COME CAMBIA L’INDUSTRIA DELL’AUTO NELL’ERA DELLA SHARING ECONOMY

È notizia riportata dal Financial Times di ieri quella di ancora molti nuovi denari raccolti sul mercato dei capitali dalle start-up tecnologiche basate sul car sharing. Ad esempio l’iniziativa di Daimler Benz e altri investitori coreani di finanziare con quasi cento milioni di dollari la crescita di “Turo”: una delle società di noleggio auto della Silicon Valley di maggior successo, basata a San Francisco, che ha promosso in California e ora vuole espandere nel resto degli Stati Uniti, in Asia e in Europa i propri servizi fondati sulla diffusione peer-to-peer della condivisione della proprietà dell’auto (che cioè viene diffusa e resa disponibile sulla rete internet trasformando gli stessi utenti in fornitori di nuovi punti di accesso).

 

Turo ha ricevuto quel denaro da un gruppo di investitori e sottoscrittori di un nuovo round di finanziamento sulla base dell’ipotesi che il suo modello di business, inizialmente andato molto bene nell’area di maggior concentrazione al mondo delle innovazioni tecnologiche e nelle conseguenti nuove abitudini di consumo, possa nel tempo essere accettato e diffuso anche nel resto del mondo. Una scommessa ovviamente non priva di rischi ma indubbiamente stimolante.

D’altra parte ogni grande casa automobilistica si è posta il problema del fatto che un’auto privata è ferma e inattiva per più o meno il 99% del tempo totale di possesso, concludendone di voler porre in essere iniziative di ogni tipo che vadano nella direzione di permettere all’utente medio mobilizzare il denaro investito nell’acquisto. Toyota, una delle più grandi con un giro d’affari complessivo che raggiunge i 200 miliardi di dollari, è entrata in the Enterprise Ethereum Alliance (EEA) per lo stesso scopo (si legga l’articolo qui riportato: http://www.trustnodes.com/2017/05/22/car-giants-toyota-mitsubishi-join-enterprise-ethereum-alliance-blockchenize-automobiles ).

LA MOLTITUDINE DI INZIATIVE DI BUSINESS RELATIVE A CAR SHARING E TAXI HAILING

La notizia di per sé non avrebbe nulla di interessante (l’ennesima start-up basata sulla digitalizzazione mobile ha ricevuto tanti capitali) se non fosse che oramai praticamente ogni giorno leggiamo annunci simili da parte di un gran numero di iniziative che peraltro, per essere state selezionate dagli investitori professionali del “venture capital”, non sono che la punta dell’iceberg di un numero ancora molto più grande di nuove iniziative di business volte a cavalcare l’ondata di sostituzione dei precedenti modelli di possesso e di utilizzo dei veicoli di trasporto.

Per dare una vaghissima idea dell’affollamento delle cosiddette “start-up” in questo campo possiamo citare di seguito alcuni dei numerosissimi modelli di business indotti dalle nuove abitudini di consumo dei “millennials” (vale a dire la popolazione di coloro che sono nati intorno alla svolta del millennio), tutti basati sull’economia della condivisione applicata alla proprietà e all’utilizzo dei veicoli:

  • Car renting (noleggio a breve e lungo termine dell’auto) 
  • Car sharing (noleggio a brevissimo termine dell’auto come già avviene anche nelle principali città italiane)
  • Car pooling (condivisione dell’auto tra più utenti per determinati utilizzi, normalmente su base breve e ricorrente)
  • Car ridesharing (condivisione dell’auto privata con uno o più utenti solo per un determinato percorso) come Blabla Car & simili apps per l’effettuazione di percorsi relativamente lunghi (il proprietario di un’auto offre dunque un passaggio ad altri viaggiatori in cambio della condivisione dei costi e della disponibilità degli ospiti a chiacchierare lungo il tragitto)
  • Car Hailing come Uber, Lyft & simili apps (il proprietario fornisce anche un servizio, di taxi, di limousine eccetera…) non sempre in cambio di un pagamento basato sul percorso bensì anche sulla base di una “donazione suggerita”, del previo acquisto di crediti di trasporto o ancora sulla base della condivisione dei costi vivi oltre a un contributo che viene rivolto a qualche fondazione benefica.

