IL DESTINO DI FCA

Non c’è dubbio che le sorti di Fiat Chrysler Automobiles sian0 state inscindibilmente legate per 14 intensi anni a Sergio Marchionne (oggi sostituito per motivi di salute), il manager che prima ha fatto riacquistare la Fiat agli attuali azionisti di controllo (Exor) da General Motors cui essi l’avevano praticamente venduta a rate, poi l’ha salvata e infine l’ha rilanciata, anche attraverso l’acquisizione della Chrysler e lo scorporo di alcune controllate, tra le quali la Ferrari e la Case New Holland.

 

Dal 2004 infatti i ricavi del gruppo (ivi considerando anche Ferrari e CNH, tecnicamente fuori dal perimetro ma controllate dagli stessi azionisti di riferimento e di cui Marchionne era divenuto capo supremo) sono passati da 47 a 141 miliardi di euro del 2017, con un risultato netto passato da -1,4 a +4,4 miliardi di euro e una capitalizzazione ascesa da 5,5 a più di 60 miliardi di euro mentre il debito netto si è ridotto di oltre 10 miliardi di euro arrivando a zero.

Nonostante però Marchionne avesse già attentamente pianificato la sua successione, è chiaro che nel percorso che lo ha portato a tali successi egli ha mostrato doti eccezionali e tutti oggi si chiedono se chi prenderà il suo posto riuscirà a mostrare altrettanta capacità, anche perché il valore espresso dal gruppo nel suo complesso in Borsa teneva conto di un ambiziosissimo piano di crescita pubblicato lo scorso primo giugno, dove Marchionne scommetteva sul decollo della redditività del gruppo.

IL PIANO DI MARCHIONNE RIUSCIRÀ A MANLEY?

Sulla scia del piano pubblicato da Marchionne la Morgan Stanley si era spinta a individuare “sette passi che potevano potenzialmente raddoppiare il valore del titolo“:

  • Lo spin-off o vendita di Magneti Marelli: più 1 euro per azione FCA,
  • Lo spin-off di Maserati e Alfa Romeo: più 3 euro per azione FCA,
  • Il raggiungimento del rating investment grade (tripla B o piu): più 1 euro per azione FCA,
  • L’ottimizzazione del ramo finanziario: più 2 euro per azione FCA,
  • L’uscita dal business a marchio Fiat in Europa e America Latina: più 3 euro per azione FCA,
  • La nuova struttura di reporting su Jeep e Ram : più 4-6 euro per azione FCA,
  • La plusvalenza sulla partecipazione Waymo con cui FCA collabora per la tecnologia della guida autonoma dei veicoli: più 2 euro per azione FCA.

Il totale del potenziale di creazione del valore su quel piano ammontava dunque a un range tra 16 e 18 euro in più, con una valutazione che all’epoca era arrivata a 20 euro per azione e oggi è scesa a poco più di 16 euro (poco più di 6 volte gli utili) senza contare le possibili ulteriori plusvalenze in Ferrari e CNH. Addirittura gli utili della FCA sarebbero cresciuti più che corrispondentemente, da 6,6 miliardi di euro previsti per quest’anno (2018) ai 16 del 2022 (dal 6% all’11% dei ricavi), lasciando ampio spazio a ulteriori potenziali rialzi anche perché erano stati annunciati 9 miliardi di investimenti nel settore delle auto elettriche che si stima rappresenteranno per il medesimo 2022 oltre il 60% del mercato.

LA VALUTAZIONE DEL GRUPPO

Se si guarda perciò all’utile previsto per l’anno prossimo infatti il valore di capitalizzazione espresso come moltiplicatore degli utili netti scende a 4,4 volte, per non parlare del rapporto tra il medesimo valore di capitalizzazione e il fatturato: meno di 1/4 di quest’ultimo! FCA era inoltre di recente stata oggetto di “attenzioni” da parte della sue-coreana Hyundai, che aveva dichiarato a tutti, in occasione della pubblicazione del piano industriale, di attendere un momento più favorevole per lanciare un’Offerta di Pubblico Acquisto. Ma tale momento potrebbe essere arrivato, visto che il titolo ha perso in modo decisamente sospetto il 20% del suo valore (da 20 a 16 euro) dallo scorso primo Giugno ad oggi e che lunedì, alla riapertura dei mercati, potrebbe esserci un’ondata di ulteriori vendite “cautelative”.

