TUTTI VOGLIONO FAR SOLDI CON LA NUVOLA,MA A RENDERLA SICURA ARRIVA IL BLOCKCHAIN

Se vi chiedete qual è il tema più importante nelle aspettative degli analisti finanziari per far soldi in borsa, allora dimenticate l’intelligenza artificiale, le auto elettriche, o la realtà aumentata: tutta roba che fa molto spettacolo ma, dal momento che la grande liquidità disponibile favorisce soprattutto la spesa per investimenti delle imprese che vogliono rinnovarsi ed efficientarsi, ecco che i veri quattrini la maggior parte degli operatori del mercato dei capitali pensano di farli con ciò che è più vicino alle attuali esigenze delle imprese che oggi investono a tutto spiano: la nuvola digitale (detta anche: “cloud computing”).

LA DIGITALIZZAZIONE È IL MAGGIOR SINGOLO CAPITOLO DI SPESA PER INVESTIMENTI DELLE IMPRESE

La digitalizzazione avanza, e con essa crescono le esigenze di infrastruttura informatica delle imprese, che trovano il loro sbocco naturale nell’outsourcing di tutto ciò che non conviene tenere in casa e che può essere fornito da remoto accanto a una miriade di servizi accessori. E se questo è il capitolo di spesa che si prevede crescerà di più nell’anno a venire, è qui che gli operatori vogliono scommettere.

È il medesimo motivo per il quale le più grandi società dell’era digitale, come Apple, Google, Amazon, Alibaba, Tencent e Facebook sono cresciute in borsa per tutto il 2017: si sono soprattutto apprestate a occupare anticipatamente lo spazio di mercato delle piattaforme digitali rivolte alle imprese industriali e commerciali (il “B2B”) ottenendo con questo il consenso degli analisti finanziari.

C’ERANO UNA VOLTA I DATABASE

C’erano una volta i data center e prima ancora i software per la gestione dei database, come ad esempio Oracle, ma avevano uno straordinario limite tecnico (tra gli altri): era difficile accedere loro da telefoni intelligenti e tavolette, cioè dalla rete mobile. Non a caso le società che meglio sperano di posizionarsi per il 2018 (solo per le FAAMG -Facebook Amazon, Apple, Microsoft e Google- si pensa che le vendite in questo settore possano crescere al ritmo di 100 miliardi di dollari nel corso dell’anno) sono proprio quelle che più hanno investito sugli strumenti accessibili da rete mobile.

Con una (grossa) eccezione: “the big blue” (al secolo “IBM” : nell’immagine Virginia Rometty, Presidente e Direttore Generale) il gigante dei mainframes si è già dotata dei più avanzati 60 data center nel mondo ed è fornitrice di buona parte del software di gestione di tutti gli altri servizi cloud nonché ovviamente del “ferro” di buona parte degli altri data center e per di più prima di tutti gli altri ad aver scommesso sulla tecnologia del blockchain per fornire accesso sicuro ai database aziendali, al commercio elettronico e ai servizi remoti di telelavoro, contabilità, gestione del personale, della forza di vendita, delle fabbriche automatiche, eccetera. Addirittura il gigante dell’informatica, che ha appena compiuto 106 anni di vita, sta compiendo una vera e propria rivoluzione copernicana nel favorire la nascita di start-up tecnologiche regalando loro l’accesso gratuito al proprio software di gestione del blockchain per incoraggiare l’utilizzo della propria nuvola.

LA NUVOLA NON SI È DIFFUSA SINO AD OGGI PER TIMORI SULLA SICUREZZA INFORMATICA

Si sa che la remora principale ad adottare servizi sulla nuvola da parte delle aziende e delle pubbliche amministrazioni era stata la problematica della sicurezza di accesso ai dati.

