NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

Il fenomeno del Dollaro forte, che si combina con quello del caos politico europeo, non congiura a favore delle quotazioni dell’ingente massa di debito pubblico del vecchio continente, nè delle quotazioni dell’Euro. Qualcuno porrebbe ritenere che sia tutta colpa di questo o di quel fatto, ma la verità è che, mentre l’Italia affronta uno dei momenti più bui della sua storia istituzionale, là fuori dei nostri confini (e anche di quelli europei) succede anche di peggio.

 

L’Unione Europea è un soggetto strano, a cavallo tra una nazione federale (che oggi non è, ma batte moneta unica come se lo fosse) e una specie di Commonwealth che invece di essere britannico è di fatto franco-germanico. L’Unione tuttavia ha un suo parlamento e, soprattutto, una “Commissione“ (che agisce talvolta con decisione nel premiare o sanzionare qualcuno, come si trattasse di un vero e proprio potere esecutivo, cioè di un governo). Ma un po’ dappertutto i singoli Stati membri vi sono rappresentati nella ripartizione degli onori e dei poteri innanzitutto sulla base della loro popolazione (per eleggere i deputati ad esempio) e ancor più sulla base del loro peso economico, e talvolta arrivano a spartirsi le cariche che contano sulla sola base del loro peso politico .

SI VA ALLO SCONTRO O E’ ANCORA POSSIBILE UN DIALOGO?

La ventata gelida che Domenica sera è sprizzata sulle massime istituzioni della Repubblica Italiana non gioverà a stabilizzare l’Unione o a spingere per il suo completamento fino a diventare una singola nazione. Oppure si? Certo se l’Italia dovesse arrivare a votare per l’uscita dall’Unione il sistema barcollerebbe non poco, ma è uno scenario che resta ancora oggi piuttosto improbabile, mentre è ancora plausibile che dopo la scazzottata un’intesa sul governo e tra questo e i suoi “partners” europei la si trovi.

Il problema a breve termine è tuttavia quello del rating (e della sua tendenza, cioè il suo ”outlook”) e dell’appetibilità conseguente del debito pubblico italiano, contro i quali peraltro ha sempre giocato una pesantissima speculazione internazionale. Se il gioco, come sembra, si fa duro e si va allo scontro frontale tra poteri politici chi rischia di rimetterci innanzitutto è il mercato dei capitali, che potrebbe vivere una fuga di risparmi dal nostro Paese paragonabile forse solo a quella dell’Argentina. Gli effetti possono apparire drammatici e rapidissimi, mentre per porvi rimedio probabilmente ci vorrà molto tempo.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

Ma la situazione dell’Italia va inquadrata in un contesto internazionale già di per sé negativo e incerto, in cui i capitali stanno comunque fuggendo da buona parte dei Paesi Emergenti o comunque “non centrali” per la finanza globale, tanto per timore di rimanerne intrappolati, quanto per il rialzo dei tassi americani e di conseguenza del Dollaro, che di per sé rischia di fare molti danni alle economie di quei Paesi.

È in questo contesto internazionale (ed extraeuropeo) che vanno lette tanto la situazione politica rovente del contrasto tra cittadini dei Paesi più deboli dell’Unione e poteri europei (che non promette nulla di buono) quanto la possibilità che l’Italia subisca una forte pressione al ribasso sulle quotazioni dei propri titoli di Stato. Il fatto che il resto dell’Unione faccia quadrato e tenga i propri tassi ai minimi della storia ovviamente non aiuta l’Italia che avrebbe bisogno di rendersi più appetibile mentre ciò non fa che aumentare lo spread con i tassi tedeschi e rendere più interessante la fuga dei capitali.

Immaginare manovre che contrastano il rischio di una simile deriva dovrebbe trovarsi al primo posto tra le priorità della Banca Centrale Europea, che però ha probabilmente le mani legate da un mandato assai stretto e dalla difficoltà di agire in fretta visto che il suo Governatore rappresenta moltissimi Stati eterogenei fra loro.

