ANCORA TORO A WALL STREET?

Le relazioni commerciali internazionali sembrano in fiamme. Non c’è giornale che non ne parli e non c’è politico al mondo che non ne risulti preoccupato. Donald Trump venerdì scorso sembra aver imboccato una strada apparentemente senza ritorno dichiarando ulteriori dazi e tariffe contro le importazioni dalla Cina per 34 miliardi di dollari (con la conseguente contromisura presa immediatamente da quest’ultima).

 

A questo punto i mercati finanziari sono tutti sotto osservazione, con cali anche vistosi. Tutti salvo quello americano. I mercati borsistici dei Paesi Emergenti sono sotto mediamente del 20% dall’inizio del 2018, ma a queste perdite si devono sommare quelle delle divise valutarie in cui sono espressi i rendimenti delle borse dei Paesi Emergenti. Una vera e propria Caporetto per gli investitori non basati sui dollari, che certamente potrebbe finire per contagiare anche l’America, ma occorre notare che al momento quest’ultima ne è rimasta indenne. E almeno fino alle elezioni di medio termine (Novembre) c’è una certa possibilità che l’attuale tendenza rimanga invariata. Come è possibile?

LA SCOMMESSA DI TRUMP

Trump ha fatto capire che le sue iniziative doganali nascono dal fatto che sino a ieri l’America lasciava entrare i prodotti di chiunque e che era ora di smetterla con atteggiamenti non “simmetrici” da parte degli altri Paesi. Questo potrebbe significare che, di fronte a un passo indietro di cinesi, canadesi, messicani ed europei, anche Trump potrebbe togliere i dazi, ma non possiamo non prendere atto che per i suoi fini l’attuale politica commerciale ha funzionato alla grande! Non soltanto l’occupazione continua a crescere negli USA ma anche e soprattutto i profitti delle imprese stanno volando: ci si attende che i dati del secondo trimestre rivelino una loro crescita oltre il 20% sullo stesso periodo dell’anno precedente.

IL RICATTO CINESE DEL TECHNOLOGY TRANSFER

Nonostante la martellante campagna stampa contro Trump e i suoi dazi, l’opinione pubblica interna al paese tende a dargli ragione. Senza considerare che nei confronti di Paesi Emergenti come la Cina o il Messico esistono anche altri rilevanti problemi sollevati per la prima volta solo da Trump: ad esempio l’imposizione del “Technology Transfer” a tutte le imprese che vanno a investire in Cina senza che ci sia poi una valida tutela delle opere d‘ingegno significa dare la possibilità pratica alle imprese cinesi di copiare i prodotti americani ed europei (per i quali sono stati investiti quattrini in ricerca e sviluppo) per riproporli a basso costo fabbricati illegalmente.

Per non parlare del Messico dove la scarsa sicurezza sociale e sul lavoro spinge tutte le multinazionali ad impiantare siti industriali per poi esportare i manufatti colà prodotti negli USA. E’ chiaro che questo toglie posti di lavoro (o migliori salari) agli operai americani, già assediati dai disperati che varcano illegalmente i confini per cercare direttamente lavoro negli USA facendo loro concorrenza sui salari perché accettano paghe molto basse.

Difficile persino per noi Europei dare torto a Trump su questi ultimi temi. Anche perché per il momento l’America sta attirando capitali da tutto il resto del mondo con il risultato che l’economia americana continua a tirare e le imprese americane a fare -appunto- lauti profitti.

GLI U.S.A. SONO DIVENTATI IL PRIMO ATTORE NELLE ENERGIE

Ciò che poi è passato proprio in sordina è stata l’accelerazione della produzione americana di petrolio e gas, che ha tratto ottimo profitto dall’ascesa dei loro prezzi. Oggi gli USA ne sono diventati più che mai il più importante produttore e non se ne parla molto perché al tempo stesso essi sono anche il loro primo consumatore. Ma questo ancora una volta significa che l’economia americana tira più del previsto, nonostante le statistiche e nonostante le campagne stampa avverse all’attuale Presidente.

