2018: I TASSI DI INTERESSE SALIRANNO?

Cominciamo col dire che si, con ogni probabilità la Banca Centrale Europea alla fine qualche aggiustamento al rialzo lo farà anche lei, dopo aver esaurito il suo programma di Quantitative Easing e per adeguarsi alla politica monetaria di tutte le altre banche centrali. Ma vediamo perché e cosa succede nel resto del mondo, a partire dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna (due economie fortemente collegate fra loro e dotate di banche centrali capaci di grande autonomia monetaria).

Lo scorso 13 Dicembre Janet Yellen, con l’ultimo atto pubblico del suo mandato in scadenza di Governatrice della Federal Reserve Bank of America, ha alzato per la terza volta nel 2017 il tasso base di rifinanziamento di un quarto di punto, portandolo all’1,5%, ripetendo insieme ai suoi colleghi del Board e al suo successore Powell la volontà di continuare anche nel 2018 con altri tre rialzi. Lo ha fatto nonostante l’assenza di crescita dell’inflazione tenendo dritta la barra del timone sulla rotta che da tempo aveva indicato, sicura che alla fine i fatti le daranno ragione.

LA “FORWARD GUIDANCE”

La Yellen ha praticato forse più di ogni altro governatore la cosiddetta “forward guidance”, indicando cioè ai mercati finanziari, con comunicazioni ufficiali fatte in largo anticipo (molti mesi), le proprie intenzioni sui tassi di interesse e la politica monetaria in generale. Lo scopo di tale prassi è innanzitutto quello di risultare credibile e prevedibile, confermando nel tempo con i fatti la validità delle proprie proiezioni economiche e delle azioni che intende porre in atto. La forward guidance ha peraltro un ruolo fondamentale nel ridurre la speculazione e la volatilità dei mercati e al tempo stesso nel mantenere costante il flusso di finanziamenti che il sistema bancario erogherà all’economia reale.

I fatti che sono accaduti dimostrano che Yellen ha avuto ragione ad avvalersene e, non a caso, nonostante ben tre rialzi, la borsa di Wall Street ha continuato a correre e il prodotto interno lordo americano (ma non solo) è cresciuto più di quanto non accadeva prima del 2008 (negli ultimi mesi siamo al 3,3% su base annua). Lo ha fatto mentre i mercati globali festeggiavano la riforma fiscale USA e le borse asiatiche imitavano i record di Wall Street. Il mercato azionario nel 2017 è corso infatti più di ogni previsione e non stanno materializzandosi le (usuali in questi casi) prese di profitto per archiviare un anno positivo. Ben pochi operatori oggi ritengono di trovarsi nel ben mezzo di una bolla speculativa che sta per scoppiare come invece si riteneva tanto all’inizio dell’anno quanto durante la pausa estiva.

L’ECONOMIA DEI PAESI EMERGENTI CRESCE

Ma la Yellen è riuscita in un altro capolavoro: quello di effettuare manovre sui tassi credibili, composte e prevedibili senza far impennare il cambio del Dollaro o provocare un risucchio di capitali dai Paesi Emergenti, non contrastando dunque la loro ripresa economica che tanta parte ha avuto nella crescita dei profitti delle principali aziende multinazionali americane quotate a Wall Street. La Banca Mondiale ha infatti rivisto al rialzo le previsioni per la crescita economica della Cina nel 2017, al 6,8% dal 6,7% di ottobre. Nel 2018, la Cina probabilmente supererà addirittura le previsioni. Anche quelle per la sua valuta, il renminbi, sono migliorate, contrastando dunque le attese di ulteriori fuoriuscite di capitali e tensioni conseguenti sul cambio. Il rialzo di cinque punti base della banca centrale cinese sulle operazioni di reverse repo e quello sui tassi a 1 anno per i prestiti ha costituito un segnale restrittivo per le politiche monetarie future e si è coordinato con i segnali lanciati dalla FED.

Sono state diffuse al momento ben poche previsioni relative alla crescita mondiale nel 2017 ma la mia aspettativa è che si collocherà vicino ad un tasso del 4%, il più alto anch’esso da molto tempo a questa parte.