L’EVENTUALE SCIVOLATA DEL RATING ITALIA POTREBBE FUNZIONARE DA DETONATORE PER I MERCATI FINANZIARI

Ma poi bisogna ricordarsi anche del possibile “effetto domino”: se la situazione europea (o anche solo Italiana) degenerasse, poiché riguarderebbe valori di migliaia di miliardi (trilioni, come dicono gli Americani) di Euro, ecco che anche gli altri mercati ne risentirebbero negativamente, contribuendo a sospingere la migrazione dei capitali verso le piazze (e le valute) più sicure o più neutrali, ma anche a creare volatilità nelle borse di tutto il mondo.

Il crepuscolo del lungo ciclo economico positivo che il mondo fino all’anno in corso ha vissuto per quasi un decennio anche in modo sincronizzato, la prospettiva di una riduzione della liquidità disponibile sui mercati e il rischio che il super-Dollaro non si arresti e faccia danni a catena tra i Paesi Emergenti (dove oramai risiede buona parte della popolazione mondiale e dove si alloca una fetta consistente del prodotto globale lordo) possono risultare fattori decisivi per riuscire a creare uno smottamento consistente sui mercati finanziari. Anche in quelli più solidi.

E questo rischio alimenta le aspettative negative che in tal modo potrebbero auto-realizzarsi, quantomeno spingendo gli operatori a minor fiducia sul futuro e dunque a ridurre gli investimenti strutturali e scientifici, che sono alla base dello sviluppo economico. Anche la voglia di trasformare gli investimenti mobiliari in liquidità “‘tattica” contribuisce a dare forza al Dollaro, creando le condizioni per una possibile tempesta valutaria.

Dio non voglia…

Stefano di Tommaso




CHE FINE HA FATTO LA CURVA DI PHILLIPS?

Per la teoria economica la curva di Phillips, dalla sua formulazione iniziale (1958) in avanti, non era mai stata messa in discussione sino a qualche mese fa. Teorie come quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. Oggi sembra accadere l’opposto della stagflazione: l’economia cresce ma con bassa inflazione.

 


Ma la teoria del livello naturale di disoccupazione, che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo, nasceva dalla considerazione che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Tutto sta nel comprendere se esiste un tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU), cosa oggi messa in discussione dai fatti. Sembrava a tutti una grande ovvietà il fatto che esista un meccanismo di azione e reazione degli eventi economici che crea una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione dei prezzi: vediamo il perché. IL CONCETTO SOTTOSTANTE Se la disoccupazione scende vuol dire che la domanda di lavoro (quella delle imprese che assumono personale) sale più dell’offerta di lavoro (quella di chi cerca un impiego). Ma se la domanda di un bene o un servizio supera l’offerta allora si creano le condizioni perché possa salire il prezzo di quel bene o quel servizio. In caso di crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese si può dunque ritenere che la relativa retribuzione possa incrementarsi, con l’ovvio limite che quest’ultima dipende ovviamente anche da altri fattori (la disoccupazione pre-esistente, la precarietà del lavoro stesso e gli oneri sociali che si sommano al costo del lavoro). In un mondo normale la tendenza ad un incremento dei salari porterebbe ad una crescita dei consumi e, in ultima analisi, ad una risalita dei prezzi della maggior parte dei beni e servizi, come diretta conseguenza dell’incremento dei consumi. Ma quello in cui stiamo vivendo oggi evidentemente non funziona più così: con la ripresa economica che un po’ in tutto il pianeta si è manifestata negli ultimi anni la disoccupazione è scesa, i consumi sono tornati a crescere, ma lo stesso non è accaduto ai prezzi della maggior parte di beni e servizi ricompresi nel “paniere” statistico con il quale si misurava l’inflazione. LE RAGIONI DELLA MANCATA FIAMMATA INFLAZIONISTICA  Le ragioni di tale vistoso fenomeno di “decoupling” tra occupazione e inflazione sono incerte e altresì probabilmente numerose ed eterogenee: – dall’incremento del commercio elettronico che permette a chiunque, con un semplice “clic” sul telefonino, di acquistare beni e servizi provenienti dall’altra parte del mondo (e in particolare dai cosiddetti “Paesi Emergenti”, dove la manodopera costa molto meno e dove la sovracapacità produttiva è ampia),