LE RAGIONI DI QUESTA PROLIFERAZIONE

È evidente che la nascita di tutte queste tipologie di iniziative e la varietà delle nuove modalità di condivisione dei mezzi di trasporto (dall’auto alla moto passando dai tricicli cosiddetti Apecar molto diffusi nell’Asia del sud fino alla condivisione della bicicletta, elettrica o meno) costituisce un segnale deciso che forse qualcosa sta cambiando nelle abitudini di utilizzo dei mezzi di trasporto e nel modello di proprietà in generale dei veicoli.

Qualcosa di importante si muove perciò non soltanto a causa del fatto che la diffusione della fruizione dei servizi resi su internet tramite gli “smartphones” (i telefoni intelligenti) ha reso possibili cose impensabili vino all’altro ieri, ma soprattutto perché oggi è il mercato dei capitali che si è buttato letteralmente a capofitto a investire sulla crescita quel settore della sharing economy che riguarda la mobilità privata.

Al di là dell’impressionante numero e diffusione globale di miliardi di dollari che vanno accumulandosi nella fondazione e crescita accelerata di operatori che investono nella sostituzione dei precedenti modelli di possesso e di utilizzo dei veicoli, quali possibili implicazioni possono derivare al settore automotive nel suo complesso? Proviamo a ragionarci sopra.

L’IMPATTO DEL “CAR SHARING” SULLE NUOVE TENDENZE DELL’INDUSTRIA DELL’AUTO

La moltiplicazione degli operatori che offrono serivizi basati sulla condivisione della proprietà dei veicoli è probabilmente alla base della rinnovata (e prolungata) stagione di espansione del settore automobilistico in senso lato: dalle grandi case che monopolizzano l’attenzione dei media con le nuove proposte di veicoli elettrici o ibridi, più o meno dotati di funzioni automatiche e forniti di connettività, di capacità di guida autonoma sino alle prime funzioni dell’intelligenza artificiale, con anche tutto l’immenso comparto di produzioni indotte dall’industria dei veicoli: dalle imprese specializzate nella progettazione e produzione delle nuove tecnologie fino a quelle che realizzano i componenti utilizzati da auto, moto e altri nuovi veicoli, terrestri o volanti.

È perciò innanzitutto probabile che le grandi risorse finanziarie profuse nei nuovi modelli di business del settore “automotive” possano provocare una moltiplicazione del numero di veicoli acquistati dagli operatori suddetti.

Ma non basta: la diffusione di nuovi modelli di condivisione della proprietà probabilmente accelera la proliferazione di tecnologie e strumenti di telecontrollo della posizione e del comportamento dei veicoli immessi sulle strade da quegli operatori. Senza la nascita di tutte queste società che acquistano veicoli da immettere in rete che ha provocato l’esigenza di geolocalizzazione e di semiautomatismo dei veicoli delle loro flotte, probabilmente la domanda di queste nuove tecnologie sarebbe stata molto più blanda e la velocità della loro diffusione sul totale dei veicoli circolanti molto più bassa. Dunque è possibile che la sharing economy aiuti il rinnovo anagrafico e l’evoluzione tecnologica del totale dei veicoli circolanti.

LE PROBABILI NUOVE PREFERENZE NELLE CARATTERISTICHE DEI VEICOLI DELLE FLOTTE

Senza contare l’osservazione che la maggioranza di queste nuove società che offrono servizi di condivisione dei mezzi di trasporto è basata sulla loro presenza quasi esclusivamente nei principali agglomerati urbani. I veicoli da queste ordinati saranno perciò probabilmente di piccola taglia e destinati ad effettuare percorsi piuttosto brevi. Se poi sono destinati esclusivamente all’utilizzo nell’ambito urbano è più probabile che la domanda futura sia orientata a veicoli totalmente elettrici e che possano prevedere sistemi di rapida sostituzione delle batterie onde evitare i tempi morti di ricarica delle medesime.

Anche per ciò che riguarda le caratteristiche costruttive e l’affidabilità nel tempo dei medesimi veicoli, la diffusione della loro proprietà a pochi grandi operatori probabilmente provocherà l’innalzamento delle esigenze di qualità funzionale, onde risparmiare nel tempo sui costi di manutenzione ed evitare sorprese nella loro continuità operativa.

Infine il livello di automatismo dei veicoli può incidere sul conto economico degli operatori che li acquistano: se un’auto destinata al noleggio a corto raggio è in grado di parcheggiare da sola o di segnalare in autonomia eventuali malfunzionamenti alla centrale operativa della società che la possiede, quest’ultima ne ottiene un risparmio e una miglior programmazione nella riparazione dei danni e dei guasti.