SINCRONISMI E CONCOMITANZE MONETARIE E FISCALI NON POTRANNO CHE STIMOLARE ANCHE L’INFLAZIONE

Difficile affermare che sia merito di qualcuno in particolare, ma sicuramente gli economisti concordano nel sostenere che buona parte del merito sia dovuta alla “sincronicitá” delle politiche monetarie e, di conseguenza, della reazione delle maggiori economie globali. Un secondo importantissimo motivo della crescita e dell’euforia dei mercati riguarda poi la quasi assenza di inflazione e tensioni salariali, imputandole alla forte innovazione tecnologica e al succede commercio elettronico, che ha fatto crescere la produttività del lavoro e incrementato le importazioni dirette dai paesi emergenti (Cina innanzitutto).

Anche la Banca d’Inghilterra (la Banca Centrale Britannica) ha finalmente innalzato di un quarto di punto il tasso base, in Novembre, ma questa lo ha fatto dopo aver rilevato che le statistiche indicano una crescita dell’inflazione oltre il 3%, superiore alle aspettative e a valle di un successo (o almeno percepito tale) sul negoziato con l’Unione Europea relativo alla fuoriuscita del Regno Unito. La Sterlina peraltro ha tenuto relativamente bene, nonostante le cornacchie del disastro che sarebbe dovuto accadere con la Brexit e anzi, adesso che il negoziato è terminato ci aspetta anche in Gran Bretagna uno stimolo fiscale che tenderà a sopperire all’assenza di quello monetario.

Anche da un punto di vista fiscale la recente manovra di riduzione delle aliquote che è in corso di definizione al Congresso Americano e quella che -a breve- verrà avviata dalla Gran Bretagna, dovrebbero dare ulteriore impulso agli investimenti, ai mercati finanziari e, in definitiva, anche all’economia reale. Tutto ciò però non potrà lasciare a lungo il tasso di inflazione dei prezzi così basso come lo vediamo oggi, non potrà non avere effetti sulla dinamica salariale e non potrà non riflettere l’attesa di rendimenti migliori sugli investimenti effettuati (immobili compresi), cosa che alla fine andrà ad impattare anche sui saggi di rendimento dei titoli obbligazionari.

EFFETTI MODERATI MA NON ASSENTI

Quanto è prevedibile che ciò possa trasmettere volatilità e incertezza sui mercati finanziari? Molto poco, verrebbe da dire, a meno che non si sommino ai tipici effetti del surriscaldamento delle economie anche altri fattori, come taluni strappi sui prezzi delle materie prime, piuttosto che eventuali nuove tensioni geopolitiche. Certo il 2018 si preannuncia carico di buoni eventi ma anche di possibili imprevisti.

Tuttavia è difficile pensare che il percorso di aggiustamento dei tassi di interesse verso l’alto verrà interrotto, tanto per effetto della politica monetaria quanto per il progressivo aggiustamento verso l’alto dei tassi a più lungo termine che, dalle economie anglosassoni, si trasferiranno anche a quella dell’euro-zona e a quelle asiatiche, forse le più esposte ad ulteriori tensioni inflattive.

Alla fine dell’anno magari, ma anche a casa nostra non potremo non sperimentare un progressivo aggiustamento verso l’alto dei tassi di interesse, oggi tenuti a bada anche dalla forza della Divisa Comune e dalla conseguente pressione al ribasso sui rendimenti.

Stefano di Tommaso

 




IL SUCCESSO DELLA “PET ECONOMY”

Abbiamo assistito negli ultimi anni ad un poderoso sviluppo dei cosiddetti “Pet Shop”, vale a dire dei negozi specializzati nel cibo e negli accessori per gli animali domestici. Non soltanto sono comparse un po’ ovunque pubblicità e nuove insegne, tanto quelle di catene di negozi specializzati (tra i più famosi: Arcaplanet, Maxi Zoo, Fortesan e L’Isola dei Tesori, i quali da soli totalizzano quasi 500 punti vendita in Italia), quanto di singoli negozi specializzati (sono quasi 5000 in Italia), ma anche nella Grande Distribuzione è impossibile fare a meno di notare l’espansione degli scaffali che espongono gli stessi articoli.

UN FENOMENO SOCIOLOGICO

Il fenomeno sociale della diffusione degli animali domestici nelle famiglie corrisponde ad una forte crescita del mercato di cibi e articoli per cani, gatti, uccellini, roditori, tartarughe e molte altre diverse tipologie di piccoli compagni domestici, proprio nel medesimo periodo in cui i consumi complessivi nazionali sono sostanzialmente rimasti piatti.

