AAA OTTIMISMO CERCASI

Sui mercati finanziari europei aleggia il fantasma di una nuova ondata di pessimismo. Non dipende da un fattore in particolare, bensì da una “sfortunata serie di eventi” come titolava Lemony Snickets (pseudonimo di Daniel Handler) in una fortunatissima serie di romanzi dark per ragazzi. Se però numerosi indizi fanno almeno una prova ecco che si fa avanti l’idea che per il vecchio continente il clima di generale ottimismo possa essere repentinamente cambiato.

 

LE BANCHE RISENTONO DELLA SFIDUCIA

Se vogliamo cominciare dal settore bancario, forse di incidenti ne scorgiamo più di uno, a partire dal fallimento del Banco Popular, salvato in Giugno dal Santander (che ha permesso di risparmiare i depositanti) ma dove il buco per azionisti e obbligazionisti “junior” è risultato pari a 37 miliardi di euro, il doppio delle popolari venete.

Ed esattamente come nel caso di queste ultime, se la normativa europea può adattarsi alle circostanze (in funzione degli interessi commerciali e strategici di questo o quel paese che la domina) invece di risultare un baluardo di certezza, ecco che il resto del mondo torna a guardare i nostri mercati finanziari come noi normalmente apostrofiamo quelli del sud-America !

LA NUOVA NORMATIVA SUI NON PERFORMING LOANS

Il recente “giro di vite” della Banca Centrale Europea sui crediti deteriorati infatti sicuramente non ha riempito di gioia chi aveva appena rotto gli indugi ed era tornato a investire sulle banche europee, perché esso obbliga queste ultime a coprire entro sette anni con nuove risorse di capitale le perdite sugli NPL (non performing loans), ma soprattutto le obbliga a coprire entro due anni i crediti deteriorati di più recente formazione. Di fatto la BCE sta comunicando alle banche europee che devono raccogliere più capitale e l’effetto silurico sulle quotazioni delle medesime risulta ovvio persino a un bambino.

Preoccupanti anche le nuove stime circa l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati in Europa: si presume che essi superino i mille miliardi di euro nominali, by-passando dunque la speranza che la normativa potesse non affliggere più di tanto il mercato dei capitali.

I TASSI CRESCONO

Se non vogliamo proseguire con l’ovvia elencazione di sfortunate coincidenze che sono culminate nella quasi-guerriglia urbana di Barcellona, ecco che un altro fattore di “attenzione” torna alla ribalta: i tassi impliciti sul mercato dei bond (che non rendono più quasi nulla) stanno tornando a crescere, in particolare in Italia (vedi grafico), rovinando la festa alle quotazioni del mercato dei titoli a reddito fisso (bonds) che devono quindi riallinearsi verso il basso.


Paragoniamo per un attimo i nostri mercacon quello americano: l’indice curato da Merril Lynch sui bond europei ad alto rendimento ci segnala un tasso medio di ritorno del 2,3%. Esattamente il medesimo dei titoli di stato americani a dieci anni. Ora, cambi valute a parte, voi quale preferireste tra i due rischi?

Il punto è che la BCE ha incentivato l’acquisto di obbligazioni aziendali in Europa da parte degli investitori istituzionali, anche per lasciarle libero il mercato dei titoli di stato sul quale l’offerta iniziava a scarseggiare in presenza del programma di acquisti noto comunemente come Quantitative Easing, tutt’ora in corso. Ovviamente tutti si chiedono quando finirà cosa succede al mercato e, nel dubbio (che è quasi una certezza) arrivano le prese di beneficio.

LE BORSE EUROPEE SONO SATOLLE


Se vogliamo infine porre la ciliegina sulla torta l’indice di borsa EuroStoxxs è cresciuto, da un anno a questa parte, dell’80% lasciando spazio a più di una vendita per realizzare i profitti accumulati soprattutto da parte di quegli investitori asiatici che avevano puntato a guadagnarci ben due volte: con le borse e con il cambio delle valute. Anche quest’ultimo ha arrestato la sua corsa e adesso si parla di tornare a rivalutare l’Euro solo a partire dal nuovo anno (una boccata d’ossigeno per l’Italia).