E’ infine altrettanto vero che tutto quel potenziale di rivalutazione non era espresso solo da un uomo, anzi il suo successore sarà proprio il maggior presunto contributore ai risultati prospettati: quel Manley che guida la divisione che cresce di più: quella dei SUV e delle Jeep e che in caso di OPA (che adesso potrebbe arrivare tempestivamente) il prezzo subirebbe un indubbio salto in avanti.

Dunque non ci sono poi così tante ragioni per vendere il titolo sulla scia di un ricambio manageriale inatteso, se non quella -incontrovertibile-dell’incertezza.

Stefano di Tommaso




CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO DALLE GUERRE COMMERCIALI?

Difficile aggiungere validi commenti alle tonnellate d’inchiostro che sulla stampa di tutto il mondo si sprecano sui pericoli del protezionismo. Meglio cercare di guardare i fatti che qui vengono riportati con l’andamento degli indici delle borse:

•Globale (indice MSCI WORLD in Dollari) 


•Americana (SP500)


•Europee (Stoxxs Europe 600)

 


•Giapponese (Nikkei)

 



•Hong Kong (Hang Seng)

 



•Cinese (SSEC)


Stupiscono due fatti al di là di ogni considerazione: le principali borse del mondo, che alla fine del 2017 sembravano aver toccato le stelle con un dito, nella prima metà del 2018 non sono quasi affatto discese a livelli più bassi, nemmeno nei Paesi Emergenti (tra l’altro misurate in Dollari che si sono evidentemente apprezzati contro molte valute locali!).

Contrariamente a quanto leggiamo tutti i giorni i risultati che emergono dai grafici che seguono non potrebbero essere più chiari: l’America è quella che ci guadagna di più (nonostante il super-Dollaro) e l’Asia (Giappone escluso) è quella che ci perde. Difficile pensare che gli investitori non abbiano alzato le antenne per cercare di capire prima degli altri cosa sta succedendo. E se non sono fuggiti a gambe levate non vi viene qualche dubbio? Siete sempre dell’idea che Trump sia un pazzo che sta mettendo a ferro e fuoco il mondo?

Le ultime proiezioni indicano che quest’anno il prodotto interno lordo americano crescerà di quasi il 3%, poco meno del doppio di quanto dovremmo fare in Italia e significativamente di più di quanto farà la Germania. Se poi cerchiamo di capire qual’è la vera crescita economica cinese dobbiamo alzare le mani, perché gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che le statistiche (comunque in discesa sul limitare del 6%) siano in realtà tutte falsate e che il vero passo è poco superiore alla metà di quel numero.

Purtroppo il bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti, di commenti di parte e notizie parziali, ci fa talvolta perdere il senso della realtà, convincendoci che la “deriva populista” cui sembra condannato l’Occidente (a partire dalla Brexit) sta distruggendo le basi della società civile cui ci eravamo abituati. Purtroppo è quasi vero l’opposto: i partiti che stanno guadagnando terreno sono votati da un crescente malcontento popolare che le èlites che fino a oggi hanno governato il mondo (e che controllano buona parte della diffusione dell’informazione) non accettano di riconoscere.

Nessuno scrive che l’Europa e la Cina fino all’anno scorso applicavano unilateralmente dazi nei confronti dei prodotti americani e che l’America di Trump aveva più volte chiesto di rimuoverli. Allora Trump è passato ai fatti. E il risultato è che i capitali corrono a sottoscrivere titoli del Tesoro americano e il Dollaro sale, anche perchè le multinazionali riportano a casa la liquidità che prima lasciavano oltre oceano, mentre salari e consumi degli USA crescono a un ritmo superiore a quelli di tutto il resto del mondo.

Stefano di Tommaso




ANCORA TORO A WALL STREET?

Le relazioni commerciali internazionali sembrano in fiamme. Non c’è giornale che non ne parli e non c’è politico al mondo che non ne risulti preoccupato. Donald Trump venerdì scorso sembra aver imboccato una strada apparentemente senza ritorno dichiarando ulteriori dazi e tariffe contro le importazioni dalla Cina per 34 miliardi di dollari (con la conseguente contromisura presa immediatamente da quest’ultima).