Cosa succede ? Noi italiani ci siamo riscoperti animalisti convinti? Oppure stiamo soltanto allineandoci ad una tendenza globale che riguarda i Paesi economicamente più sviluppati? Poiché nella sola Europa è stimato che vivano nei 75 milioni di famiglie oltre 200 milioni di animali domestici (rapporto ASSALCO-ZOOMARK 2017), è vera senza dubbio la seconda ipotesi, per quanto non si possa esprimere alcun nesso prevalente tra livello del reddito e numero di animali adottati nelle abitazioni: per esempio nella sola Russia pare convivano nelle abitazioni quasi 22 milioni di gatti e 16 milioni di cani!

Per continuare con i numeri europei, i gatti sono senza dubbio la specie maggiormente diffusa, con più di 70 milioni di esemplari, circa il 35% del totale, mentre i cani sono più di 62 milioni, cioè il 31%. La Francia è il paese con il maggior numero di felini: 12,6 milioni, record assoluto rispetto agli altri Paesi comunitari più popolati dai gatti, ovvero Germania (11,8 milioni). Per quanto riguarda i cani, il Regno Unito è la nazione che ne ospita di più, con 8,5 milioni di esemplari, seguito a breve distanza da Francia, Italia e Germania (rispettivamente 7,3 milioni, 7 e 6,8 milioni di cani).

Nei 25,8 milioni di famiglie degli Italiani pare peraltro vivano oltre 60 milioni di animali (vale a dire 2,3 per ogni famiglia, con il 58% delle quali ha un solo animale domestico, il 20% ne ha un paio, mentre il 14% ne possiede 4 o più), con una forte prevalenza dei pesciolini (quasi il 50% del totale) cui fanno seguito quasi 13 milioni di uccellini (oltre il 21% del totale), 7milioni e mezzo di gatti e quasi 7 milioni di cani. I Pet sono visti meglio dalle famiglie con più di 3 componenti (oltre il 54% ne ha almeno uno) e dalle persone più mature: dai 45 ai 64 anni d’età quasi metà degli italiani ne ha almeno uno, mentre il 24% degli Italiani anziani (dai 65 nei d’età) convive con almeno un animale.

I NUMERI DELLA PET ECONOMY IN ITALIA

La presenza degli animali domestici genera dunque non soltanto un cospicuo fenomeno sociale che andrebbe analizzato forse meglio di quanto si è visto e letto sino ad oggi, ma soprattutto determina una serie di consumi che sono arrivati a pesare non poco nel bilancio domestico.

Solo per ciò che riguarda il cibo, il mercato italiano risulta dominato dalle vendite di alimenti per cani e gatti con un giro d’affari di quasi 2 miliardi di euro, per un totale di 559.200 tonnellate commercializzate.

Se lo suddividiamo per Area Geografica (2016), l’Italia Settentrionale con il 52,8% copre oltre la metà del mercato nazionale complessivo, mentre al Centro Italia e in Sardegna gli alimenti per animali sono venduti per il 28,4% del totale. Infine il Sud Italia, con il 18,7%, si caratterizza per la più bassa penetrazione di cibo confezionato per gli animali, oltre che per la ridotta copertura del territorio da parte delle principali catene nazionali di Pet Shop.

Supermercati e Ipermercati risultano il canale di vendita più diffuso per il cibo “Pet” (46,3%), seguiti dagli altri supermercati (10% circa), dai negozi tradizionali specializzati (31% circa) e dalle catene di Pet Shop (7% circa), le quali però sono in forte crescita

Quasi trascurabile appare l’incidenza della spesa per accessori per animali (poco più di 72 milioni in valore nel 2016 rispetto ai quasi 2 miliardi di euro per il cibo), sebbene in crescita decisa. Nonostante le cifre sopra esposte, il mercato del cibo per animali domestici (Pet Food) è atteso in crescita anche per i prossimi anni, soprattutto per gli “snack” per cani e gatti ma ci si aspetta una contrazione del mercato degli «alimenti per altri animali da compagnia».

Da notare però che, nonostante gli «altri» pet rappresentino in Italia circa l’80% della popolazione di animali domestici, il relativo mercato a valore corrisponde a meno dell’1% del totale ed è quindi poco significativo. Sia la Grande Distribuzione che le catene di Petshop presentano trend positivi, soprattutto per quanto riguarda i volumi di vendita di Food. Al contrario, i Petshop tradizionali tendono ad accordarsi e a perdere quote di mercato.