Certo le guerre commerciali sono comunque delle guerre e, al di là di un loro utilizzo strettamente tattico, esse non possono mancare di esigere -come tutte le guerre- un tributo di “sangue” anche alle imprese e ai lavoratori americani. E questo è un terreno molto scivoloso per il primo Presidente che ha dichiarato guerra a praticamente tutte le altre nazioni del mondo, perché se dalla sua scelta di rinegoziare gli accordi commerciali su base bilaterale (invece che attraverso gli organismi sovranazionali) non otterrà presto dei risultati sarà allora la sua posizione politica a cominciare a logorarsi. Quello che se ne può dedurre è che probabilmente Trump lo sappia benissimo e che dunque oggi spinge più che mai sull’acceleratore del confronto-scontro sia perché è riuscito a infliggere del dolore alle controparti europee e cinesi le quali adesso stanno finalmente valutando se continuare a rispondere tono su tono alle provocazioni o scendere a compromessi, ma anche perché Trump è il primo che ha altrettanta fretta di fare marcia indietro.

LE GUERRE COMMERCIALI NON POSSONO DURARE ALL’INFINITO

I grandi operatori sui mercati finanziari (quasi tutti americani) lo hanno sempre saputo e sino ad oggi non si sono preoccupati molto delle guerre commerciali, ma se dovranno constatare che l’escalation prosegue e se il gioco dovesse tirare in lungo dovranno prendere atto che questo rischierebbe di produrre forti danni all’economia globale. Se a rischio ci saranno i profitti futuri delle imprese multinazionali americane allora le borse valori potrebbero iniziare a flettere nonostante le numerose buone notizie e contribuire esse stesse a trascinare al ribasso anche la crescita economica globale. Ma Trump non resterà a guardare che questo accada, anche se per farlo onorevolmente egli dovrà mettere a segno delle vittorie almeno parziali, sulla base delle quali egli giocherà la sua chance di fare il buon gesto nei confronti di tutti gli altri “avversari”.

CHI GUADAGNA A WALL STREET: “TECNOLOGICI” E “SMALL CAP”

In ogni caso c’è tuttavia una certa probabilità che la crescita economica americana resti forte per la restante parte del 2018 e che essa riguarderà ancora una volta i titoli tecnologici e le “small cap” (i titoli a bassa capitalizzazione) che sino ad oggi hanno reagito meglio alla riduzione delle tasse. Con buona pace di tutti coloro (tra cui il sottoscritto) che gridano allo scandalo delle iper-valutazioni e mettono in guardia sulla relativa illiquidità dei titoli a bassa capitalizzazione.

La conclusione di questo ragionamento è che se quanto sopra è corretto allora parallelamente alla prosecuzione della tendenza della prima parte dell’anno (Wall Street su
e Europa giù) anche tanta volatilità è ancora una volta attesa per i mesi a venire, mentre scarsa attenzione sarà riservata ai parametri economici fondamentali delle imprese, almeno sintantochè i profitti delle imprese (principalmente quelle tecnologiche) continueranno copiosi.

 

RIALZO FINO A NOVEMBRE?

Dunque potrebbe esserci ancora una volta un rialzo di Borsa (nella sola Wall Street) a breve termine (lo stesso termine entro il quale Trump deve riuscire a invertire la rotta che lo ha portato alle guerre commerciali) e invece una certa probabilità di ribasso delle borse nel medio Termine (cioè dall’autunno in poi), soprattutto se la sua manovra sui dazi non avrà avuto rapido successo.

Ciò vale anche per le quotazioni delle materie prime: nonostante il Dollaro forte (che però non durerà in eterno): il rialzo dei loro prezzi potrà generare la sensazione che una nuova ondata inflazionistica sia alle porte. In quel caso la stretta che la FED (la banca centrale americana) si troverebbe contretta a muovere potrebbe risultare come la classica buccia di banana sulla quale veder scivolare le prospettive di crescita dell’intera economia globale! E con l’ammontare in circolazione di debiti pubblici da sfamare a tassi bassi nessuno pensa che ce lo possiamo permettere! Ma tutte queste sono preoccupazioni marco-economiche che non impattano sull’andamento delle borse, anzi: di solito con l’inflazione che risale (segno di riscaldamento della crescita economica) anche le azioni vanno su.