– alla disponibilità di posti di lavoro temporanei e/o precari, che costringe il lavoratore ad accantonare parte di quanto guadagna per i momenti in cui sarà disoccupato, rimandando la spesa per consumi a tempi migliori,

– per passare poi alla riduzione della copertura sanitaria e previdenziale da parte dello Stato, che orienta il denaro guadagnato dal lavoratore verso capitoli di spesa (sanità e assicurazioni private) che in precedenza erano coperti dalla mano pubblica,

 – fino a tenere conto del crescente grado di automazione della produzione e dei servizi, che ne ha spesso calmierato il costo. Un minimo l’inflazione si è vista a causa della forte impennata dei prezzi delle materie prime, per la massiparte espressi in Dollari che di recente si sono rivalutati, e segnatamente quello del Petrolio, quasi raddoppiato in due anni, ma in un’economia globale sempre più digitalizzata questo fattore conta progressivamente di meno, tant’è che l’inflazione non è cresciuta proporzionalmente. Ma soprattutto l’inflazione non ha affatto risentito della maggior occupazione e della (relativa) ripresa dei consumi. IL CASO DEL GIAPPONE  Un po’ in tutto il mondo è dunque oramai acclarato che la disoccupazione scende ma l’inflazione non riparte, in particolar modo negli Stati Uniti d’America ma con punte quasi parossistiche come in Giappone dove la banca centrale ha immesso una montagna di liquidità acquisendo quasi il 90% dei titoli del debito pubblico nazionale, giunto a livelli record:


In altri tempi e in altri luoghi ciò avrebbe scatenato l’inflazione ma in Giappone invece l’economia è cresciuta l’anno scorso di quasi il 2% e, misurata con parametri diversi dall’inflazione e tenuto conto della specificità di quel Paese, essa tende non solo a crescere ma addirittura a surriscaldarsi. Ciononostante l’inflazione non si manifesta quasi. Si vedano i due grafici qui riportati (dove si vede un tasso di disoccupazione tornato ai livelli di vent’anni addietro):

 

E questo accade in un Paese dove la percentuale di occupati sul totale della popolazione è tra i più alti del mondo: in Giappone lavorano quasi 67 milioni di persone su un oltre 127 milioni: quasi il 53% mentre in italia siamo a poco più di 23 milioni di occupati su una popolazione di poco più di 59 milioni, pari al 39%. IL GIAPPONE E’UN POSSIBILE PRECURSORE  Il caso giapponese potrebbe aver solo anticipato la tendenza che magari si svilupperà anche negli altri paesi OCSE, con il rischio tuttavia che la mancata crescita dell’inflazione alimenti la bolla speculativa dei valori mobiliari e immobiliari (con tutti i rischi che ne conseguono) , stante anche la progressione della concentrazione della ricchezza in poche forti mani.

Probabilmente l’attuale inconsistenza dell Curva di Phillips corrisponde ad un progressivo impoverimento dei ceti più bassi della popolazione dei paesi più sviluppati, ma questo fatto, come dimostra il colossale lavoro di ricerca di Thomas Piketty è ancora difficile da dimostrare.

 

Stefano di Tommaso




APPLE A UN PASSO DAL TRILIONE DI DOLLARI

In una strana e surreale atmosfera di Wall Street che rischia di tornare a celebrare i massimi di sempre pur con un indice SP500 che capitalizza adesso solo poco più di 16 volte gli utili attesi, con un’America che sta ancora facendo i conti per valutare tutte le ricadute positive degli incentivi che il Presidente Trump ha posto per chi produce utili e fa rientrare i capitali in patria, si stanno creando le condizioni necessarie affinché per la prima volta nella storia la capitalizzazione di un’impresa (il valore che la borsa le attribuisce) superi i 1000 miliardi di dollari. E se ciò succedesse ancora una volta la corona di investitore più intelligente andrebbe a Warren Buffett, che ha appena finito di scommettere pesantemente sulle potenzialità dell’azienda caratterizzata dalla mela morsa proprio mentre Apple lanciava un programma di riacquisto azioni proprie da 100 miliardi di Dollari.