IN CONCLUSIONE

Le iniziative di business rivolte alla diffusione delle nuove modalità di fruizione dei veicoli di trasporto persone stanno attirando la crescente attenzione del mercato dei capitali e accumulando risorse finanziarie che danno nuova vitalità all’industria del settore automotive.

L’ accresciuta domanda di veicoli sarà però probabilmente orientata ad un maggior contenuto di innovazione e di digitalizzazione dei veicoli stessi, come pure ad una migliore affidabilità funzionale e programmabilità delle manutenzioni.

La tipologia di veicoli richiesti dagli operatori che li noleggiano rispecchierà probabilmente la concentrazione del loro utilizzo nelle principali aree urbane del mondo, più che nelle lunghe percorrenze, con una elevata probabilità che questo accrescerà la domanda di veicoli elettrici e in generale a basso impatto ambientale.

È possibile che queste tendenze determinino anche una maggior domanda di capacità di guida autonoma, di elementi tecnologici basati sull’intelligenza artificiale e di un maggior grado di capacità di geolocalizzazione.

Stefano di Tommaso

 




L’EFFETTO “AMAZON” SULLA CRESCITA E SUI CONSUMI GLOBALI

Una delle obiezioni più frequenti mosse dagli scettici nel rifiutare di voler prendere atto di un nuovo ciclo economico espansivo risulta essere proprio la debolezza dell’inflazione riscontrata nelle ultime statistiche.

Se ci fosse davvero una crescita economica -essi notano- allora la spesa per consumi crescerebbe ben di più di quanto viene riscontrato di recente dai principali istituti di statistica, così come -per effetto di quest’ultima- si innescherebbe una dinamica non solo di maggiore occupazione, ma anche di incrementi salariali che sfocerebbe in una risalita dell’inflazione. Invece l’inflazione cresce poco o nulla e gli scettici obiettano che dunque manca la prova di una ripresa economica effettiva.

NEL 2017 LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE DOVREBBE RAGGIUNGERE IL 4% MA LE STATISTICHE REGISTRANO UNA DINAMICA PIÙ LIMITATA DEI PREZZI AL CONSUMO

Con diverse gradazioni di intensità la questione dell’apparente scarsità di domanda di beni e servizi si pone un po’ dappertutto nel mondo, a partire dai Paesi “OCSE” (i più ricchi), e tra questi a partire dagli Stati Uniti d’America, ove l’espansione del P.I.L. prosegue al ritmo più o meno costante del 2% annuo (ma è vecchia di otto/nove anni e perciò sono in molti a presagire un’imminente inversione del ciclo) per proseguire poi con i Paesi dell’Asia continentale, dove la crescita è ben più impetuosa (intorno al 6%) e dal Giappone, che finalmente sembra aver registrato nell’ultimo trimestre (il secondo del 2017) una crescita su base annua dell’ordine del 4%, in linea con la media globale che dovremmo registrare a fine anno (il miglior risultato da anni).

L’Europa invece quest’anno a mala pena dovrebbe toccare l’1,9%, pur registrando la sua crescita del prodotto interno lordo più elevata dai tempi della crisi del 2008 e solo se tutto dovesse andare nel migliore dei modi e l’innalzamento del cambio non rovinerà troppo la festa alle imprese esportatrici. In tutte queste regioni del mondo però la crescita del prodotto interno lordo è più elevata di quella della spesa per consumi. La spiegazione ovvia che se ne potrebbe dare è che la domanda di beni e servizi resta debole, nonostante la ripresa, ma se proviamo ad approfondire, emergono altre dinamiche, ben più complesse!

LA DIFFUSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO LIMITA L’INFLAZIONE

La diffusione di internet e delle vendite online ha infatti una forza deflativa sui prezzi che resta ancora da misurare con precisione. Ma la riduzione dei prezzi (che si contrappone e annulla l’effetto della crescita dei prezzi dovuta alla maggior domanda di beni e servizi) imputabile alle vendite online (il cosiddetto “Effetto Amazon”) contribuisce solo per una parte alla creazione fenomeno di limitata inflazione cui assistiamo.