Le frodi informatiche e la ciber-sicurezza sono ancora oggi un tema caldo e molto spesso un vero e proprio mal di testa per chi vuole fare il miglior utilizzo del sistema informatico che gira intorno al “cloud computing” cioè alla digitalizzazione “sulla nuvola” (da remoto): quello estensivo dove tutte le applicazioni e i sistemi gestionali aziendali sono collegati e accessibili da qualsiasi piattaforma.

IL BLOCKCHAIN PUÒ RISOLVERE IL PROBLEMA

Il sistema di registro remoto (diffused ledger) creato con la tecnologia blockchain per assicurare gli scambi sulle criptovalute è la risposta ideale alla domanda di sicurezza aziendale che frenava lo sviluppo del “cloud computing”: il sistema di blocco creato per le criptovalute è considerato sino ad oggi virtualmente inattaccabile e tiene conto di ogni possibile accesso o movimento, documentandolo.

Il mercato dei servizi informatici connessi al blockchain è valso nel suo complesso nel 2016 soltanto 242 milioni di dollari, ma è destinato a toccare quasi gli 8 miliardi di dollari entro il 2022, parallelamente alla stima dell’espansione dei servizi in “cloud” che si stima verrà adottata entro 5 anni dal 55% delle grandi imprese (oltre i 1000 dipendenti) rispetto all’attuale 17% delle stesse, anche a causa del crescente utilizzo dei dati relativi all’Internet delle cose (IOT).
Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso




BORSE: PREVISIONI&CONSIDERAZIONI PER IL 2018

(dopo il crollo del Bitcoin sarà la volta dei derivati?)

Più di un commentatore mi ha fatto notare quanto l’attuale fase dorata dei picchi borsistici che negli ultimi 12-15 mesi ci siamo abituati a vedere sia strettamente dipendente dalla forte liquidità ancora oggi immessa copiosamente in circolazione da parte delle Banche Centrali di tutto il mondo, a partire dalla Banca Centrale Europea.

Negli ultimi tempi ci siamo riposati sull’idea che l’attuale fase di euforia borsistica, per quanto quasi inspiegabile, possa durare per sempre. E che oramai l’andamento dei mercati dipenda da quello (positivo) dell’economia globale e dei profitti aziendali, più che da fattori distorsivi come il Q.E. (Quantitative Easing). Cosa peraltro parzialmente veritiera, dal momento che la crescita economica globale al di sopra del tasso tendenziale del 4%, così sincronizzata tra le principali economie del mondo, ha sicuramente dato fiducia agli investitori i quali, ovviamente, hanno ricambiato la cortesia ai mercati incrementando tanto l’acquisto di asset fisici quanti la loro quota di liquidità investita in strumenti borsistici.

I MERCATI TUTTAVIA HANNO PERFORMATO PRINCIPALMENTE A CAUSA DELLA FORTE LIQUIDITÀ IMMESSA DALLE BANCHE CENTRALI

Ciò che invece dovremmo forse osservare con più attenzione è quanti anni di espansione monetaria ci sono voluti perché gli effetti del Q.E. si trasmettesse all’economia reale: troppi forse, visto che ancora oggi l’inflazione sembra non fare alcun occhiolino nelle statistiche.

Ma questo vuol dire solo una cosa: che adesso che finalmente una crescita economica sincronizzata nel mondo è finalmente arrivata e che non si è ancora manifestata l’inflazione corrispondente all’incredibile volume di nuova liquidità immessa dalle banche centrali in 9 anni di storia (mi pare di aver compreso che siamo arrivati a un totale di 15mila miliardi di dollari), ci troviamo in un momento particolarmente fortunato che, per definizione, non potrà durare in eterno.

Prima o poi vedremo perciò più inflazione, e comunque vedremo gli effetti del surriscaldamento del mercato del lavoro -già in corso in America- con l’innalzamento della paga media e con la riduzione delle aliquote fiscali. Ed è tutta da vedere se a tale innalzamento corrisponderà quello della produttività del lavoro, peraltro finalmente in lieve crescita anch’esso.