Si è anche visto con le prese di beneficio occorse nel primo giorno di quotazione della Pirelli: il più grande collocamento di sempre della Borsa Italiana ha lasciato un po’ tutti con la bocca amara. Fosse passato qualche altro giorno magari sarebbe stato addirittura rinviato!

Sappiamo anche che le attese per un lieve recupero del prezzo del petrolio e dei “consumabili” energetici (gas, carbone, ecc…) non faranno piacere all’industria del vecchio continente e che il record di esportazioni europee (che aveva favorito soprattutto le imprese cisalpine) raggiunto nella prima parte del 2017 non è destinato a durare nel tempo, anche a causa del cambio contro dollaro, che a partir dall’inizio dell’estate ne ha peggiorato la competitività.

NUOVI RATING ALL’ORIZZONTE?

Manca solo il “colpetto” decisivo delle immancabili puntate autunnali delle agenzie di rating sui mercati europei (tutte rigorosamente americane) perché i medesimi tornino a ridimensionarsi in maniera più consistente, ancora una volta a favore di quelli d’oltreoceano. È la legge del più forte (lo Yankee), che alla fine vuole il bottino maggiore sui mercati.

Sarebbe lui il conte Olaf dell’arcinota serie di romanzi di Lemony Snickets? Come diceva sempre il Divo Giulio quando gli facevano domande cattivelle: “a pensar male si fa peccato, però…

Stefano di Tommaso

 




NEL “VOLARE VERSO LA QUALITÀ” IN BORSA TORNA DI MODA LA “BONDIFICATION”

Nonostante la speculazione pura abbia negli ultimi mesi preso il sopravvento sugli investitori razionali nel guidare le tendenze della maggior parte dei listini di borsa nel mondo, in realtà esiste un numero elevatissimo di “cassettisti” che investono anche in titoli quotati ma restano pur sempre alla ricerca di un reddito.La maggioranza di questi non è più in forma individuale ma è oggi rappresentata da investitori professionali o da “family offices” che perseguono il medesimo obiettivo di ottenere dall’investimento sul mercato mobiliare un reddito più o meno costante derivante da cedole e dividendi, anche attraverso sofisticate politiche di investimento come appunto la “bondification”.

I rendimenti pagati dai titoli a reddito fisso sono oramai ridottissimi da anni, a causa del livello quasi pari a zero dei tassi di interesse e, per quel che si può ritenere guardando alle politiche monetarie perseguite dalle banche centrali di tutto il mondo, è probabile che tali politiche proseguano ancora per molti mesi se non per anni.

Questo il motivo per il quale già da un paio d’anni gli investitori che rimangono nei loro orientamenti fortemente avversi al rischio e sostanzialmente alla ricerca di un reddito derivante dal proprio capitale per pagare alle scadenze dovute pensioni, annualità o o anche solo le bollette e le spese domestiche, hanno alla fine adottato politiche di “bondification”, cioè di sostituzione dell’investimento obbligazionario con quello azionario sperando di poter trovare un’alternativa all’investimento in titoli a reddito fisso definendo una particolare composizione del portafogli di titoli azionari di elevata solidità e caratterizzati da elevate politiche di dividendi.

VANTAGGI E SVANTAGGI

Un portafoglio azionario selezionato sulla base della classe di rischio (basso, evidentemente) e sulla capacità di elargire dividendi, invece che sulla base della differenziazione delle tipologie di investimento, può raggiungere l’obiettivo di perseguire minor rischio e importanti capacità di generare reddito ma può mostrare anche maggior dipendenza nel suo comportamento dall’andamento di taluni comparti industriali che esprimono i titoli che pagano più dividendi.


Cioè la selezione di titoli sulla base della bondification può avere un secondo aspetto negativo oltre evidentemente ad essere meno suscettibile di forti rivalutazioni (in quanto meno “pesato” sui titoli a forte crescita): questo secondo aspetto consiste nella minor diversificazione geografica e settoriale, perché i “dividend aristocrats” -come vengono chiamati- sono pochi e sono principalmente legati ai settori dal ciclo di vita più maturo.