Dunque, nonostante i rischi legati agli effetti negativi per i Paesi Emergenti (tra i quali tocca oramai annoverare anche il nostro) della risalita dei tassi d’interesse americani, se lo scenario non muta chi ci rimetterà potrebbero essere i Paesi a più bassa crescita economica e i non-produttori di materie prime come gli Europei, mentre chi ci guadagnerà potrebbero essere -oltre a quello americano- i mercati finanziari che più hanno perduto terreno fino ad oggi, come quello cinese.

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo e quelle appena esposte sono solo ipotesi. Ma se ci chiedevamo quanto potrebbe durare il prossimo rialzo la risposta sembra abbastanza esauriente: non così poco!

Stefano di Tommaso




BORSE: LE VENDITE ARRIVANO DA LONTANO

I mercati finanziari stanno fronteggiando in queste ore uno dei momenti più contrastati e difficili da inizio anno. I giornali tendono a darne la colpa al successo politico dei partiti cosiddetti “populisti”, oppure alle sanzioni economiche e alle guerre commerciali dell’America, e così pure le autorità monetarie e di borsa vorrebbero provare a minimizzare i timori tentando di indicare prospettive migliori nelle loro previsioni di medio termine. Ma la verità dell’attuale congiuntura economica internazionale rischia purtroppo di superare la peggiore fantasia.

 

L’INFLUSSO DEL SUPER-DOLLARO

Il momento è divenuto difficile innanzitutto a causa del contesto generale valutario, che vede il super-dollaro e i suoi super-rendimenti di una Federal Reserve che non si preoccupa di fargli schiacciare praticamente ogni altra valuta e, soprattutto, di generare un effetto di risucchio dei capitali verso le piazze finanziarie considerate meno a rischio (a partire da New York). L’effetto dell’aumento dei tassi americani si somma poi alle politiche di “tapering”(cioè di marcia indietro dagli stimoli monetari) delle banche centrali creando un clima di attesa per ulteriori cali in borsa.

I CAPITALI FUGGONO DAGLI EMERGENTI MA NON VANNO A WALL STREET

I capitali dunque fuggono dalle altre valute e dai Paesi Emergenti ma non vanno a Wall Street. Preferiscono casomai i Treasuries (BTP a 10 anni americani) se non i veri e propri beni-rifugio. Il fenomeno della fuga dei capitali cioè, unito agli effetti dirompenti (anche perché troppo bruschi) di un fisiologico ritorno alla normalità dei mercati finanziari dopo la sbornia di liquidità che li aveva invasi, significa che quest’ultima sta letteralmente crollando un po’ ovunque (America compresa) e che quindi riuscire a vendere i titoli azionari detenuti dagli investitori risulta oggi parecchio più difficile.

LA MOSSA DELLA CINA

Per contrastare tale deriva la banca centrale della Cina ha appena deciso di far sbloccare dalle banche piccole e grandi dell’ex Celeste Impero riserve obbligatorie per l’equivalente (diretto e indiretto) di 500 miliardi di Dollari (si, avete letto bene: più del doppio del totale delle richieste americane per il riequilibrio della bilancia commerciale) nel tentativo di arginare la fuga dei capitali oltre confine e il crollo dei titoli obbligazionari espressi in Renminbi che farebbe crescere i tassi . Ha anche aggiunto che intende far indirizzare quella montagna di liquidità che si libera per le banche cinesi nella direzione della trasformazione in capitale dei debiti delle aziende più bisognose di supporto, allo scopo di assicurarsi che essa affluisca tutta e subito all’economia reale.

MA NON BASTA NEANCHE QUESTO

Ma la verità è che se anche altri Paesi (il Giappone in testa) procedessero con nuove iniziative di sostegno alla liquidità dei mercati finanziari, oggi nessuno si aspetta che essa basti a invertire davvero l’andamento generale, che vede un improvviso peggioramento delle prospettive per la quasi totalità dei Paesi Emergenti e, di riflesso, anche una forte incertezza per le borse più importanti, dove gli operatori hanno fiutato il rischio di un crollo globale dei titoli azionari e quello, conseguente, di una nuova possibile recessione.