IL POSSIBILE CATCH-UP DELLA PRODUTTIVITÀ

Laddove non i due parametri (costo e produttività del lavoro) non pareggiassero, vedremmo quantomeno un po’ di inflazione indotta dalla positiva dinamica salariale, che andrebbe a sommarsi alla manovra in corso di rialzo dei tassi da parte delle banche centrali. Cosa che potrebbe sfociare nella riduzione del valore atteso dei rendimenti finanziari e dunque in una discesa delle quotazioni tanto del mercato azionario quanto di quello del reddito fisso, con ovvi effetti depressivi sulla crescita economica.

Il meccanismo appena descritto non è tuttavia così automatico come si potrebbe ritenere. La crescita dei consumi che si è evidenziata in America nel mese di Dicembre sembra avviata a sfiorare il 5% su base annua, con la componente degli acquisti su internet volata al +18%. Numeri da anni ‘50 e ‘60 del secolo precedente, che ovviamente premeranno verso l’alto l’indicatore della crescita complessiva. E se ciò avviene in America è decisamente probabile che anche negli altri Paesi OCSE sia in corso qualcosa di simile.

L’ATTEGGIAMENTO DEGLI INVESTITORI (PICCOLI E GRANDI)

Eppure una rivalutazione dei corsi dei titoli così fortemente influenzata sino ad oggi dalla crescita della liquidità disponibile qualche dubbio lo pone sulla tenuta dei mercati finanziari nell’anno che si apre. Quantomeno in termini di volatilità, scesa ai minimi storici di sempre negli ultimi mesi e con buone ragioni per farsi rivedere.

È da tempo infatti che gli investitori, sazi degli ampi guadagni portati a casa nell’anno che si chiude, continuano a far ruotare i loro portafogli, così come continuano a selezionare i titoli detenuti sulla base della cassa generata (o della crescita tangibile del loro valore), o infine continuano a cercare opportunità di investimento alternative in ogni possibile direzione.

Chi ha controbilanciato sino ad oggi le loro vendite? Sembra siano stati soprattutto i piccoli risparmiatori con i loro programmi di investimento legati all‘emulazione dell’indice di borsa o a strumenti dei titoli a reddito fisso. Ma questa asimmetria tra grandi e piccoli investitori ha alimentato fortemente lo sviluppo dei volumi dei contratti “derivati” (vale a dire contratti “futures”, opzioni, pronti-contro-termine, eccetera) con tutti i rischi che un’altra bolla speculativa possa esplodere in quel comparto.

Dire che lo scoppio della bolla avrà effetti di disturbo sui mercati é un vero e proprio eufemismo! Al contrario potrebbe non materializzarsi alcun effetto qualora le banche centrali riuscissero a gestire con grande maestria il trapasso da una politica espansiva a una riduttiva, mentre le tigri asiatiche riuscissero a consolidare la loro crescita economica in un contesto di relativa stabilità.

PRUDENZA!

 

Difficile però arrivare ad affermare che quest’ultima, positiva combinazione di eventi, produrrà a sua volta ulteriori cospicui guadagni in borsa o, addirittura sui titoli a reddito fisso. È più probabile che -se tutto andrà bene- essa produrrà stabilità. Ecco dunque che a guardare oltre le nebbie del nuovo anno si pone l’aspettativa di uno scenario più prudente, che continuerà a spingere gli investitori a cercare nuove frontiere per la loro liquidità (peraltro probabilmente calante). È (quasi) altrettanto probabile che, laddove lo scenario non sia così positivo, non si manifesti alcuno scoppio di bolle speculative ma che sicuramente almeno la volatilità inizi a riaffacciarsi (nel grafico l’andamento -sino ad oggi decrescente sino a toccare lo scorso mese il record minimo- dell’indice VIX di volatilità dei mercati).