Inoltre sino ad oggi le migliori soddisfazioni a chi investe in borsa sono arrivate soprattutto dai titoli tecnologici a grande capitalizzazione (si veda in proposito il grafico). Nulla garantisce che il trend non possa continuare esattamente come è stato sino ad oggi.

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI

Il punto però è che in momenti come questo, caratterizzati da timori circa i livelli raggiunti dai listini azionari e da una certa rota dei portafogli da titoli “growth”a titoli più sicuri, decidere di sottopesare quei titoli può finalmente consistere in un vantaggio netto e dunque la bondification può fornire due ordini di soddisfazioni a chi l’ha messa in pratica:

• I maggiori dividendi percepiti

• L’apprezzamento in conto capitale.

Anzi, il mercato sa che la cuccagna delle borse non durerà in eterno (anche se da un anno essa va oltre ogni ragionevole aspettativa) e dunque cerca di ruotare i portafogli verso investimenti meno a rischio e di maggior qualità in termini di profitti, storia, di dividendi, di livello del management e di dimensioni aziendali.

Il “volo verso la qualità” riguarda pertanto non solo quei titoli che risultano in grado di pagare i maggiori dividendi, ma soprattutto quelli che possono vantare una storia di successi ripetuti, di solidità aziendale e di migliore persistenza della propria strategia competitiva.

È questo il motivo principale perché l’argomento della bondification è tornato in auge. In molti casi i portafogli di titoli selezionati in tal senso possono dunque anche ottimamente performare in un momento come quello attuale che mette in secondo piano l’interesse per i titoli tecnologici e innovativi ma con più rischiosità .

IL “VOLO VERSO LA QUALITÀ”

Se si vuole dunque provare a selezionare un portafoglio “value” (cioè più orientato all’investimento difensivo e a lungo termine), il Sole 24 Ore ci fornisce di seguito un’elenco di criteri per la cernita:

• Una redditività costante e in crescita

• Una storia di costante apprezzamento del titolo in borsa

• La capacità di tenere sotto controllo la produttività del lavoro

• La capacità di generare cassa

• La non eccedente valutazione di borsa in termini di P/E

• La “riserva implicita” di valore derivante dai valori intangibili: il marchi e il management

WHAT NEXT?

Resta da vedere quali soddisfazioni potranno pervenire in futuro a chi mette in pratica oggi una tale politica di selezione del portafoglio azionario.

Quando le borse dovessero tornare a veder crescere la volatilità, infatti, gli svantaggi in termini di diversificazione e di sottoesposizione verso i titoli che promettono maggior crescita di un portafoglio così selezionato potrebbe penalizzare chi la mette in pratica (sebbene si potrebbe sempre obiettare che oggigiorno la possibilità di diversificare, in funzione della non omogeneità del rischio, in misura statisticamente rilevante, è quasi scomparsa).

Come sempre perciò, non esiste una ricetta per gli investitori valida per tutte le stagioni. Ad oggi le borse hanno continuato a salire nonostante mille e una cornacchia cercassero di costruire una propria reputazione suonando le campane a morto per prime. E mentre salivano la volatilità scendeva (che è sicuramente un segno di forza del momento borsistico) e i profitti aziendali andavano alle stelle.

Il futuro non è detto che ci riserverà un crollo delle borse nell’immediato ma, mano mano che le banche centrali piloteranno i mercati verso una riduzione della liquidità da esse immessa, potrebbe anticipare una tendenza alla discesa dei corsi con l’aumento della loro volatilità. Neanche questo succederà in un istante ma è chiaro che non solo i titoli più “conservativi “ dal punto di vista del rischio potrebbero “tenere” i livelli più degli altri, ma anche che nessuno si aspetta un nuovo vero e proprio “boom”della crescita economica globale. Dunque rimanere sotto-pesati sui titoli più speculativi può non essere comunque una cattiva idea.

Stefano di Tommaso




IL PREZZO DEL PETROLIO NON PREOCCUPA PIÙ ?