L’utilizzo di applicazioni per il telefono cellulare che “in virtualità” sostituiscono beni e servizi (buona parte dei quali è gratuito perché sono sostenuti da ecosistemi di “sharing economy”) è vastissimo e pieno di implicazioni pratiche. Eccone ad esempio un piccolo elenco comparativo (a sx gli strumenti precedentemente utilizzati e a dx quello che si può fare con uno smartphone):

LA DIGITALIZZAZIONE, LA SHARING ECONOMY E LE NUOVE TECNOLOGIE CONTRIBUISCONO AL CONTENIMENTO DEI PREZZI E ALLA DIFFICOLTÀ DI RILEVARE LA VERA CRESCITA DEI CONSUMI

Per non parlare della miriade di servizi offerti tramite la digitalizzazione dell’economia : dalla diffusione del “car sharing” al successo mondiale dell’affitto breve delle unità abitative legato alle catene di Bed&Breakfast e all’esplosione della catena AIRBNB, dei servizi finanziari che vengono forniti con la consulenza computerizzata, per non parlare di tutti i sistemi innovativi di risparmio energetico, dell’aumento della disponibilità globale di pezzi di ricambio e di strumenti tecnici a buon mercato venduti o affittati online, della diminuzione del numero di viaggi aziendali dovuta ai sistemi di videoconferenza, eccetera…

La stessa disponibilità dell’accesso alla rete è migliorata ed è divenuta più economica, dal momento che i costi di connessione tramite cellulari “intelligenti” sono crollati, e con essi è lievitato il consumo di servizi tramite accesso mobile.

L’offerta di beni e servizi è inoltre anch’essa in crescita, a causa della costante espansione della capacità produttiva per i beni a minor valore aggiunto nell’intero sud-est asiatico. Cosa che contribuisce a limitare la pressione inflattiva nonostante la vivacità della domanda, che scaturisce tanto dalla crescita globale quanto dalla dinamica demografica dei Paesi Emergenti.

Morale: non possiamo non tenere conto dei fenomeni economici collegati al concetto di digitalizzazione dell’economia globale nel chiederci per quale motivo l’inflazione non corre altrettanto quanto gli utili aziendali e quanto la crescita del Prodotto Interno Lordo. La corretta interpretazione dei fenomeni economici che discendono da essa sarà probabilmente oggetto di studio ancora per molti anni.

Quando però ci chiediamo perché il mercato mobiliare corra ancora nonostante tutti i segnali di attenzione che da oramai molti mesi gli analisti rilevano, ecco che dobbiamo guardare anche all’altro lato della medaglia: quello che esprime una crescita dell’economia globale, ancora solo parzialmente rilevata dai sistemi statistici di misurazione delle attività economiche basate sulla rete!

 

Stefano di Tommaso

 




LE BORSE CROLLERANNO?

I ripetuti e crescenti timori relativi alla tenuta degli attuali -stratosferici- livelli raggiunti dalle borse di tutto il mondo mi hanno spinto a compiere un’ indagine sulla loro situazione attuale, sulle ragioni sottostanti gli scossoni percepiti negli ultimi giorni e sugli auspìci che se ne possono trarre per il prossimo futuro.

Tutti gli osservatori economici si chiedono fino a quando durerà l’incantesimo del mercato finanziario, che da più di otto anni continua imperterrito la sua corsa. A dire il vero già intorno alla metà dello scorso anno se lo chiedevano tutti, ma poi è arrivato il cosiddetto “Trump trade”, cioè l’effetto positivo sulle borse derivato dal fascino che il nuovo corso politico americano esercitava sugli investitori, promettendo meno tasse e maggiori investimenti infrastrutturali.
Con il Trump trade è in effetti cambiato qualcosa nel mondo: l’economia globale ha imboccato di nuovo un percorso di crescita e la stessa cosa è accaduta per tutti i paesi OCSE, a partire dall’America, facendo dimenticare i timori di nuovo scoppio della bolla finanziaria. Oggi, a un anno esatto di distanza da quel momento storico, le politiche economiche promesse dal presidente americano non sono ancora state varate e le borse sono salite ancora di un bel po’, ragione per cui i medesimi dubbi si ripropongono.

Un recentissimo articolo della CNBC.COM riportava un questionario al quale hanno risposto circa 12.000 dei suoi suoi lettori. CNBC ha chiesto loro <<se si aspettano a breve uno “storico” tonfo delle borse>>  e ben il 44% di essi ha risposto si mentre un altro 26% nutre dei dubbi al riguardo e soltanto il 30% non lo ritiene probabile.