I PROFITTI E I BUY-BACK AZIENDALI NON SONO SUFFICIENTI

Insomma, se fino a un paio di mesi fa poteva sussistere il dubbio se il calo della liquidità in circolazione sui mercati finanziari sarebbe stato compensato (o meno) dall’ottimo andamento dei profitti per le aziende industriali e dai massicci programmi di “buy-back” (alla lettera: “riacquisto azioni proprie”) varati da tutte le grandi imprese del mondo quotate in borsa, oggi quel dubbio si è trasformato in una certezza: assolutamente no! Profitti e buy-back non sono bastati a compensare un bel niente, visto che al calo della liquidità proveniente dalle banche centrali si sono sommate le fughe degli investitori istituzionali dai mercati borsistici e grigie prospettive di crescita per i Paesi Emergenti che a loro volta fanno pensare ad un calo dei consumi di questi ultimi.

IL RISCHIO DI IMPLOSIONE DELLA SPECULAZIONE CHE TIENE ALTI I LISTINI

Dunque un po’ in tutte le borse chi oggi ancora compra titoli sembra essere rimasto insomma soltanto quel famigerato “parco buoi” di antica memoria, che negli ultimi anni si è trasferito dalle stanze dei borsini ai monitor del “trading online” (le compravendite di titoli dal computer di casa), ma che arriva ogni volta troppo tardi a sentire che aria tira. E poi oggi una quota consistente della capitalizzazione complessiva delle borse è data dalla speculazione sui titoli cosiddetti “tecnologici”, che spesso esprimono moltiplicatori del reddito paragonabili a quelli che si vedevano poco prima dello scoppio della bolla speculativa delle “dot com” alla fine degli anni novanta. Il rischio di un loro ritracciamento su valori più congrui è concreto, ma potrebbe trascinare al ribasso tutta Wall Street. In Italia c’è meno speculazione sui titoli tecnologici (che sono quasi tutti stranieri) ma in compenso c’è l’effetto positivo dei cosiddetti P.I.R. (i piani individuali di risparmio, che godono di un consistente sgravio fiscale), ma anche il limite che gli investimenti di questi ultimi vanno in parte su un listino -l’A.I.M.- che è cresciuto piu degli altri e con una scarsa liquidità di fondo.

LO SPETTRO DI UNA NUOVA RECESSIONE

Il quadro complessivo è peggiorato dall’appiattimento della curva dei rendimenti (quelli a breve sono saliti allo stesso livello di quelli a lungo termine) che storicamente è sempre stato il segnale più attendibile dell’arrivo di una nuova recessione economica e dalla discesa generale delle aspettative di crescita dei consumi (se non addirittura un loro calo) anche in Occidente, dettate principalmente dai forti timori della gente di vedere la propria previdenza sociale (o integrativa) per molti motivi largamente insufficiente a garantire una serena vecchiaia o adeguate risorse per sostenere eventuali necessità di cure sanitarie. La risposta a tale certezza perciò è oggi quella di spendere meno e risparmiare di più. Ma non speculando in borsa con la volatilità che è risalita parecchio, bensì cercando titoli a lungo termine con basso rischio.

I DEBITI PUBBLICI NON HANNO FATTO IN TEMPO A SGONFIARSI

Tuttavia in questo quadro di fattori recessivi anche i debiti pubblici della maggior parte delle nazioni del mondo fanno oggi più paura di prima, dal momento che la minor crescita economica attesa rende più difficile che vengano rimborsati. La loro presenza poi costituirà una forte zavorra che frenerà l’avvio di nuove politiche fiscali, senza contare che la tassazione delle imprese è già scesa un po’ dappertutto a minimi storici e che anche sul fronte delle politiche monetarie, di spazio per un loro rilancio ne è rimasto poco alle banche centrali che non hanno fatto in tempo a svuotare i forzieri pieni di titoli recentemente acquistati.