Chi l’ha detto che il petrolio salirà? Gli investitori, ovviamente, i quali cercano ogni giorno di imboccare per primi nuovi trend di mercato e giustificare, attraverso nuove strategie, il loro operato rispetto alle migliori performances che da mesi inanellano i fondi di investimento indicizzati. Peccato però che anche questa volta rischiano di sbagliarsi alla grande, così come non si è visto un vero “reflation trade” (un ritorno di fiamma dell’inflazione che avrebbe potuto giustificare nuove rotazioni dei portafogli titoli). E alla mancata crescita dell’inflazione la questione del prezzo futuro del petrolio è molto connessa.

 

LO SCENARIO GLOBALE È MOLTO COMPOSTO

L’economia globale cresce alla grande ma non dá alcun cenno di surriscaldamento, facendo saltare i nervi agli operatori e agli speculatori che ci avevano scommesso sopra. Non surriscaldandosi non crescono nemmeno i prezzi delle materie prime e nemmeno oscilla il dollaro, che ne esprime l’unità di misura. Rimane tutto piuttosto stabile insieme ad una volatilità dei mercati finanziari che continua storicamente a decrescere e ad una liquidità globale che aumenta tanto da fare invidia agli oceani alle prese con il disgelo delle calotte polari.

Nel lungo percorso che ha portato in tutti i dodici mesi precedenti i mercati verso nuovi massimi storici e a tornare a crescere significativamente i prodotti lordi della maggioranza delle nazioni, soprattutto quelle emergenti, molte volte i grandi investitori hanno gridato al lupo al lupo, molte volte le banche centrali hanno minacciato impennate dei tassi di interesse (anche per limitare sul nascere i possibili scoppi di bolle speculative).


Ma la verità è che un po’ dappertutto nel mondo i consumi sono tornati a crescere, la disoccupazione è in discesa e i profitti delle imprese sono in forte crescita, mentre tutto il resto fornisce confortanti segnali di rilassamento e permette ai mercati di dimenticare i livelli stratosferici raggiunti dai debiti pubblici anche a causa dei bassissimi tassi di interesse che essi devono pagare, lasciando sperare i più in un lento discioglimento di quei debiti nell’acido della progressiva monetizzazione.

IL PETROLIO IN UN TUNNEL TRA 50 E 60 DOLLARI AL BARILE

In uno scenario così composto, sincronizzato e positivo, procedono le politiche di incremento dell’uso delle energie da fonti rinnovabili e anche per questo motivo il petrolio rischia di restare a lungo confinato magicamente nel tunnel che va dai 50 ai 60 dollari al barile (vedi grafico), ove al ribasso agiscono immediatamente le iniziative di incremento delle riserve strategiche e al rialzo invece giocano tutti i produttori che hanno congiurato sino ad oggi per una ripresa del prezzo i quali servono maggiori quantità non appena gli risulta possibile.


Eppure la domanda globale di petrolio sta tornando a crescere eccome, non solo per effetto della ripresa economica (che ha effetti sulla domanda del petrolio quasi solo in America), ma soprattutto per la crescita strutturale delle due grandi economie asiatiche (Cina e India). Ma contemporaneamente sale l’offerta del petrolio, soprattutto di quello americano (che in parte è “shale oil”cioè estratto con tecniche di pressurizzazione degli anfratti in cui giace che non sono pozzi petroliferi veri e propri ma sono molto più diffusi) la cui produzione è fortemente legata al prezzo di vendita:sotto determinati livelli non conviene estrarlo.


Il risultato di questo bilanciamento tra domanda e offerta, sebbene difficile perché, appunto, con la ripresa economica che prosegue salgono entrambe, va ben al di là del tenue impatto che può sortire la politica dell’OPEC, (il cartello dei produttori petroliferi) che autoimpone dei tagli alla produzione e in tal modo favorisce i paesi che non vi aderiscono (si veda il grafico qui sotto riportato).

LA VERA DIFFERENZA L’HA FATTA IL “FRACKING”

La situazione complessiva ha tra l’altro favorito le economie dei paesi emergenti, i quali hanno trovato lo spazio per esportare più petrolio e, in una situazione di stabilità globale del relativo prezzo, la possibilità di programmare nuovi investimenti infrastrutturali (principalmente nella raffinazione) che possono aiutare non poco a dare slancio allo sviluppo economico locale.