Per il prossimo futuro la direttrice principale del trend positivo è da identificare nella maggiore attenzione dei proprietari nei confronti della cura (è in crescita verticale, sebbene ad oggi di proporzioni trascurabili, il fatturato dei servizi di toelettatura) e della salute dei propri animali, e quindi nella spesa per i veterinari e nella scelta dei prodotti dedicati, dal momento che è stato dimostrato che gli animali nutriti con cibo specializzato prodotto in forma industriale vivono mediamente quasi il doppio di quelli alimentati con gli avanzi della tavola.

Poiché la pet economy è cresciuta nonostante la recente crisi dei consumi ed è attesa in ulteriore crescita, è evidente che il fenomeno attrarrà anche nuove risorse finanziarie, forti sviluppi nelle catene distributive, con la progressiva aggregazione dei negozi singoli in catene specializzate e la crescita del commercio online dei prodotti per la cura degli animali, che ancora oggi rappresentano una frazione infinitesimale dei volumi totali.

Stefano di Tommaso 




È UNICREDIT LA BANCA UNIVERSALE ITALIANA

Mai peggior “bufala” è stata proposta all’economia italiana di quella della “banca universale” concepita qualche anno fa dalla Banca d’Italia dei tempi di Fazio&C. Ai tempi si pensava che il modo migliore per sottoporre a controlli e salvaguardie le attività finanziarie fosse quello di farle passare piu o meno tutte obbligatoriamente da un’autorizzazione bancaria. Si pensava, o c’era una decisa convenienza a che ciò succedesse e a che la maggior parte delle attività finanziarie non controllate dalle banche maggiori finissero nelle mani di queste ultime, pesantemente asservite alla politica. Ma almeno ai tempi c’era ancora un residuo di concorrenza tra i diversi istituti bancari nazionali e stranieri. Oggi non c’è più nemmeno quella e si è visto quanti miliardi (di future tasse) è costata al popolo italiano la scorribanda della politica nella governance delle banche!

LA PREVALENZA DEL MERCATO DEI CAPITALI SIGNIFICA L’ARRIVO DI FINTECH E L’ADDIO ALLA BANCA UNIVERSALE

Più tardi degli altri, l’Italia ha capito che il sistema finanziario nazionale non poteva andare contro la corrente principale degli eventi, che è quella segnata dal mondo anglosassone, dove la maggior parte dei servizi finanziari alle imprese arrivano dal mercato dei capitali, e le banche svolgono solo specifiche funzioni di raccolta dei depositi e di agenti di pagamento, mentre addirittura molte forme di credito finalizzato sono erogate da soggetti specializzati, come le società di credito al consumo, quelle di leasing o di factoring. Anche talune attività di raccolta dei risparmi sono svolte (spesso anche meglio) da società di gestione del risparmio che possono essere completamente indipendenti dalle banche e che impiegano sempre meno personale esecutivo.

Insomma il mondo finanziario oggi si fraziona, si specializza, si dematerializza e si virtualizza, ma soprattutto viene dominato dal mercato dei capitali, sempre più interessato a finanziare anche le imprese e la loro crescita, i progetti e le opere pubbliche, il credito al consumo e il real estate, come forma di diversificazione rispetto al mero acquisto in borsa di titoli azionari e a reddito fisso.

Sul fronte bancario, d’altronde sino a qualche anno fa i requisiti di capitale e di tracciamento dei rischi effettivi erano molto più bassi, dunque le banche potevano contare su un deciso vantaggio competitivo rispetto agli investitori istituzionali e professionali attivi sul mercato dei capitali. Per questi ultimi ad ogni investimento a reddito si è sempre dovuto associare a un rating esplicativo del relativo rischio, mentre per le banche il tema era decisamente più sfumato. Dunque il mercato dei capitali già ragiona da tempo come stanno imparando a fare le banche .

L’INFLUENZA DI BASILEA E LA STRATEGIA VINCENTE DI UNICREDIT

Poi, dopo la crisi del 2008 (e dopo tutto quello che ne è conseguito) sono arrivate le normative di Basilea (1, 2 e 3), che hanno richiesto di applicare un differente approccio al tema dei rischi e, di conseguenza, di capitalizzare adeguatamente chi intende fare business erogando credito. L’impatto è stato tremendo, ma soprattutto sembra oramai evidente che la necessità di definire meglio rischi e rendimenti nel settore del credito non può che portare ad un deciso restringimento generale della presenza delle banche sui mercati finanziari. Oppure no?