Discende da queste considerazioni una certa prudenza nel consigliare l’investimento azionario nell’attesa dei prossimi sviluppi, soprattutto a causa del fatto che le prese di beneficio in borsa fino ad oggi le hanno praticate quasi solo i grandi investitori istituzionali. Il risveglio dell’inflazione o la sensazione di qualche scricchiolio potrebbe generare nei secondi un atteggiamento molto meno compassato, pur in presenza di situazioni non catastrofiche.

Stefano di Tommaso




IL DIBATTITO SULLA “NET NEUTRALITY” RIMANDA A QUELLO SUL LIBERO MERCATO

Da noi in Europa sono giunti solo alcuni echi della polemica che infuria in America a proposito dell’abolizione della normativa imposta da Obama che garantiva la “net neutrality”. L’argomento sembra ben lungi dall’essere stato esaurito dopo che l’amministrazione Trump ha preso la sua decisione. Probabilmente per molto tempo ancora se ne discuterà, almeno in America, perché ci sono le elezioni e perché oramai tutto passa da internet e, con l’abolizione di questa normativa, coloro che investono per fornire l’accesso a internet (le società di telecomunicazioni) vogliono guadagnarci di più. Ma la questione non sembra così semplice: ci sono vantaggi e svantaggi a liberalizzare le modalità di fornitura di accesso alla rete. Esistono vincenti e perdenti con la liberalizzazione e, soprattutto, dopo di essa il futuro della digitalizzazione potrebbe essere diverso!

COS’È LA NET NEUTRALITY

Cos’è la net neutrality? È la fornitura dell’accesso a internet così come siamo abituati a conoscerla oggi: lineare. Cioè ogni informazione, che siano messaggi, foto, video o musica (e soprattutto da chiunque provengano e a chiunque siano destinati) passa allo stesso modo e alla stessa velocità, perché a nessuno può essere garantita una velocità maggiore per arrivare all’utente finale: così ad esempio oggi Netflix, Spotify e Youtube hanno sino ad oggi la stessa velocità di qualsiasi altro servizio.

LE CONSEGUENZE DELLA REGOLAMENTAZIONE “ISP” VS. “OTT”!

La normativa sulla net neutrality insomma tendeva ad abolire il “digital divide” (le barriere e le limitazioni -per taluni più decentrati o più svantaggiati- all’accesso alla rete dati), obbligando gli “ISP” (internet service provider, i fornitori di accesso a internet) a garantire le stesse modalità di fruizione dell’accesso a chiunque. Se il vantaggio di tale normativa era evidente, lo svantaggio lo era molto meno: sino ad oggi i profitti di coloro che hanno investito per fornire l’accesso a internet sono stati necessariamente plafonati e, di conseguenza, anche i loro investimenti. Ma ancor meno evidente è il fatto che questa situazione ha -per assurdo- privilegiato i cosiddetti “OTT” (over the top, cioè le grandi multinazionali della “rete”, come le cosiddette “FANG”: Google, Microsoft, Facebook, Amazon eccetera). Non essendo queste ultime obbligate a condividere i loro profitti con gli ISP, se li tenevano tutti per loro.

Risultato: gli ISP guadagnavano poco e investivano ancor meno mentre gli OTT ne hanno largamente approfittato, lasciando che a fare gli investimenti per le infrastrutture fosse qualcun altro. Abolire dunque una normativa che permetteva alle OTT di guadagnare di più equivale evidentemente a dichiarare loro guerra, sortendo l’effetto di riallineare i loro profitti a quelli delle società di telecomunicazioni.

CONSIDERAZIONI SULLA DEREGOLAMENTAZIONE DEL SETTORE

La scelta di abolire la net neutrality lascia invece ampie possibilità di manovra per le società di telecomunicazione (che sono i principali “ISP”, ad esempio in Italia sono gli oligopolisti TIM, Vodafone e Tre-Wind), di diversificare la loro offerta sul traffico dati, frammentando il mercato sul modello delle tv a pagamento. Diviene possibile consentire cioè ai fornitori di contenuti così come agli utenti di taluni servizi di avere maggiori velocità e priorità di accesso rete pagando di più agli ISP. In tal modo gli OTT potrebbero essere messi in condizione di spartire i loro lauti profitti con gli ISP.