La vera differenza però l’ha fatta l’America con il suo “fracking“ (la suddetta tecnica con la quale si ottengono gas e petrolio da scisto), inducendo sul mercato un pesante fattore di stabilità. Tutto bene dunque? Si, ma solo fino a quando non dovessero acuirsi le tensioni geopolitiche globali oggi tutto sommato sotto controllo. La discontinuità in uno scenario globale così sincrono e bilanciato può provenire solo queste ultime.

La corsa al riarmo di ogni Paese del mondo sta infatti favorendo tanto l’industria degli armamenti (tradizionalmente grande divoratrice di materie prime energetiche) quanto lo stoccaggio di maggiori riserve strategiche di petrolio. Il controllo delle emissioni dannose per l’atmosfera ha inoltre giocato la sua parte sino ad oggi nel limitare il prezzo dell’energia, ma risulterebbe poco più che superfluo qualora dovessimo assistere ad una escalation militare in grande stile. La geopolitica insomma può fare la sua parte nel rovinare la festa all’economia reale, anzi: rischia di essere l’unico fattore che può fare la differenza.

Stefano di Tommaso




ALLA FINE UNICREDIT COMPRERÀ COMMERZBANK

Molte voci si sono rincorse quando è venuta fuori, all’attenzione della stampa, la notizia di una trattativa segreta tra Unicredit e Commerzbank.

 

SMENTITE E PRECISAZIONI

Innanzitutto sono corse le smentite, da entrambe le parti e addirittura con il commento che piuttosto l’azionista al 15% (lo Stato tedesco) della possibile preda avrebbe preferito una banca francese (BNP PARIBAS) come acquirente. I soliti simpaticoni!

Poi sono ancora in molti a ricordarsi l’avventura straniera del 2005 con la HypoVereinsbank poi divenuta Unicredit Bank AG e oggi significativamente ridimensionata ma pur sempre presente in Germania.

Infine sono arrivate le precisazioni, attraverso le quali si faceva notare che entrambe le banche sono nel bel mezzo dei rispettivi processi di ristrutturazione, ivi compresi tagli di spesa e riduzione del personale.

Dunque i sindacati non avrebbero gradito che da una parte si faccia economia e si dichiari di voler concentrare la propria attenzione sul mercato interno e sul core business e dall’altra si profondano risorse in una avventura oltre frontiera tutta da precisare, senza prima aver pubblicato un nuovo piano industriale (quello attuale ha come orizzonte il 2019) e poi consultato le parti sociali.

IL RUOLO DEI GOVERNANTI TEDESCHI

In Germania probabilmente la minor pressione della disoccupazione rende l’argomento molto più “morbido” da trattare, ma il problema di non poter procedere contemporaneamente alla messa in atto di una lenta ristrutturazione (va avanti dal 2010, dopo che l’anno prima il governo tedesco era entrato nel capitale per salvare la banca) ce l’ha anche Commerzbank e lo scenario ambientale è complicato dal fatto che il paese è in piena campagna elettorale.

La verità anzi è che i vecchi azionisti di Unicredit (a partire dalle fondazioni bancarie) si sono già ridimensionati con le perdite degli anni post-crisi e si sono diluiti con i decisi aumenti di capitale (l’ultimo di 13 miliardi ha spiazzato tutti e provocato il plauso degli analisti) mentre se oggi cedesse la sua partecipazione in Commerzbank il governo tedesco dovrebbe iscrivere al proprio stato patrimoniale una perdita decisa nel valore dell’asset, stimato dal mercato circa la metà di quanto ha investito. Un portavoce del governo lo ha già dichiarato: agiremo nell’interesse di chi paga le tasse.

Dunque ne hanno dedotto tutti gli osservatori che manzonianamente parlando “il matrimonio non s’ha da fare” e che l’argomento è quantomeno rimandato di un paio d’anni.