È davanti agli occhi di tutti la performance meravigliosa della banca guidata da Pierre Mustier, con crescite a doppia cifra tanto della marginalità quanto della quota di mercato, ma (abbastanza stranamente) non mi è sembrato di trovare grandi consensi nel fornire una risposta alla questione del segreto del suo successo.

Mustier è un forte comunicatore, capace di ripetere all’infinito slogan semplici e “perforanti”, dissimulando bene ciò che non è parso ai più come una vera e propria rivoluzione copernicana: Unicredit ha scelto (a differenza di quasi tutti gli altri) di concentrarsi sul “core business”, tornando a “fare banca” e gradualmente riducendo la sua presenza sui mercati mobiliari e su tutte le altre attività che non sono strettamente “core”. Questo gli ha permesso sinanco di espandersi e il mercato lo ha premiato.


Le citate attività strettamente “core” per UniCredit significano una cosa sola: ottenere commissioni più alte nelle aree di mercato meglio presidiate dalla banca (raccolta, corporate e servizi correlati), limando invece i costi e la prosecuzione delle altre attività che generano significativi impieghi di capitale per tornare ad essere percepita non solo come la banca più performante sotto le Alpi, ma anche quella meno a rischio.

IL RISCHIO ITALIA PERCEPITO DAGLI INVESTORI

Eh, già. Il fattore rischio – se chi lo valuta è seduto fuori dei confini nazionali- è forse il tema principale quando si valuta di acquistare titoli emessi da aziende italiane! Mustier è riuscito a far crescere la credibilità di UniCredit nei confronti della Banca Centrale Europea e delle altre autorità continentali cogliendo prima degli altri un angolo essenziale per far crescere il valore d’impresa percepito dai suoi azionisti: quello del rischio.

Ovviamente per farlo ha dovuto fare emissioni “monstre” di titoli sul mercato diluendo fortemente i vecchi azionisti e ha dovuto scaricare dai bilanci una montagna di crediti non performanti anche a scapito di qualche buon affare lasciato a terzi. Ma ha ottenuto in cambio la credibilità che quasi nessuna altra banca italiana ha in Europa e oggi nessuno più crede davvero che UniCredit nasconda altri significativi disastri tra le pieghe dei suoi libri contabili, a differenza di tutte le altre banche. E c’è da scommettere che continuerà a liberarsi ancora di crediti di dubbia sorte per rafforzare questa convinzione e accreditare il suo ambizioso piano industriale che lo vede esprimere performance e solidità a due cifre nel 2019.

I titoli bancari italiani sono chiaramente -e persino giustamente- sottovalutati in ragione del fatto che il Paese resta a rischio di collasso del suo debito pubblico (che continua a crescere) e che il settore bancario viene conseguentemente visto a rischio (anche) in quanto detentore di grandi quantità di titoli di Stato. Negli ultimi cinque anni le plusvalenze che questi hanno generato hanno contato non poco nel risanamento di buona parte degli istituti di credito, ma oggi tutti si rendono conto del fatto che prima o poi la liquidità in circolazione si ridurrà e i tassi saliranno (non molto, ma lo faranno). E quando l’acqua alta scenderà chi è rimasto nudo verrà allo scoperto.

UN TITOLO “DIFENSIVO”, CHE POTREBBE PASSARE ALL’ATTACCO


Viceversa per UniCredit l’eventuale azzeramento di 17 miliardi di euro di assets “non performing” che residueranno nella non-core bank a fine 2019 avrebbe l’effetto di portare l’Npe ratio del gruppo al 5%, in linea con la media europea e ben al di sotto del livello italiano (14%), di azzerare le perdite della medesima non-core bank (più di mezzo miliardo l’anno). Ciò contribuirebbe al re-rating del titolo con un multiplo prezzo/capitale tangibile che dalle 0,7 volte attuali dovrebbe avvicinarsi a 1 volta, con un apprezzamento potenziale del valore del titolo del 40% .

Dunque oggi la quotazione di UniCredit resta relativamente “sobria” nei portafogli degli investitori, perché la banca ancora deve dimostrare che realizzerà il suo piano e appartiene a un settore economico visto con diffidenza e perché ha sede in Italia. Nonostante la “pro-ciclicità” del settore bancario perciò esso resta un titolo difensivo con un ottimo potenziale.