IL POSSIBILE LANCIO DEI GRANDI PROGETTI INFRASTRUTTURALI

Dunque le “munizioni” per pensare di contrastare una nuova -probabile- recessione globale sembrano essere soltanto quelle dei grandi programmi di investimenti infrastrutturali, da finanziare principalmente con il cosiddetto “debasement” valutario, cioè con nuova stampa di denaro da parte delle banche centrali o con titoli emessi a lungo termine emessi da organismi sovranazionali che potrebbero essere rimborsati con i redditi derivanti da ciascun progetto.

L’operazione risulterebbe tecnicamente fattibile (anche perché l’inflazione pare restare bassa e sotto controllo persino adesso che i prezzi del petrolio volano) ma se l’iniziativa non verrà portata avanti presto e con molta decisione essa rischia di non bastare affatto a liberare l’orizzonte dai nuvoloni che si addensano. Donald Trump l’aveva addirittura annunciato prima di essere eletto e potrebbe ancora avere le maggioranze politiche per farlo, ma che ciò possa riuscire ad accadere presto anche in Europa (con i soliti tedeschi che frenano e i francesi che provano a specularci sopra) è tutto sommato piuttosto improbabile.

MA LA FIDUCIA È LA MERCE PIÙ PREGIATA E OGGI SCARSEGGIA

E se sui mercati finanziari la merce più pregiata è proprio la fiducia degli investitori, essa è da sempre anche la più difficile da conseguire. Ecco: l’aspettativa di nuovi massimi di borsa sembra essere esattamente ciò che manca in questo momento, in cui le imprese invece di guardare al futuro investendoci pesantemente usano le loro risorse per acquistare azioni proprie. Visto che la speculazione lavora anche al ribasso possiamo assistere ad un recupero delle borse dovuto alle ricoperture delle posizioni corte, ma i rischi complessivi sono alti e la tendenza di fondo sembra negativa.

Stefano di Tommaso




GLI INVESTIMENTI INDUSTRIALI CRESCONO

Uno studio di Morgan Stanley rivela che la “crescita globale sincronizzata” riguarda anche gli investimenti, con buona pace dell’inflazione e qualche speranza per le borse.

Si è scritto più volte che le buone notizie per l’economia possono risultare cattive per i mercati finanziari ma più difficilmente si è giunti a sostenere anche il contrario: che le cattive notizie per questi ultimi possano risultare positive per l’economia reale. Ebbene, questa volta forse si può dimostrarlo: mentre le borse e i titoli a reddito fisso si teme possano prendersi qualche pausa di respiro a causa della crescita dei tassi di interesse (anche ulteriori rispetto a quelli che oggi auspicherebbero le banche centrali), c’è motivo di credere che la risalita dei rendimenti possa coincidere con un periodo di ripresa degli investimenti produttivi e che questo possa concorrere a determinare un deciso prolungamento dell’attuale super-ciclo economico, risultando dunque foriero di nuove buone notizie per l’industria.

In un recente articolo dell’autorevole colosso dell’informazione Bloomberg si cita infatti una ricerca di Morgan Stanley che rivela un nuovo picco (rispetto al massimo toccato nel 2011) degli investimenti produttivi. Lo ha dichiarato in un’intervista l’autorevole Chetan Ahya, co-head del dipartimento di “global economics” alla Morgan Stanley di Hong Kong.

Saremmo dunque di fronte all’estensione ai Paesi Emergenti non solo della “crescita sincronizzata” delle economie ma anche della “crescita sincronizzata” degli investimenti. Non ci sarebbe quindi solo una ripresa contestuale in buona parte del mondo dei consumi e dei salari che normalmente porta a far crescere parallelamente i prodotti interni lordi ma anche l’inflazione (la cosiddetta “Curva di Phillips”), ma anche e soprattutto un pari incremento degli investimenti produttivi, in molti casi trainati dalla vivacità della domanda di beni, con il salutare effetto disinflazionistico di ampliare l’offerta di beni e servizi.