L’AMBIZIONE DI MUSTIER E LE PRESSIONI DEL MERCATO DEI CAPITALI

Ma sebbene sia entrato in azione solo un anno fa (nel 2016) chi conosce Pierre Mustier sa che è uomo di grandi ambizioni e poi molti investitori stanno concentrando le proprie attenzioni sui principali titoli bancari, scommettendo inizialmente un po’ su tutti ma si sa che alla fine essi preferiranno quelli che riescono ad esprimere una maggior crescita di valore. E -come direbbe Totò- qui casca l’asino!

Il mondo negli ultimi anni è cambiato a tal punto che l’attività creditizia è tornata in auge tra gli investitori, le economie del vecchio continente sembrano puntare a sempre migliori risultati man mano che l’Unione procede nel suo accidentato percorso di integrazione e la Germania resta il centro dell’attrazione dei capitali in fuga tanto dall’America quanto dalla Cina.

E nessuna grande azienda, nemmeno una banca “di interesse nazionale” (come si sarebbe detto in passato), nemmeno se sottoposta a un aspro confronto con i sindacati dei lavoratori, può sottrarsi alle pressioni dei propri azionisti e del mercato dei capitali, i quali possono risultare molto pazienti ma alla fine vogliono dire l’ultima parola.

Il boccone è goloso: la combinazione delle due realtà risulterebbe ai vertici delle classifiche bancarie europee e potrebbe vantare attivi totali per la bellezza di 1300 miliardi di euro (cioè ben oltre un trilione e mezzo di dollari).

Molte attività nelle quali le economie di scala contano (a partire dal “consumer business” ne risulterebbero avvantaggiate e la caratteristica he in passato ha reso debole Commerzbank: quella di avere una maggior clientela tra le piccole e medie imprese, per Unicredit risulterebbe invece di grande interesse per potersi piazzare come leader incontrastato di quel segmento nel continente europeo. L’unico nel quale la concorrenza delle grandi banche d’affari americane e asiatiche ha molto meno presa e capacità di attrazione.

SI FARÀ MA NON SUBITO

Solo che un orizzonte di un paio d’anni può risultare normale per la ristrutturazione di due grandi aziende ma appare come un tempo infinito a coloro che operano sul mercato dei capitali. Questi ultimi non aspetteranno così a lungo per emettere il loro verdetto e questo Mustier lo sa bene! Ecco allora che i tempi dovranno stringersi, magari già all’inizio del 2018 o nel corso dell’anno.

Dunque se fosse a Unicredit non converrebbe mollare l’osso nel frattempo, con il rischio che la potenziale sposa nel frattempo si accasi altrove. È più probabile che le trattative proseguano sotto traccia.

Mentre entrambe le banche provano a mettere a punto i rispettivi nuovi piani industriali magari ne abbozzano anche uno comune, magari con la complicità di qualche importante advisor, come Mediobanca di cui UniCredit è il primo singolo azionista, insieme a Vincent Bollorè. E non a caso Mediobanca che di solito tace sulla stampa invece resta, unica voce fuori dal coro, possibilista sul matrimonio.

E IL VALORE DEI RISPETTIVI TITOLI SALIRÀ

È solo il titolo di una favola oppure è realistico pensarlo? Si vedrà. Ma aspettiamoci che l’ultima parola la dicano i mercati, che hanno già premiato il titolo Unicredit con un +80% e che potrebbero adesso fare altrettanto con Commerzbank. Allora forse per il Governo tedesco sarebbe politicamente più accettabile dare il consenso, insieme alla necessità di fare cassa, mentre inizialmente si era parlato di un’operazione “carta contro carta” meno conveniente per lo stato germanico e per gli azionisti di minoranza.


Resta il fatto che la strategia di Mustier non sarà abbandonata così in fretta e che di conseguenza è piuttosto probabile che da oggi ai primi del 2018 entrambi i titoli potranno registrare prezzi più elevati degli attuali, anche perché i fondamentali si avviano ad essere molto migliori e di terreno, negli ultimi anni, ne avevano perduto parecchio. E questa sì che è una buona notizia per gli azionisti!

Stefano di Tommaso