 

A questo punto i mercati finanziari sono tutti sotto osservazione, con cali anche vistosi. Tutti salvo quello americano. I mercati borsistici dei Paesi Emergenti sono sotto mediamente del 20% dall’inizio del 2018, ma a queste perdite si devono sommare quelle delle divise valutarie in cui sono espressi i rendimenti delle borse dei Paesi Emergenti. Una vera e propria Caporetto per gli investitori non basati sui dollari, che certamente potrebbe finire per contagiare anche l’America, ma occorre notare che al momento quest’ultima ne è rimasta indenne. E almeno fino alle elezioni di medio termine (Novembre) c’è una certa possibilità che l’attuale tendenza rimanga invariata. Come è possibile?

LA SCOMMESSA DI TRUMP

Trump ha fatto capire che le sue iniziative doganali nascono dal fatto che sino a ieri l’America lasciava entrare i prodotti di chiunque e che era ora di smetterla con atteggiamenti non “simmetrici” da parte degli altri Paesi. Questo potrebbe significare che, di fronte a un passo indietro di cinesi, canadesi, messicani ed europei, anche Trump potrebbe togliere i dazi, ma non possiamo non prendere atto che per i suoi fini l’attuale politica commerciale ha funzionato alla grande! Non soltanto l’occupazione continua a crescere negli USA ma anche e soprattutto i profitti delle imprese stanno volando: ci si attende che i dati del secondo trimestre rivelino una loro crescita oltre il 20% sullo stesso periodo dell’anno precedente.

IL RICATTO CINESE DEL TECHNOLOGY TRANSFER

Nonostante la martellante campagna stampa contro Trump e i suoi dazi, l’opinione pubblica interna al paese tende a dargli ragione. Senza considerare che nei confronti di Paesi Emergenti come la Cina o il Messico esistono anche altri rilevanti problemi sollevati per la prima volta solo da Trump: ad esempio l’imposizione del “Technology Transfer” a tutte le imprese che vanno a investire in Cina senza che ci sia poi una valida tutela delle opere d‘ingegno significa dare la possibilità pratica alle imprese cinesi di copiare i prodotti americani ed europei (per i quali sono stati investiti quattrini in ricerca e sviluppo) per riproporli a basso costo fabbricati illegalmente.

Per non parlare del Messico dove la scarsa sicurezza sociale e sul lavoro spinge tutte le multinazionali ad impiantare siti industriali per poi esportare i manufatti colà prodotti negli USA. E’ chiaro che questo toglie posti di lavoro (o migliori salari) agli operai americani, già assediati dai disperati che varcano illegalmente i confini per cercare direttamente lavoro negli USA facendo loro concorrenza sui salari perché accettano paghe molto basse.

Difficile persino per noi Europei dare torto a Trump su questi ultimi temi. Anche perché per il momento l’America sta attirando capitali da tutto il resto del mondo con il risultato che l’economia americana continua a tirare e le imprese americane a fare -appunto- lauti profitti.

GLI U.S.A. SONO DIVENTATI IL PRIMO ATTORE NELLE ENERGIE

Ciò che poi è passato proprio in sordina è stata l’accelerazione della produzione americana di petrolio e gas, che ha tratto ottimo profitto dall’ascesa dei loro prezzi. Oggi gli USA ne sono diventati più che mai il più importante produttore e non se ne parla molto perché al tempo stesso essi sono anche il loro primo consumatore. Ma questo ancora una volta significa che l’economia americana tira più del previsto, nonostante le statistiche e nonostante le campagne stampa avverse all’attuale Presidente.

Certo le guerre commerciali sono comunque delle guerre e, al di là di un loro utilizzo strettamente tattico, esse non possono mancare di esigere -come tutte le guerre- un tributo di “sangue” anche alle imprese e ai lavoratori americani. E questo è un terreno molto scivoloso per il primo Presidente che ha dichiarato guerra a praticamente tutte le altre nazioni del mondo, perché se dalla sua scelta di rinegoziare gli accordi commerciali su base bilaterale (invece che attraverso gli organismi sovranazionali) non otterrà presto dei risultati sarà allora la sua posizione politica a cominciare a logorarsi. Quello che se ne può dedurre è che probabilmente Trump lo sappia benissimo e che dunque oggi spinge più che mai sull’acceleratore del confronto-scontro sia perché è riuscito a infliggere del dolore alle controparti europee e cinesi le quali adesso stanno finalmente valutando se continuare a rispondere tono su tono alle provocazioni o scendere a compromessi, ma anche perché Trump è il primo che ha altrettanta fretta di fare marcia indietro.