 

Indubbiamente per quasi tutti i titoli dell’indice Standard&Poor 500 gli utili per azione sono cresciuti moltissimo (in media siamo a 155 dollari per azione cioè poco meno di un sedicesimo del valore medio) anche grazie alla riforma fiscale che ha contribuito a sgonfiare i timori che le valutazioni di Wall Street fossero troppo alte.

LE FAVOLOSE VALUTAZIONI DEI TITOLI TECNOLOGICI

Ma se si pensa che in America i tassi di interesse stanno già tornando a crescere, che il prezzo dell’energia corre e, con esso, anche i timori di fiammate inflazionistiche, se si tiene conto che i segnali di inversione del ciclo economico si moltiplicano e che Wall Street ha una forte componente di titoli cosiddetti “tecnologici” come le famose FANG (Facebook, Amazon, Netflix e Google), caratterizzate da favolosi moltiplicatori degli utili (in media ben oltre le cento volte con il record di Amazon che supera le 250 volte), la performance delle borse delle ultime settimane non era così scontata, anzi!

UN TITOLO “TECNOLOGICO” CON VALUTAZIONE DA AZIENDA INDUSTRIALE

Eppure esiste un altro titolo tecnologico, anzi il più importante di tutti -Apple- che invece capitalizza soltanto 16 volte gli utili attesi (cioè esattamente quanto la media dell’indice SP 500) ma che mostra ugualmente prospettive di crescita migliori di tanti altri titoli “tecnologici”. Con la solidità dei margini di cui parliamo più sotto c’è facilmente da attendersi una riduzione nel forte divario tra i moltiplicatori dei FANG e quello di Apple ! Per fare un esempio: il titolo Amazon si è rivalutato del 70% nell’ultimo anno, quello di Apple solo del 24%.

Anzi: nonostante le sue vendite siano ancora legate per una parte preponderante ai telefonini, è in forte crescita ed ha un‘altissima marginalità la parte di ricavi Apple riguardanti i”servizi” (che si prevede raggiungeranno da soli quest’anno i 10 miliardi di Dollari, il fatturato di una multinazionale quotata a Wall Street di media taglia, mentre la Ferrari fatturerà quest’anno “solo” 3,4 miliardi di dollari) oltre che la quota di fatturato afferente le vendite online di musica e software a oltre a quella più pregiata- delle vendite “ricorrenti”- come ad esempio l’abbonamento al “cloud” (l’archiviazione remota dei dati), o i servizi di pagamento tramite telefonino e orologio intelligenti.

LA “BRAND IDENTITY”

Ma la vera chiave per convincersi della fortissima identità di marca che Apple ha sviluppato, in buona misura derivante dal successo delle politiche di qualità di prodotto e di attenzione alle esigenze del consumatore che negli anni hanno creato un “ecosistema” di prodotti e servizi che si integrano tra loro e che creano una fortissima “fedeltà”, nell’ordine del 90% della clientela che deve effettuare acquisti di rinnovo, si rivela nella disposizione del cliente a pagare significativamente più cari degli altri i prodotti Apple (balzati nell’ultimo anno dal prezzo medio di 655 dollari a quello di 728).

Questo avviene sia perché l’utente medio riconosce loro una qualità superiore che perché egli considera sempre più irrinunciabili i benefici dell’ecosistema dei prodotti stessi, i quali custodiscono le informazioni personali, le abitudini dell’utente, le immagini e i video nonché, ultimamente, anche tutti i dati biometrici (dal riconoscimento facciale all‘ andamento delle informazioni sotto sforzo sulla circolazione sanguigna o sulle abitudini di fitness e persino del sonno).