IL PESO DELLE ASPETTATIVE

La cosa ha dell’incredibile: il 70% degli intervistati tra la “creme” dei professionisti americani della finanza che legge quel magazine online vede dunque la possibilità a breve termine di un crollo di Wall Street! Come si può vedere nello “screenshot” qui sopra riportato, quasi non bastasse, a dare loro manforte ci si è messo anche un premio Nobel per l’economia come Robert Shiller che, intervistato in proposito, ha solo potuto fornire una sensazione, non certo una previsione razionale.

In effetti il mercato azionario americano è cresciuto più degli altri e, dal minimo toccato nel lontano Marzo 2009 (più di otto anni fa), ha più che quadruplicato il suo livello. Chiaramente un tale risultato lascia molto spazio per lo scetticismo circa la possibilità che Wall Street raggiunga ulteriori, mirabolanti vette.

L’ECCESSO DI LIQUIDITÀ HA DROGATO LE BORSE

Ma bisogna ricordare che l’intervento delle banche centrali di tutto il mondo per pompare liquidità (in queste settimane oltre che della BCE è la volta di quella giapponese) e la ripresa della crescita economica globale hanno senza dubbio contribuito a buona parte di tale performance.

La prima cosa che viene da pensare è che, quando tutta quella gente se lo aspetta, è probabile che lo scenario non si verifichi. Se infatti la stessa percentuale di intervistati si comporta di conseguenza, allora dovrebbe limitare decisamente i propri investimenti in titoli azionari, privilegiando la liquidità o degli investimenti alternativi, quelli che possano avere andamenti non correlati alla borsa (immobili, oro, eccetera). Ma se così fosse, allora bisognerebbe ammettere che c’è ancora molta liquidità in circolazione parcheggiata al di fuori del circuito borsistico e che, di conseguenza, i mercati finanziari potrebbero avere ancora molta strada da fare.
Sul versante opposto, occorre tenere presente che le aspettative sui mercati finanziari tendono ad “auto-realizzarsi”, alimentando esse stesse le possibili oscillazioni dei listini.

IL RUOLO DEI BUY-BACK E QUELLO DEI “TRADING SYSTEMS”

Per comprendere le ragioni di chi grida al possibile scoppio della “bolla speculativa ” bisogna tuttavia considerare due fattori “anomali” che hanno contribuito non poco al risultato della citata quadruplicazione dei dollari investiti sulla borsa di New York. Fattori che in precedenza avevano avuto un limitatissimo effetto sulle quotazioni azionarie:

1) un perverso meccanismo di “buy-back” (cioè di riacquisto da parte delle stesse società emittenti) tramite il quale le grandi corporations quotate utilizzano la liquidità che si ritrovano in pancia per comprare azioni proprie (invece di investire nello sviluppo dei propri mercati), principalmente per favorire gli interessi dei manager che hanno in mano delle cospicue “stock-option” (cioè incentivi ai propri manager basati sulla possibilità di ottenere azioni da rivendere poi sul mercato). Sono operazioni compiute tipicamente in frode degli azionisti di minoranza, ma il cui effetto “edulcorante” sulle quotazioni del titolo alla fine non lo disdegna nessuno, salvo il fatto che tende a far crescere artificialmente la misura degli “utili per azione”.

I buy-back dunque aiutano i corsi azionari a rimanere sostenuti nonostante il potenziale effetto depressivo delle vendite realizzate dai dirigenti, ma non solo: essi innanzitutto sortiscono l’effetto di trasferire liquidità dalle aziende ai privati che, spesso, la reinvestono sui mercati finanziari e, in secondo luogo, riducono il numero delle azioni in circolazione che andranno a spartirsi gli utili per azione (Earnings per Share: EPS) realizzati, facendo crescere artificialmente la redditività teorica delle società quotate che li mettono in pratica. Ecco un grafico relativo allo stesso periodo di otto anni testé citato, che evidenzia una crescita “fittizia” dei profitti per azione pari al 265% (più di metà della crescita totale realizzata dal mercato azionario!):

2) La diffusione di algoritmi e sistemi computerizzati per la compravendita ad alta frequenza di titoli azionari (HTFA: high frequency trading algorithms). Essi hanno oggettivamente cambiato i connotati all’andamento fino a ieri caratteristico del mercato dei capitali: fino all’avvento dei sistemi di trading infatti (basati principalmente sui principi dell’analisi tecnica), contavano molto di più le sensazioni umane e i fattori economici “fondamentali ” sul mercato azionario, circa i quali gli analisti finanziari si esprimevano anche in termini strategici.