LE GUERRE COMMERCIALI NON POSSONO DURARE ALL’INFINITO

I grandi operatori sui mercati finanziari (quasi tutti americani) lo hanno sempre saputo e sino ad oggi non si sono preoccupati molto delle guerre commerciali, ma se dovranno constatare che l’escalation prosegue e se il gioco dovesse tirare in lungo dovranno prendere atto che questo rischierebbe di produrre forti danni all’economia globale. Se a rischio ci saranno i profitti futuri delle imprese multinazionali americane allora le borse valori potrebbero iniziare a flettere nonostante le numerose buone notizie e contribuire esse stesse a trascinare al ribasso anche la crescita economica globale. Ma Trump non resterà a guardare che questo accada, anche se per farlo onorevolmente egli dovrà mettere a segno delle vittorie almeno parziali, sulla base delle quali egli giocherà la sua chance di fare il buon gesto nei confronti di tutti gli altri “avversari”.

CHI GUADAGNA A WALL STREET: “TECNOLOGICI” E “SMALL CAP”

In ogni caso c’è tuttavia una certa probabilità che la crescita economica americana resti forte per la restante parte del 2018 e che essa riguarderà ancora una volta i titoli tecnologici e le “small cap” (i titoli a bassa capitalizzazione) che sino ad oggi hanno reagito meglio alla riduzione delle tasse. Con buona pace di tutti coloro (tra cui il sottoscritto) che gridano allo scandalo delle iper-valutazioni e mettono in guardia sulla relativa illiquidità dei titoli a bassa capitalizzazione.

La conclusione di questo ragionamento è che se quanto sopra è corretto allora parallelamente alla prosecuzione della tendenza della prima parte dell’anno (Wall Street su
e Europa giù) anche tanta volatilità è ancora una volta attesa per i mesi a venire, mentre scarsa attenzione sarà riservata ai parametri economici fondamentali delle imprese, almeno sintantochè i profitti delle imprese (principalmente quelle tecnologiche) continueranno copiosi.

 

RIALZO FINO A NOVEMBRE?

Dunque potrebbe esserci ancora una volta un rialzo di Borsa (nella sola Wall Street) a breve termine (lo stesso termine entro il quale Trump deve riuscire a invertire la rotta che lo ha portato alle guerre commerciali) e invece una certa probabilità di ribasso delle borse nel medio Termine (cioè dall’autunno in poi), soprattutto se la sua manovra sui dazi non avrà avuto rapido successo.

Ciò vale anche per le quotazioni delle materie prime: nonostante il Dollaro forte (che però non durerà in eterno): il rialzo dei loro prezzi potrà generare la sensazione che una nuova ondata inflazionistica sia alle porte. In quel caso la stretta che la FED (la banca centrale americana) si troverebbe contretta a muovere potrebbe risultare come la classica buccia di banana sulla quale veder scivolare le prospettive di crescita dell’intera economia globale! E con l’ammontare in circolazione di debiti pubblici da sfamare a tassi bassi nessuno pensa che ce lo possiamo permettere! Ma tutte queste sono preoccupazioni marco-economiche che non impattano sull’andamento delle borse, anzi: di solito con l’inflazione che risale (segno di riscaldamento della crescita economica) anche le azioni vanno su.

Dunque, nonostante i rischi legati agli effetti negativi per i Paesi Emergenti (tra i quali tocca oramai annoverare anche il nostro) della risalita dei tassi d’interesse americani, se lo scenario non muta chi ci rimetterà potrebbero essere i Paesi a più bassa crescita economica e i non-produttori di materie prime come gli Europei, mentre chi ci guadagnerà potrebbero essere -oltre a quello americano- i mercati finanziari che più hanno perduto terreno fino ad oggi, come quello cinese.

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo e quelle appena esposte sono solo ipotesi. Ma se ci chiedevamo quanto potrebbe durare il prossimo rialzo la risposta sembra abbastanza esauriente: non così poco!