Che non si tratti della solita polemica tra “democratici” e “repubblicani” circa la regolamentazione dei mercati lo si capisce dalla portata della questione: se tutto ciò che conta al mondo d’oggi (notiziari, video, musica, informazioni, divertimento, lavoro, contenuti, messaggi e persino la posta certificata) passa dalla “rete”, allora l’accesso alla medesima diviene un bene primario. Come l’acqua da bere. Ed esattamente come per l’acqua, qualcuno dovrà pur investire negli acquedotti, ma al tempo stesso nessuno può essere lasciato libero di esercitare una posizione dominante, alzandone troppo i prezzi o discriminandone il consumo, a pena di disagi sociali e minor crescita economica complessiva.

CONSERVATORI CONTRO LIBERISTI

Detta così (maggior equitá tra i diversi operatori della rete e deregolamentazione del settore) l’abolizione della normativa sulla net neutrality può sembrare una cosa positiva, e forse da numerosi punti di vista lo è. Il famoso Robert Kahn, primario inventore di internet, sostiene che la net neutrality sia in realtà solo uno slogan dogmatico che rallenta la sperimentazione o i miglioramenti nel cuore di Internet. Il punto di vista di Kahn è condiviso peraltro dalla maggior parte degli ingegneri di rete con più lunga esperienza. (nell’immagine di repertorio il presidente USA George W. Bush (a destra) durante la cerimonia di consegna della Medaglia presidenziale della libertà del 9 novembre 2005 a Robert Kahn -al centro- e a Vinton Cerf).

Per fare un paragone caro alla scienza economica, la deregulation di molti settori economici ha permesso lo sviluppo degli investimenti privati mentre la segmentazione dell’offerta ha consentito la moltiplicazione delle opzioni a disposizione del consumatore. Incrementando le offerte e il numero di chi le propone (e dunque anche la competizione) migliora -alla fine dei conti- anche il rapporto prezzo/qualità dei servizi. È in fondo questo il paradigma di base del capitalismo e dunque anche quello dei politici conservatori americani: la liberalizzazione del mercato alla fine diviene un fattore positivo, inducendo più opportunità per chi investe nelle reti di telecomunicazione ma anche più concorrenza, a condizione che quest’ultima venga salvaguardata da una idonea normativa “anti-trust”.

E la speranza che, alla fine dei giochi, lasciando libera l’iniziativa privata, chi ci guadagna sia il consumatore finale, l’uomo della strada, è ciò che concilia l’opportunità per qualcuno di investire di più e fare grandi profitti, con l’obiettivo di fondo del legislatore di trovare un approccio diverso alla necessità di non penalizzare troppo le classi meno agiate: poiché la libera concorrenza agisce da calmieratrice dei prezzi.

DUNQUE UN VANTAGGIO PER TUTTI, MA NEL LUNGO TERMINE

Ecco perché qualcosa che è stato salutato come “la morte di internet” o “la fine della democrazia” in realtà può risultare addirittura in un vantaggio per tutti. Il dibattito sulla mano invisibile della concorrenza che scatena lo sviluppo ma placa al contempo le forze in gioco sul mercato è in realtà una questione antica e mai completamente esaurita.

Quel che bisogna tuttavia sottolineare è che acccanto al dibattito sul liberismo esistono molte e altre considerazioni da andare a dipanare prima di poter concludere i ragionamenti in favore della liberalizzazione. Il libero mercato infatti presuppone che esista una democrazia, le cui regole di fondo non siano facilmente modificabili a piacimento di chi dispone di maggiori risorse finanziarie per influenzare il legislatore e che tale democrazia esprima organismi di controllo capaci di tutelare tanto lo sviluppo della libera iniziativa quanto le pari opportunità per chiunque come infine la mobilità sociale.