Oggi, dieci e più anni dopo l’avvento delle contrattazioni computerizzate, l’unica variabile che conta davvero è la liquidità disponibile sul mercato (che, invariabilmente da molti anni a questa parte, cresce per effetto dell’intervento delle banche centrali di tutto il mondo).

Come sarebbe il mercato azionario senza se i regolatori avessero impedito o limitato tanto i buy-back quanto l’avvento degli HTFA? La risposta è quantomai scontata: probabilmente molto ma molto più in basso di dove si trova oggi. Anche questo è un elemento di preoccupazione: quanto è “artificiale” la situazione che osserviamo e quanto invece è motivata da fattori che presumibilmente resteranno in piedi nel prossimo futuro e che troveranno sempre maggiore ragion d’essere sulla base della crescita delle variabili macroeconomiche fondamentali?

IL RUOLO DEI TITOLI “TECNOLOGICI” NELLA CRESCITA DELLE BORSE

Ulteriori elementi di preoccupazione per le borse giungono infine dal “parterre” della medesima Wall Street, dove negli ultimi giorni una serie di titoli “tecnologici” di grande diffusione, come Alphabet (Google) e Amazon la cui capitalizzazione riflette in astratto le attese di enormi aspettative di crescita degli utili sebbene  -alla luce delle recenti preoccupazioni- abbia lasciato nelle ultime settimane sul terreno molti miliardi di dollari.

Senza l’apporto fondamentale della supervalutazione di quei titoli, entro certi limiti da ritenersi assolutamente sensata poiché basata sull’aspettativa di crescite esponenziali dei margini operativi (date le caratteristiche del modello di business delle cosiddette “internet companies”), Wall Street non avrebbe raggiunto le vette che oggi osserviamo. Eppure ogni qualvolta la valutazione di un titolo è basata sul ruolo fondamentale delle aspettative, non si può parlare di certezze circa la stima corretta della medesima e la psicologia può incidere non poco. Sono in molti a pensare che quelle aspettative sono forse cresciute un po’ troppo negli ultimi mesi e che qualche ragionevole dubbio è opportuno porselo.

Tornando a quanto sta succedendo oggi dunque, i due fattori che hanno contribuito a un generale ridimensionamento dei titoli cosiddetti “FANG” (Facebook, Amazon, Netflix, Google, e dintorni tra i quali Microsoft, Snapchat, eccetera) sono stati:

– la naturale rotazione dei portafogli degli investitori, i quali oggi ritengono perlopiù di trovarsi in una fase molto matura del ciclo economico e preferiscono puntare su settori industriali più tradizionali;

– i dubbi relativi alla misura effettiva della profittabilità del business digitale in genere, orientato necessariamente a forti crescite nel suo complesso ma al tempo stesso martoriato da un eccesso di concorrenza, come tutti i settori economici che si trovano ad uno stadio più primitivo del ciclo di vita del prodotto,  oltre che sottoposto a continui colpi di scena man mano che le innovazioni continuano a ridisegnarne gli assetti.

Ora è noto che è grande il peso complessivo sul listino di Wall Street della capitalizzazione di borsa dei principali titoli “tecnologici”, così come in Italia risulta esserlo quella delle banche. Ragione per cui una normale manovra di “rotazione” dei portafogli degli investitori istituzionali rischia di incidere non poco sull’andamento dell’indice generale.

NEL COMPLESSO I MOTIVI DI SCETTICISMO SONO FONDATI

Bisogna francamente ammettere che il quadro sin qui riportato è tutto sommato abbastanza preoccupante: un circuito mondiale delle borse valori fortemente condizionato dall’eccesso di liquidità pompata dagli stimoli delle banche centrali, le cui valutazioni sono giunte ai massimi di sempre tanto come valori assoluti quanto in relazione ai multipli di redditività, per di più condizionata da fattori distorsivi come i programmi di riacquisto delle azioni proprie e i sistemi di trading automatici.

Quali sarebbero i valori attuali dei listini di borsa se non fossero intervenuti quei fattori distorsivi, se gli investitori istituzionali non avessero adottato sistemi di trading che fanno propendere per la crescita dei valori basata sulla liquidità disponibile, se non ci fosse stata l’esplosione delle quotazioni dei principali titoli tecnologici (che però sono principalmente basate sulle aspettative di incremento esponenziale degli utili)?