Stefano di Tommaso




DELL RITORNA A WALL STREET PER CAVALCARE LA TRASFORMAZIONE DIGITALE DELLE AZIENDE

Dopo cinque anni di assenza da Wall Street il nome di Michael Saul Dell è destinato a farsi sentire di nuovo alle grida, dopo che in Ottobre sarà stata perfezionata l’operazione che decreta il ritorno alla quotazione sul listino americano della società che porta il suo nome: Dell Technologies, una società che sarà “strategicamente orientata a trarre vantaggio dalle applicazioni commerciali delle nuove tecnologie tra le quali “Internet delle Cose”, la realtà virtuale, l’intelligenza artificiale, i sistemi di apprendimento automatico dei computers, le telecomunicazioni di 5^ generazione, e la “Nuvola” per l’archiviazione dei dati in mobilità (cloud computing)”.

“La crescita senza precedenti di questi anni e il posizionamento del nostro portafoglio di tecnologie e servizi su un’offerta che copre gli ambiti della trasformazione digitale delle aziende cosa che ci posiziona in modo unico in un momento molto importante per la società” ha precisato agli analisti Michael Dell, in occasione della presentazione dell’operazione di ritorno in Borsa della sua società. Due mesi prima Michael Dell, nel corso della convention aziendale a Las Vegas, aveva spiegato che la sua società si concentrerà sul futuro tecnologico, che porta inevitabilmente allo sviluppo della partnership tra Uomo e Macchina: il connubio tra intelligenza umana e tecnologie potenti che impatterà sul progresso umano dei prossimi 10-15 anni. Un futuro che ovviamente richiederà alla sua società forti investimenti.

LA STORIA

Figlio di una agente di cambio ebrea e di un ortodontista la cui famiglia era immigrata in America in fuga dalla Germania nazista, Dell -che oggi ha solo 53 anni- avviò nel 1984 la sua società per fabbricare personal computer destinati ad essere venduti per corrispondenza a basso prezzo in tutto il mondo. All’epoca egli aveva 19 anni e soli otto anni dopo quella sua società era già entrata nella classifica di Fortune come una delle 500 più grandi aziende al mondo ed era quotata a Wall Street. Ancora oggi non c’è al mondo un ufficio, studio professionale o azienda che non utilizzi qualche macchina o monitor con scritto sopra il nome DELL a caratteri cubitali.

IL “DELISTING”

Nonostante il grande successo raggiunto la Dell Corporation fino a sei anni fa restava sostanzialmente una fabbrica di personal computers e anche per questo motivo aveva sperimentato un vistoso calo della capitalizzazione di borsa. Allora Michael Dell propose al mercato di ricomprarsi le azioni quotate che costituivano il “flottante” riconoscendo alla società di cui era a capo una valutazione di 25 miliardi di dollari. Nel 2013, dopo quasi un anno dall’annuncio e molte polemiche che videro il noto raider Carl Icahn accusarlo di pagare troppo poco agli azionisti di minoranza i titoli che egli ritirava dal listino, l’iniziativa di Dell ebbe successo e la società venne “delistata” dalla borsa newyorkese .

Dal canto suo Michael Dell si difese dalle accuse accusando a sua volta gli analisti di borsa di guardare troppo al breve termine, e affermando che l’unico modo per riuscire a rispondere alle sfide imposte dalle mutate condizioni di mercato con una strategia priva di condizionamenti esterni -basata sulle nuove tecnologie e non più sulla produzione di macchine- era quello di far tornare l’azienda in ambito “privato” (cioè non quotata) per poi stravolgerne liberamente i connotati.

L’ACQUISIZIONE DI EMC E LA QUOTAZIONE DELLE TRACKING STOCKS SU VM WARE

Tre anni dopo la riuscita di quell’operazione (2016) la sua Dell Inc. poteva annunciare di aver finalizzato per 67 miliardi di dollari l’acquisizione della EMC, il colosso mondiale dei data centers” (centri per l’archiviazione dei dati sui quali si basa il Cloud Computing) con l’ausilio del fondo Silver Lake, di Microsoft e di un gruppo di banche, dopo aver montato una delle più complesse operazioni finanziarie della storia per riuscirvi.

Parte del denaro per questa operazione era pervenuto dall’offerta al mercato borsistico di “tracking stocks” (azioni virtuali senza diritto di voto) della VM WARE (dove VM sta per “virtual motion”: software per la realtà virtuale), garantite dalla partecipazione di controllo posseduta da EMC nella medesima azienda al momento dell’acquisto di EMC da parte di Dell.