I MARGINI SONO DIFENDIBILI

Apple dunque ha edificato negli anni una decisa barriera all’entrata di concorrenti nel suo portafoglio di clientela e si è assicurata la fedeltà di quest’ultima a livelli mai visti da nessuna altra marca, cosa che getta le basi per una sempre maggiore sostenibilità degli elevati margini di cui gode. Il numero 16 ricorre ancora altre volta parlando di Apple perché la quota di mercato delle sue vendite è in media a livello globale al 16% del totale, dunque ancora con decise possibilità di miglioramento negli anni dato tutto quanto esposto, nonostante il telefonino più economico della gamma costi non meno di 340 Dollari, mentre gli utili del primo trimestre 2018 sono saliti del 16% a 65 miliardi di Dollari (dunque $260 miliardi di utili su base annua).

BASSI MOLTIPLICATORI DEGLI UTILI E TANTA CASSA DISPONIBILE

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la capitalizzazione di borsa è basata su un moltiplicatore degli utili decisamente “economico” per la natura online, tecnologica e innovativa dei prodotti e servizi offerti, ecco che non è impossibile pensare ad ulteriori forti incrementi di valore delle sue azioni quotate, forte anche della grandissima liquidità accumulata sino ad oggi con la quale Apple può permettersi di pianificare politiche di riacquisto di azioni proprie per molti anni a venire.


Da quando ha iniziato a comprare proprie azioni (2012) fino ad oggi Apple ha già speso 275 miliardi di dollari e, con la quantità di denaro liquido (quasi 270 miliardi di Dollari a fine Aprile) e la generazione di cassa (circa $60 miliardi/anno) che si ritrova, ha già pianificato ufficialmente di spendere almeno altri $100 miliardi senza intaccare minimamente la solidità del titolo o la sua capacità di scommettere su nuove nicchie di mercato (vedi ad esempio l’ingresso nel settore auto con veicoli elettrici e a guida autonoma).

FORTI ATTESE

A una quotazione del titolo di 185 Dollari, corrispondente ad una capitalizzazione di borsa di oltre 930 miliardi di dollari, sono molti gli analisti che prevedono un rapido avanzamento del titolo oltre la soglia dei 200 Dollari per azione e di conseguenza ben oltre i 1000 miliardi di capitalizzazione di borsa dell’azienda di Cupertino in California. Tra questi il più ricco e famoso investitore di tutti i tempi: Warren Buffett che ha staccato di recente in totale assegni per quasi 50 miliardi di Dollari per diventarne socio.

Stefano di Tommaso




L’EUFORIA DELLE BORSE

Che le prospettive di un indebolimento dell’economia reale non significhino necessariamente che le borse debbano crollare lo sapevamo già, ma che addirittura gli indici di tutte le principali borse del pianeta portassero a casa una settimana da record non era così scontato che potesse accadere. La domanda perciò è: cosa succede? Quali aspettative spingono gli investitori ad alimentare il “rally di Maggio”? I mercati lo hanno già ribattezzato “Iran Deal”.

 

Al di là dell’ovvia affermazione che la risalita del prezzo del petrolio ha beneficiato le numerose aziende quotate le cui sorti sono legate a questa variabile, non sembra facile rispondere compiutamente, proviamo perciò a esaminare i fatti:
•In funzione delle tensioni geopolitiche, oro e petrolio toccano nuovi massimi e trainano i listini di molte aziende energetiche, chimiche e industriali;

•I rendimenti a lungo termine si stabilizzano poco sotto il 3%, così come pure si riducono le ansie da risalita dell’inflazione e questo sembra dare ossigeno alle banche e alle compagnie assicurative, nonché più tempo alle banche centrali per far salire i tassi;

•Il Dollaro continua ad apprezzarsi contro tutte le altre valute ma soprattutto mette in difficoltà il cambio con buona parte dei Paesi Emergenti e fa scendere per gli americani il prezzo delle materie prime.


