di Tommaso