IL RITORNO DI DELL A WALL STREET

L’operazione che vede oggi Dell tornare a Wall Street è anche tecnicamente interessante perché non consiste in una classica “Initial Public Offering” (IPO) cioè nel collocamento di titoli azionari che si fa in occasione della quotazione in borsa di una società, bensì in una proposta -rivolta ai detentori di quelle “tracking stocks” di VM WARE quotate- di acquisto (per 9 miliardi di dollari) e scambio (per la restante parte fino al valore complessivamente proposto di 21.7 miliardi di dollari) delle medesime, trasformandole in azioni ordinarie della Dell Technologies stessa in ragione di una tracking stock ogni 1,3 azioni di Dell Technologies. Se quegli azionisti voteranno a favore della proposta, ad essi dopo l’operazione a apparterrà una quota variabile dal 21% al 31% di quest’ultima.

L’offerta appare generosa perché la valutazione implicita riconosciuta ai detentori di quelle “tracking stocks” (21,7 miliardi di dollari) è superiore nel complesso di quasi il 30% alla loro capitalizzazione di borsa al momento della proposta (circa 17 miliardi di dollari), sebbene essa consista solo in parte in un’offerta di denaro e per la maggior parte in azioni della Dell Technologies che da cinque anni non è più quotata ma che nel frattempo ha acquisito la EMC Corporation e, con essa, anche il controllo della VM WARE che resta indipendente nella sua gestione e quotata separatamente a Wall Street (fattura meno di 8 miliardi di dollari ma capitalizza più di 60 miliardi di dollari).

LE VALUTAZIONI IMPLICITE, L’INDEBITAMENTO E CHI CI HA GUADAGNATO

In realtà il vero affare lo fanno Michael Dell, la Microsoft e il fondo Silver Lake, che per finanziare parzialmente la quota cash riconosciuta agli azionisti delle “tracking stocks” chiedono alla VM Ware di distribuire dividendi per 9 miliardi di dollari (che per la maggiora7saranno pagati alla sua controllante Dell Technologies), e poi ottengono un implicito riconoscimento dal mercato di un elevatissimo valore per la loro partecipazione nella Dell Technologies (partecipazione che nel complesso scenderà ex post dal 100% al 72%, con la quota in mano a Michael Dell dal 47% al 54% ), senza metterne in discussione l’indebitamento (circa 53 miliardi a livello consolidato) in buona parte contratto all’epoca dell’acquisto di EMC. Una leva finanziaria che ha consentito loro di beneficiare della rivalutazione della società in questi anni (la valutazione implicita della Dell Technologies supera i 70 miliardi di dollari) senza condividerla con altri investitori. Michael Dell infatti cinque anni fa, al momento del delisting della sua Dell Corporation ne possedeva soltanto il 14%.

GLI ULTERIORI INVESTIMENTI A SUPPORTO DELL’EVOLUZIONE TECNOLOGICA

Ma bisogna anche notare che il ritorno in Borsa, già approvato dai Consigli di Amministrazione di Dell e VM Ware, risulta soprattutto funzionale agli investimenti che saranno necessari per mettere in pratica la strategia che Michael Dell ha annunciato a Maggio a Las Vegas alla Convention Annuale della sua azienda, che raduna oltre 14.000 clienti e fornitori: un percorso che traguarda il 2030, basato sulle quattro esigenze che accompagnano la trasformazione delle aziende: il passaggio dal mondo analogico a quello digitale, l’evoluzione degli strumenti di calcolo, la necessità di sicurezza informatica e quella dell’evoluzione delle competenze informatiche della forza lavoro. Che trovano risposte estremamente avanzate nel portafoglio di società del mondo Dell (Dell EMC, Pivotal, RSA, Secureworks, Virtustream e VM Ware) che copre dall’edge computing, al core computing, fino al cloud computing.

Una strategia basata sulla possibilità di coprire in modo integrato tutte le esigenze di Information Technology delle aziende, che parte dall’offerta storica di computers, di sistemi di archiviazione e di infrastrutture di rete, fino a arrivare a coprire anche quella di sistemi per lo sfruttamento della mole di dati che proviene da Internet delle Cose, di proposte per Intelligenza Artificiale nelle aziende, di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata per le vendite online. E che necessiterà evidentemente di continui investimenti.

Stefano di Tommaso