La montagna di preoccupazioni che la stampa internazionale ha quasi unanimemente sollevato per le tensioni commerciali con la Cina è stata ignorata dai mercati finanziari mentre l’abbandono dell’accordo nucleare sull’Iran da parte degli U.S.A., ha fatto ascendere le quotazioni di Dollaro e Petrolio generando il topolino di un “hurrà” dei mercati finanziari! L’effetto può apparire strano se non si comprende a fondo lo stato d’animo dei mercati, che nella misura dei rischi percepiti valutano molto più gravemente l’incremento dei tassi di interesse che non quello delle probabilità di un conflitto.

L’indice STOXX® Global 1800 è un indice relativo all’andamento di un paniere selezionato di 600 titoli azionari americani, 600 europei e 600 asiatici. Eccone il grafico, dove si può ben vedere la decisa rimonta delle borse da fine Marzo ad oggi, a un passo dal massimo, raggiunto a Gennaio 2018:


Senza dubbio il rientrato allarme sull’inflazione americana (quella europea sembra quasi inesistente) e il ritorno dei tassi a lungo termine sul Dollaro al di sotto del 3% ha poi scoraggiato la speculazione dal portare avanti indefinitamente le proprie posizioni ribassiste costringendola a ricoprirsi, ma è sufficiente questo fattore a spiegare la corsa di Wall Street del 2,4% in una settimana?

Sicuramente il temuto (almeno in America) surriscaldamento salariale non c’è quasi stato: le retribuzioni medie orarie dell’ultimo trimestre sono cresciute del 2,6% rispetto ad un anno prima, esattamente un decimo della crescita dei profitti netti delle aziende americane nello stesso periodo (+26%), mentre la disoccupazione è scesa al livello record del 3,9%.

Ma la vera notizia degli ultimi giorni sembra essere quella che non ci sono grandi notizie (negative), soprattutto in tema di crescita economica globale:

 

 

 

 

 

 

 

 

Dunque: se nell’economia americana (che fa da traino alle tendenze di tutte le altre) l’inflazione sale meno del previsto, il prodotto lordo prosegue senza scossoni la sua crescita e le tensioni mediorientali non spaventano i mercati ma giustamente li mettono un po’ in allerta, ecco allora che si prospetta un quadro in cui le banche centrali difficilmente accelereranno sulla previsione della risalita dei tassi d’interesse.

Se combiniamo il dato di fortissima crescita dei profitti aziendali con quelli di debole risalita del costo del lavoro e dell’inflazione, con la ricopertura delle posizioni speculative al ribasso e infine con la caduta dei timori di accelerazione della risalita dei tassi di interesse (e della conseguente riduzione della liquidità in circolazione), ecco che la ricetta è completa: i risparmiatori tornano a comperare titoli e fondi azionari e i mercati possono continuare a marciare a gonfie vele, almeno sintantoché la liquidità resterà abbondante !

Non chiedetemi però fino a quando. Non lo sa nessuno, nemmeno gli economisti che continuano a snocciolare (spesso a ragione) dati preoccupanti a proposito dei timori relativi alla fragilità delle economie dei Paesi Emergenti davanti alla risalita di Dollaro e Interessi, nonché nei confronti della presunta maturità del ciclo economico o meglio, come afferma qualcuno più autorevole del sottoscritto, di quella del “ciclo del credito” (e dunque dell’abbondanza di liquidità). Ecco un grafico che mette a confronto i periodi di recessione già vissuti con l’andamento del ciclo del credito:


Sarà anche vero (e dunque pericoloso) ma intanto l’andamento attuale del grafico mostra una maggior similitudine con quello dell’ultimo decennio del 1900 che con il primo decennio del 2000. Ma poi non possiamo non accettare che sino ad oggi sono stati i governi ed i mercati -con i loro “animal spirits”- a mostrarsi più autorevoli degli economisti e questi ultimi, si sa, sono tendenzialmente pessimisti e sicuramente più deboli, dunque finiscono con l’aver spesso torto. Voglio proprio vedere se se la prenderanno con Trump anche per questo motivo!

Stefano di Tommaso