LE VARIABILI MACROECONOMICHE

La vera risposta probabilmente risiede nelle variabili fondamentali dell’economia, le stesse che sino ad oggi sono state un po’ trascurate nella foga delle ipervalutazioni di borsa e che oggi, forse giunti a un punto di svolta, possono illuminare il cammino dinanzi a noi.
Ebbene però: l’indicazione che proviene da quelle variabili non potrebbe essere più positiva! A partire dalla crescita del prodotto mondiale lordo, stimata per il 2017 ad almeno il 3,6% (la più alta dal 2011) e al di sopra della media storica di lungo termine, pari al 3,5% (media altissima che comprende tanto la seconda rivoluzione industriale quanto l’avvento della grande distribuzione, quello dell’elettronica di massa e quello dell’avvento di internet).

A scriverlo è la Morgan Stanley in un suo recentissimo report dove tra l’altro smentisce le previsioni catastrofiche sulle borse formulate dal già citato premio Nobel Robert Schiller.

Una serie di fattori concorrono a questo giudizio così deciso:

– La crescita attuale si sviluppa congiuntamente tanto nei Paesi Emergenti quanto in quelli più sviluppati, con la relativa sorpresa dell’Unione Europea;
– Il commercio internazionale ha ripreso a correre a ritmi elevati sia in volume che in valore, come non succedeva da un quinquennio;
– Anche gli investimenti sono in decisa crescita nel mondo, persino a prescindere dalla solita Cina (che investe mendiamente il 40% del proprio P.I.L.) e questa è una misura piuttosto importante del fatto che la crescita attuale non sia effimera;
– La ripresa economica attuale peraltro è diversa da quella del 2010-2011, nella quale il movimento di rimbalzo dalla crisi profonda degli anni precedenti e la forte spinta degli stimoli monetari ai mercati finanziari avevano di per sé drogato l’effetto statistico finale.

Una volta tenuto conto di tutti questi elementi risulta più chiaro l’ottimismo di fondo espresso da Morgan Stanley per l’economia globale: la ripresa attualmente in corso rassomiglia di più a quella del periodo 2003-2006 che non a quella del 2010-2011 ed è piuttosto equamente ripartita in quasi tutte le zone del mondo.

LA TURBOLENZA POLITICA AMERICANA CONDIZIONA GLI ANIMI

Se teniamo conto del fatto che alla crescita del prodotto interno lordo globale si accompagnano anche la discesa della disoccupazione (o meglio: il maggior numero di occupati) e la ripresa dei consumi, il quadro complessivo dunque spiega piuttosto bene le attese per un forte aumento dei profitti netti delle società quotate, che si accompagna al tempo stesso ad un miglioramento dell’efficienza produttiva, dunque ad un miglioramento dei margini più che proporzionale all’aumento dei fatturati.

Eppure più andiamo avanti e più tra gli operatori serpeggiano dubbi sulla tenuta degli attuali livelli raggiunti dalle borse, a partire dalla più importante di tutti: quella americana.
E qui il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dell’ottimo adoperata per osservarlo: gli ottimisti ritengono che prima o poi le nubi della lotta politica si diraderanno per necessità, lasciando spazio a quelle riforme volute da Trump e agli ulteriori effetti afrodisiaci sull’economia e a una maggior distensione internazionale relativamente ai focolai di guerra in essere, mentre i pessimisti temono che quanto visto sun qui sia solo l’antipasto di una lotta furibonda tra poteri più o meno occulti, che si svilupperà attraverso nuove guerre e nuovi stop alle riforme economiche.

È evidente che in questo secondo caso “il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo” come argomentava già Alan Turing, in un suo saggio del 1950: “Macchine calcolatrici e intelligenza”, dove anticipava il futuro luogo comune dell’ “effetto farfalla”.
Per quanto improbabile possa apparire, in un mondo magicamente e per la prima volta nella storia davvero interconnesso, non è un’idea che si può relegare alle sole ipotesi scientifiche!