Ad esempio la forte domanda di telefoni cellulari intelligenti ha determinato un’attesa di crescita degli investimenti produttivi nel settore dei semiconduttori dell’ordine di oltre il 30%. Secondo la medesima Bloomberg tra i principali operatori nella produzione di automobili le attese per un incremento degli investimenti nel prossimo anno sono ancora più marcati: dell’ordine del 21% per la Cina, del 23% per il Giappone e, addirittura, del 40% per l’Europa. Anche nelle telecomunicazioni esiste in tutto il mondo industrializzato un‘analoga aspettativa a causa dell‘ imminente avvento dei bandi per l’aggiudicazione delle nuove reti di telecomunicazioni cellulari di quinta generazione (il cosiddetto 5g) che in molti casi soppianteranno anche le telecomunicazioni via cavo.

Se l’andamento favorevole degli investimenti produttivi che ci si aspetta nell’elettronica e nel comparto automobilistico fosse riscontrato da ulteriori prove negli altri settori industriali saremmo al cospetto di un epilogo decisamente positivo della lunga campagna di facilitazioni monetarie che hanno portato negli ultimi anni ad una forte crescita della liquidità disponibile sui mercati finanziari ma che sino ad oggi non si era quasi riversata sull’economia reale e che stavolta invece starebbe finalmente indirizzandosi a finanziare gli investimenti pro-ciclici, così come era inizialmente stato ipotizzato dai loro ispiratori.

Se non ci fosse stato il Quantitative Easing insomma l’attuale esigenza di capitali per gli investimenti si sarebbe trasformata in un eccesso di domanda di capitali rispetto all’offerta e a un eccesso di domanda di credito, probabilmente surriscaldando il mercato finanziario e i suoi rendimenti attesi. La grande liquidità in circolazione invece potrebbe finalmente tornare utile proprio mentre le principali banche centrali del pianeta si stavano apprestando a ridurla per timore di fiammate inflazionistiche.

Il contesto economico generale risulta peraltro ampiamente positivo per le ulteriori crescite registrate nei Paesi Emergenti anche a causa della risalita dei prezzi delle principali materie prime e della contestuale debolezza del Dollaro americano, una combinazione favorevole ad attrarre capitali e investimenti anche nelle zone del mondo diverse dal sud-est asiatico dove la ripresa ha fatto sinora fatica a mostrarsi (ad esempio: Sud America).

Lo scenario di crescita sincronizzata anche degli investimenti, tutto ancora da confermare, aiuterebbe necessariamente la crescita dei tassi di interesse ma avrebbe al contempo molti positivi risvolti nei confronti dei timori di un ritorno dell’inflazione galoppante a causa del fatto che in generale gli investimenti tecnologici e distributivi hanno come effetto l’ampliamento dell’ ”output di produzione” come dicono gli economisti (e cioè della capacità produttiva) facendo crescere dunque l’offerta di beni e servizi e la produttività del lavoro. Ciò, come sopra accennato, potrebbe costituire il miglior epilogo possibile della lunga era di interventi delle banche centrali all’indomani della crisi finanziaria che si è sviluppata a partire dal 2008.

Lo scenario avrebbe peraltro un ulteriore effetto positivo sul gettito fiscale di tutte le economie coinvolte nella crescita sincronizzata, dal momento che i profitti aziendali si ipotizza che possano trarne ulteriori impulsi, con la speranza che ciò porti a una riduzione della proporzione tra debito e dimensione delle economie, che sino ha ieri ha guastato i sonni ai governanti e ai banchieri centrali di mezzo mondo (tra i quali quelli nostrani) ma avrebbe l’ulteriore effetto di promuovere anche gli investimenti infrastrutturali, una categoria di capitoli di spesa che necessita di decisi stimoli da parte degli stati nazionali e degli organismi sovranazionali, che per molti motivi ancora mancano all’appello di una vera e propria ripresa economica con i fiocchi !

Ci sono perciò al momento molti motivi di ottimismo per tenere d’occhio l’andamento dell’economia globale e l’incremento conseguente dei tassi di interesse reali, per una volta con effetti positivi per i salari, oltre che per la prosecuzione dello slancio dei profitti aziendali, tutti fattori che potrebbero controbilanciare positivamente la tendenza dei mercati finanziari a deprimersi contestualmente alla risalita del saggio di interesse al quale si scontano i redditi futuri.