UN’ACQUISIZIONE IN ARRIVO?

Ed è qui che volevo arrivare: un Amministratore Delegato che sembra aver finalmente deciso di lavorare sul valore dell’UniCredit per i suoi azionisti con ogni probabilità non appena se lo potrà permettere procederà a fare acquisizioni di altre banche al di fuori dell’arco alpino, per uscire da queste limitazioni e godere di multipli più elevati. Non c’è dubbio infatti che se la banca fosse a Francoforte i suoi moltiplicatori risulterebbero migliori!

Forse è questa l’accezione dell‘aggettivo “universale” che Mustier vede meglio accanto al sostantivo “banca”! In senso geografico, non in quello di voler fare di tutto un po’… Ne è corsa di acqua sotto i ponti dai tempi del governatore Fazio e dei suoi slogan corporativi. E ci voleva un transalpino perché qualcuno se ne accorgesse!

Stefano di Tommaso




A GLOBAL SHIFT

Era parecchio tempo che non mi capitava di commentare una situazione economica globale tanto positiva quanto contrastata come quella attuale. Se pensiamo ai mercati finanziari sembra di guardare il mondo dalla cima di una montagna: non si potrebbe essere più in alto ma è anche questo il problema, visto che adesso potrebbe iniziare la discesa. Se invece guardiamo alla crescita dell’economia reale, non si può che prendere atto dei decisi miglioramenti a livello globale, con un andamento positivo uniforme un po’ in tutto il mondo. Se vogliamo infine riferirci alle variabili che più interessano l’uomo della strada (reddito disponibile, debiti, uguaglianza sociale, sicurezza e previdenza) allora notiamo se non dei passi indietro comunque non grandi progressi dopo la crisi del 2008. Eppure sono solo facce diverse del medesimo mondo che stiamo vivendo.

LA RIMONTA DEGLI EMERGENTI

Un mondo per molti versi migliore e nel quale iniziano a divenire attori globali molti Paesi Emergenti che sino a ieri costituivano solo una piccola parte dell’economia globale. D’altronde sono loro i veri protagonisti dell‘impennata dello sviluppo economico che stiamo vivendo. Senza la loro avanzata il mondo occidentale si sarebbe probabilmente addormentato in una sorta di “stagnazione secolare”, principalmente a causa della flessione demografica.

Una macro-tendenza globale invece di portata storica come quella in corso sta cambiando il panorama finanziario e persino gli equilibri geopolitici. In testa la Cina, ovviamente, che si prepara ad essere la più grande economia del pianeta (lo sarebbe già stata dal 2012 se la sua divisa -il renminbi- non si fosse ripetutamente svalutata nei confronti del dollaro). Ma in generale l’intero continente asiatico è quello con maggior slancio, forte innanzitutto della crescita demografica (quasi cinque miliardi di abitanti, nove volte la somma dei cittadini d’America ed Europa) e poi del pesante interventismo di stato, che spinge da anni sugli investimenti produttivi e sulla ricerca tecnologica. In Asia è poi anche il Giappone, la terza potenza economica mondiale e la più avanzata del continente dal punto di vista tecnologico.

Se le tendenze in corso continueranno immutate ci avviamo a vivere un periodo di “contro-colonialismo”, nel quale il vecchio continente (e forse anche quello americano) saranno presi d’assedio da ricchi immigranti e colossi commerciali.

Oggi gli indici dello sviluppo delle piccole e medie imprese, quelli della produzione industriale, degli ordinativi all’industria e persino quelli del commercio globale sono tornati ai massimi da molti anni addietro. L’accesso al credito e il suo costo limitato hanno spinto gli investimenti e la nuova ondata di digitalizzazione ha sorpreso per quanto si sia introdotta meglio nei Paesi Emergenti che non avevano le sovrastrutture occidentali. Ma soprattutto sono gli investimenti che sembrano essere letteralmente decollati in quei Paesi.