IL RISCHIO DI ALIMENTARE IL DIGITAL DIVIDE E LA NECESSITÀ DI EVITARE ABUSI DI POSIZIONI DOMINANTI

Anche un bambino si rende invece conto del fatto che accanto alla libertà di iniziativa e alla possibilità di ottenere ampi ritorni dagli investimenti, ci vogliono anche i controlli da parte dell’autorità pubblica. Nel caso di internet ad esempio, lasciare gli ISP liberi di discriminare tra gli utenti nella velocità di accesso alla “rete” e nella selezione dei suoi contenuti a seconda delle tariffe praticate, rischia di penalizzare le piccole imprese, i giovani, gli studenti, le classi meno agiate e soprattutto gli abitanti delle zone rurali, dove probabilmente non arriva affatto una pluralità di ISP e non esiste una vera diversificazione dell’offerta.

È qui (come direbbe Totó) tuttavia che casca l’asino! Gli Stati Uniti d’America hanno in casa il più importante mercato dei capitali del mondo e possono sperare di promuoverne gli investimenti verso nuove reti di telecomunicazione mobile e di ultima generazione (ad esempio nelle reti cellulari già si parla di quelle di quinta generazione: le cosiddette “5G”) che sorpasseranno in velocità anche quelle fisse e ovviamente anche quelle già esistenti, rendendole obsolete.

Gli sviluppi auspicati dall’amministrazione Trump con questa deregolamentazione sono quelli di stimolare copiosi investimenti infrastrutturali nel,settore delle telecomunicazioni, in particolare di quelle mobili, con un effettivo vantaggio nel tempo a favore di tutti (anche in termini fiscali, dopo l’ultima riforma) dalle ricadute in termini dell’apertura di nuove frontiere tecnologiche nella fruizione dell’interconnessione che tali investimenti potranno generare, soprattutto nel settore della “internet delle cose” (“IOT”).

Gli Stati Uniti d’America sono la più longeva democrazia al mondo e al contempo il Paese con il più alto prodotto interno lordo. Dunque possono parallelamente vantare un’effettiva capacità di intervenire applicando la normativa “anti-trust” al fine di impedire ai fornitori di qualsiasi cosa di mettersi d’accordo tra loro al fine di abusare di posizioni dominanti.

NON È PERÒ DETTO CHE CIÒ CHE PUÒ FUNZIONARE IN AMERICA SIA FACILMENTE APPLICABILE ANCHE ALTROVE NEL MONDO

Il (relativo) timore invece è che, una volta che la strada della deregolamentazione si è aperta in America, subito dopo anche altrove nel mondo sarà considerato lecito articolare l’offerta di accesso alla rete, magari senza -al contempo- stimolare alcuna concorrenza tra gli ISP, dal momento che in molte altre parti del mondo gli oligopoli o addirittura i monopoli nella fornitura di beni e servizi sono considerati cosa normale e i loro tycoon sono talvolta anche a capo dei partiti dominanti (e per questo motivo dettano anche legge). Dove insomma la democrazia non è compiuta e il mercato dei capitali non è sviluppato, il liberismo economico risulta assai pericoloso e, con esso, le sue filosofie.

Si pensi ad esempio ai tre oligopolisti del mercato delle telecomunicazioni in Italia: se essi saranno abilitati a segmentare l’offerta di accesso alla rete sulla base del censo, salirà seriamente il rischio che le classi di popolazione meno agiate risultino anche le più reiette perchè non possono permettersi un costoso accesso alla (futura) rete veloce. Ma in questo caso di chi sarebbe la colpa: delle teorie economiche fautrici del libero mercato o di chi non esercita un adeguato controllo sull’abuso di posizioni dominanti?

Stefano di Tommaso