Stefano di Tommaso




I PROFITTI E I FONDAMENTALI DELL’ECONOMIA TENGONO ALTE LE BORSE

Siamo arrivati quasi al mese di Agosto e i sapientoni che continuavano a prevedere un disastro imminente sui mercati finanziari ancora una volta sono stati smentiti dai fatti! Ovviamente in una situazione così contraddittoria nessuno può fare previsioni inequivocabili. Anzi, per molte ragioni i mercati potrebbero sperimentare qualche imprevisto temporale estivo! Però quando l’analisi tecnica dell’andamento dei mercati non ci viene incontro non resta che guardare agli elementi fondamentali dell’economia globale. È quello che anch’io intendo fare per commentare la situazione generale e dedurne qualche utile considerazione.

 

Le stime che riguardano la crescita economica mondiale infatti sono tutte in continua revisione al rialzo, mentre quelle che riguardano la previsione di un ritorno dell’inflazione sono assai più controverse perché non sembra esserci alcuna “curva di Phillips” in grado di spiegare più o meno linearmente per quale motivo i prezzi i beni e servizi quasi non si allineano al rialzo mentre l’occupazione e le retribuzioni salgono un po’ in tutto il pianeta.
Persino la Federal Reserve Bank of America ha sentito la necessità di esprimersi al riguardo, correggendo un po’ il tiro e ammettendo che per rivedere un rialzo dei prezzi generalizzato ci vorrà ancora molto tempo.

Questo non significherà necessariamente che i tassi (soprattutto quelli a lungo termine) non potranno salire ugualmente. Troppi i motivi per cui dovrebbero comunque farlo, a partire dal fatto che le autorità monetarie di tutto il globo è da tempo che blaterano in tal senso ma poi hanno di fatto mantenuto gonfi i loro portafogli di titoli acquistati sul mercato, lasciando vicini ai minimi storici i tassi di interesse e addirittura innalzando la liquidità disponibile sui mercati finanziari.

È chiaro a tutti che prima o poi le banche centrali dovranno invertire la rotta e che questo non potrà che elevare i livelli dei saggi di interesse, costringendo i mercati a guardare solo agli elementi fondamentali dell’analisi economica e a chiedersi se le valutazioni implicite che circolano in Borsa sono corrette. Una manovra che può portare qualche sussulto sui mercati.
È altrettanto chiaro però che questo non accadrà tanto presto, almeno sin tanto che i loro uffici studi non spiegano meglio per quale motivo l’armamentario degli strumenti di analisi economica (a partire dalla Curva di Phillips) non funzionano più.

GLI UTILI AZIENDALI

In realtà basta guardare meglio all’esplosione dei profitti delle principali società quotate in Borsa in tutto il mondo e alla crescita complessiva del reddito lordo prodotto dai cittadini di tutto il mondo (in qualche caso, come in Italia, quello netto è più o meno totalmente controbilanciato da un incremento della pressione fiscale).

Non solo sono saliti in tutto il mondo gli utili aziendali riportati nel primo trimestre 2017, ma dalle prime indicazioni che arrivano da J.P. Morgan e Citi Bank sembra che la festa sia decisamente continuata nel secondo. A partire dalle banche e società finanziarie, posizionate per beneficiare al meglio della situazione. Sinanco quelle europee, dopo che sono riuscite a tagliare buona parte degli sprechi e delle inefficienze, adesso vedono che il mercato finanziario fa affluire loro quei capitali che possono permettergli di riprendere a fare il loro mestiere fondamentale: prestare denaro.

Oltre ai titoli finanziari quelli per i quali ci si può aspettare maggiore attenzione da parte degli investitori sono probabilmente i grandi produttori di commodities a buon mercato (ici inclusi i metalli e in particolare l’acciaio), mentre tra i titoli tecnologici sarà sempre più evidente che rimangono sulla cresta dell’onda quelli più liquidi e patrimonialmente solidi e, tra questi, quelli che non hanno deluso le aspettative di crescita.