IL SUCCESSO DEL QUANTITATIVE EASING

Gli ultimi otto anni hanno visto i Paesi Anglosassoni avventurarsi con un certo successo nelle politiche di espansione monetaria operate dalle banche centrali dopo la recessione innescata nel 2008 dal collasso dei mercati finanziari, quantomeno nel far tornare a crescere le quotazioni e la liquidità di quei mercati finanziari. Hanno avuto invece minor successo nel trasmettere tale impulso all’industria e ai commerci, e hanno registrato un’indubbia tensione a livello sociale perché quelle operazioni di acquisto di titoli sul mercato aperto hanno favorito i grandi detentori di capitale finanziario e indirettamente alimentato la disuguaglianza sociale senza essere accompagnate da politiche di perequazione dei redditi da parte dei governi di praticamente ogni paese OCSE, che anzi hanno perseguito impostazioni neo-liberiste.

Anni dopo che quasi il mondo intero aveva perseguito politiche di espansione delle masse monetarie anche i Paesi dell’Eurozona e la sua banca centrale si sono finalmente avventurati in manovre similari e il risultato sembra essere estremamente positivo anche qui.

IL LENTO TRAVASO DAI MERCATI FINANZIARI ALL’ECONOMIA REALE

La speranza è che però la risoluzione del problema sociale, in ritardo ma alla fine arrivi nella catena di trasmissione della liquidità dai mercati finanziari all’economia reale. Questa speranza deriva dalla constatazione che un po’ dappertutto la disoccupazione è in deciso ribasso mentre la dinamica salariale è in moderato aumento.

Ma soprattutto essa deriva dalla crescita industriale in corso, che avviene quasi in assenza di inflazione e con la prospettiva di un deciso incremento della produttività del lavoro a causa del diffondersi dei processi di automazione industriale e della progressione della digitalizzazione, con la riduzione dei costi e dei ritardi della distribuzione di beni, servizi e informazioni.

Ovviamente non fila tutto così liscio come potrebbe apparire leggendo frettolosamente una sintesi estrema come quella appena delineata, per esempio a proposito dell’inflazione, dal momento che non è così chiaro per quali motivi essa si è mantenuta bassa. Al di là delle arcinote motivazioni relative all‘avanzamento dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale, esistono anche questioni più prosaiche circa i prezzi della manodopera, delle materie prime e dell’energia.

I prezzi in questione per esempio adesso stanno salendo anche oltre le aspettative più recenti, sebbene siano in molti a giurare che non ci saranno gravi tensioni per gas e petrolio e che, di conseguenza, nemmeno i prezzi delle altre principali commodities potranno correre troppo

Sicuramente però le tensioni superficiali di quei prezzi riflettono la crescita dei prodotto globale lordo, così come ci si chiede pure quand’é che i mercati finanziari inizieranno a tenere conto (ridimensionandosi) delle innegabili tensioni geopolitiche che emergono un po’ dappertutto. L’esplosione anche solo di qualche conflitto locale può oggettivamente rovinare la festa della crescita economica generalizzata e interrompere quella lenta trasmissione all’economia reale dei benefici effetti della liquidità dei mercati finanziari. Sono questi i motivi di cautela dei banchieri centrali nel fare marcia indietro dopo la stagione del Quantitative Easing, insieme alla necessità di attendere ancora per riuscire a vedere annacquato il potenziale esplosivo dell’eccesso di indebitamento globale attraverso la progressione dell’espansione economica e della monetizzazione dei debiti pubblici.

UN FUTURO POCO AGITATO PER I MERCATI FINANZIARI 

Questa necessità di attendere è anche un’ottima notizia per i mercati borsistici: se la liquidità in circolazione non farà marcia indietro tanto in fretta allora i mercati troveranno qualche ostacolo in più verso la discesa, mentre molto investitori professionali si riposizionano sul reddito fisso abbassando i tassi impliciti dei titoli che comperano e dunque in contrasto con il rialzo dei tassi d’interesse che invece si prepara da parte di principali banchieri centrali. Storicamente l’appiattimento della curva dei tassi (normalmente inclinata positivamente per le scadenze più lontane) è stato un segnale di inversione del ciclo economico, ma questa volta non è detto che succeda ancora, almeno non così presto.

Ci vorrà probabilmente tutto il 2018 perché qualcosa cambi davvero sui mercati. Una pacchia per chi ha già investito in borsa, ma non c’è nemmeno da attendersi grandi progressi per i listini globali, a causa delle molte nuvole all’orizzonte, seppure lontane e probabilmente assai depotenziate.

Se al tempo stesso in cui i mercati tenderanno a flettere l’economia globale e soprattutto i Paesi Emergenti avranno continuato a correre, di crisi vere e proprie sui mercati finanziari non si parlerà ancora per lungo tempo!

Stefano di Tommaso