Stefano di Tommaso




I RETROSCENA DEL MILIARDO DI EURO SBORSATO DA MICHAEL KORS PER COMPRARE JIMMY CHOO: UN BIGLIETTO DI INGRESSO NEL PARADISO DEI BENI DI LUSSO

Le sorti del titolo Michael Kors a Wall Street non andavano troppo bene da un anno a questa parte, complice una certa disaffezione degli investitori istituzionali nei confronti dei produttori generalisti di accessori e abbigliamento come pure delle grandi catene fisiche distributrici nel medesimo settore (vedi grafico):

 

NONOSTANTE LA CRESCITA DEL FATTURATO, IL MERCATO AZIONARIO NON APPREZZAVA LA MICHAEL KORS

La stessa Michael Kors aveva annunciato lo scorso Maggio la possibile chiusura di un centinaio di propri punti vendit. La disaffezione del mercato nei confronti delle catene di distribuzione di accessori e abbigliamento ha anche provocato di recente la riduzione del numero di operazioni di fusioni e acquisizioni nel settore, come si può vedere nel grafico qui riportato:

La morsa del commercio elettronico infatti si sente un po’ per tutti gli operatori, ma l’accordo di compravendita relativo a Jimmy Choo (la marca preferita di scarpe dell’attrice Sarah Jessica Parker, notissima come Carrie Bradshaw, protagonista indiscussa della fortunata serie televisiva “Sex&the City”) rivela un aspetto inusitato del mercato: la disaffezione degli investitori evidentemente non riguarda i grandi marchi del lusso!

IL PREZZO È ESORBITANTE MA È UN BUON MATCH

Il prezzo pagato (+36% sul valore di base d’asta dei venditori) appare anche significativamente superiore all’obiettivo di raddoppio delle vendite che Michael Kors si attende dal rilancio di Jimmy Choo: un miliardo di dollari entro pochi anni dopo che la stessa ha concluso il 2016 con un fatturato di $460 mln. Anche prendendo per buono tale obiettivo, il prezzo pagato è ancora del 20% superiore alle vendite attese (in dollari è stato pari a circa 1,2 miliardi!

Invece di preoccuparsene però il mercato azionario americano ha premiato l’annuncio dato da Michael Kors quando questi ha rivelato il fortissimo esborso per la Jimmy Choo. Ecco il grafico:

LA SCARSITÀ DI MARCHI DI GRANDE RINOMANZA

Il più diffuso commento sull’operazione riguarda infatti la relativa scarsità di target di grande qualità per possibili acquisizioni da parte degli altri operatori.
Il mercato scommette dunque sul fatto che i (pochi) marchi di assoluto prestigio restino indenni dalla mattanza dei margini operativi nel settore monda derivante dall’effetto congiunto della globalizzazione e delle vendite online.
In altre parole, l’acquirente attraverso questa operazione, è riuscito a riaffermare la sua  natura complessiva di grande operatore nel mercato dei beni di lusso. Un mercato che non teme rivali in quanto a moltiplicatori e stabilità dei profitti.

IL MONDO DORATO DEI BENI DI LUSSO

Ecco ad esempio il grafico dell’ultimo anno relativo al titolo Kering (conosciuta in precedenza come Pinault-Printemps-Redoute o PPR): una multinazionale fondata dall’imprenditore francese Pinault. Kering capitalizza in borsa 47 volte gli utili attesi di circa un miliardo di dollari e viene valutata perciò 47 miliardi. Come si può vedere l’andamento è rimasto sempre positivo e l’indice della variabilità del suo prezzo in relazione al resto del mercato (il beta) è estremamente ridotto (cioè è un titolo stabile ed in crescita).

UN LEADER CREDIBILE

Le considerazioni degli analisti non si sono evidentemente fermate qui: John Idol, il leader della Michael Kors che l’ha rilevata nel 2003 quando fatturava 20 milioni di dollari, ha chiuso in crescita il fatturato 2016 a 2,4 miliardi di dollari e può vantare una significativa esperienza nel settore in qualità di ex direttore generale di Donna Karan (DKNY), una storica icona della moda americana.

Il suo programma per far crescere il valore dell’acquisizione (dalle sinergie nelle borse da donna a quelle nelle scarpe da uomo) è piaciuto agli analisti ed è stato percepito all’altezza della sfida: quella della sua definitiva accettazione nel mondo dorato del lusso, “l’unica sovrastruttura capitalista non soggetta a cedimenti anche quando il mondo crolla”, come scriveva il beato Antonio Rosmini, per giustificare le spese dei ricchi della cerchia di Alessandro Manzoni che gli permettevano di studiare in collegio a Stresa.

 

Stefano di Tommaso