I FONDAMENTALI MACROECONOMICI

Il Fondo Monetario Internazionale ha incrementato quest’anno le aspettative di crescita economica globale dal 3,5% al 3,8%, ben al di sopra del 3,1% realizzato nel 2016. Le migliori sorprese sono arrivate dall’Europa e dal Giappone, per le quali si prevedeva uno scenario molto più statico ma secondo il mio modesto parere queste si spiegano assai bene con la volata delle rispettive esportazioni, che a loro volta sono generate da una crescita economica anche al di sopra di quanto rivelano le statistiche nelle aree dov’è più si concentra la popolazione mondiale e la sua relativa espansione demografica: i Paesi Emergenti, con l’Asia in testa, Cina e India comprese.

Persino il Prodotto Interno Lordo degli U.S.A. è previsto che quest’anno crescerà di almeno il 2%, sebbene la macchina politico-legislativa americana resti intrappolata nello stallo istituzionale seguìto alle accuse rivolte al neo-Presidente Trump di aver ricevuto un supporto dagli “hackers” russi. Ciò accade nonostante il governo non stia concludendo nulla sul fronte della riduzione fiscale e neppure su quello della spesa infrastrutturale!

Anzi, in tutti i paesi avanzati si rivedono copiose delle nuove quotazioni in Borsa (sulle quali era sceso un certo gelo da parte degli investitori) e continua imperterrita la crescita delle Fusioni ed Acquisizioni, che in tanti casi hanno avuto un ruolo positivo nelle razionalizzazioni da queste provocate e dunque nel miglioramento dei profitti aziendali. Le aspettative sono di ulteriori avanzamenti in tal senso e dunque i fattori fondamentali al lavoro in sottofondo fanno sperare che questo scenario quasi idilliaco possa non venire interrotto.

IL BASSO RUMORE DI FONDO DERIVANTE DALLE TENSIONI GEOPOLITICHE AIUTA LA CRESCITA DEI PAESI EMERGENTI

Dunque osserviamo uno scenario economico globale positivo cui si temeva potesse guastare la festa il riacuirsi delle tensioni internazionali, che invece sembrano essere state quasi quasi un fuoco di paglia. E se neanche la geo-politica rovinerà queste aspettative moderatamente ottimiste allora possiamo sperare che sarà quasi indolore il progressivo disimpegno delle autorità monetarie dagli stimoli imposti sino ad oggi?
Inutile dire che l’ottima salute -nonostante tutti i soloni- che stanno mantenendo i mercati finanziari, non aiuta necessariamente a sollevare dalla povertà le fasce più povere della popolazione, non riduce (anzi aumenta) le disuguaglianze nel reddito e, soprattutto, non cancella i debordanti e in qualche caso -come quello nostrano- addirittura crescenti debiti pubblici.

Però l’elevato livello (consolidato oramai da tempo) dei mercati finanziari può indubbiamente aiutare l’economia globale a migliorare e, indirettamente, a curare -sebbene non a risolvere-  i problemi di chi rimane più indietro. Quantomeno aiuta la crescita dell’occupazione, la speranza che questo aiuti l’inclusione economica dei più deboli in circuiti virtuosi di miglioramento, e lascia maggiori spazi per il futuro affinché gli investimenti proseguano la loro corsa e, con essi, nuove iniziative di spesa infrastrutturale possano tornare a prendere piede. Due elementi fondamentali affinché la grande liquidità che ancora alimenta i mercati possa trasmettere a valle un incremento di reddito che a sua volta può tenere alte le aspettative degli investitori.

In fondo l’incremento degli investimenti e il miglioramento dell’efficienza generale costituiscono la strada maestra che i sacri testi raccomandano per migliorare il benessere economico, insieme al diffondersi della conoscenza e degli interscambi. Se perciò i ricchi diventano più ricchi, è possibile che anche i poveri riescano a migliorare la loro situazione e ciò risulta indubbiamente migliore dell’alternativa!
Stefano di Tommaso