L’INFLAZIONE NON ARRIVA

Secondo l’Economist il livello dei tassi di interesse reali non è mai stato così basso dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008. Questa sarebbe la prima ragione per cui le banche centrali starebbero tornando a far crescere i rendimenti nominali, dolcemente ma continuamente e per la quale continueranno a farlo ancora per molo tempo in avanti. Ma di certezze riguardo alla misura dell’inflazione in giro ce ne sono davvero poche. Anzi, ancora una volta come già era successo a Ottobre, l’allarme inflazione almeno negli Stati Uniti d’America sembra di nuovo essere rientrato. L’inflazione avanza si, ma con grande moderazione.

LA RICERCA DI BAIN & Co SUL FUTURO DELL’AUTOMAZIONE

Questa volta a sostenere che -almeno nel breve termine- i tassi cresceranno anche più di quanto oggi ci si possa attendere è l’autorevole società di consulenza e investimenti americana Bain&Co. che afferma che sarà proprio lo sviluppo dell’automazione e della robotica a premere per un nuovo rialzo dei tassi, dal momento che sempre più aziende cercheranno di spingere sull’accelerazione degli investimenti in tal senso, facendo innalzare la domanda dei capitali oltre il limite della loro offerta.

Non importa invece all’Economist che Bain affermi altresì che tali investimenti innalzeranno la produttività del lavoro (e dunque l’offerta di beni e servizi) nonché la disoccupazione (almeno quella di breve termine), due fattori fondamentali per il loro effetto deflattivo, né conta il fatto che gli investimenti industriali si portano dietro un sempre maggiore livello di investimenti collaterali in software, di ingegneria, di finanza e di altri servizi accessori, i quali tutti insieme dovrebbero dare una spinta considerevole tanto al livello di output industriale (che è ancora la prima componente del Prodotto Lordo dell’economia) quanto all’occupazione giovanile, alla creazione di start-up tecnologiche, e alla domanda di nuovi investimenti infrastrutturali, proprio quelli che -dipendendo fortemente dalla politica- a tutt’oggi ancora non si sono visti sullo scenario globale.

L’ECONOMIST CI RICAMA SOPRA

Secondo l’Economist invece l’innalzamento della domanda di investimenti, unita a quello dell’inflazione, procurerà stress ai mercati finanziari, che potrebbero reagire nervosamente. Potrebbero, certo, così come molti altri fattori fondamentali dell’economia potrebbero determinare sfiducia negli operatori economici, ma fino ad oggi l’Economist lo ha scritto da almeno un anno e mezzo e quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti: l’esatto opposto.

NON SARÀ LA DOMANDA DI CAPITALI A FAR CRESCERE I TASSI, BENSÌ LA POLITICA DELLE BANCHE CENTRALI

Quantomeno bisogna osservare che -se la domanda di capitali e finanziamenti per sostenere gli investimenti sarà elevata- per osservare un’eventuale innalzamento del loro prezzo bisognerà guardare anche a cosa succede alla loro offerta, vale a dire all’ammontare complessivo di liquidità in circolazione e alla capacità del sistema finanziario di convogliarla in direzione dell’economia reale. E la liquidità in circolazione -è ben noto- è governata dalle politiche monetarie delle banche centrali. Se queste ultime risulteranno inutilmente o eccessivamente restrittive è certo possibile che la domanda di capitali ne supererà l’offerta, portando al rialzo i tassi di interesse reali. Quelli cioè che vengono misurati dopo aver depurato l’effetto dell’inflazione.

Ma abbiamo appena visto che tra i Paesi maggiormente sviluppati nel mondo l’inflazione non corre, anzi si limita all’intorno del tasso fisiologico lungamente auspicato sino ad oggi dalle banche centrali, quel famoso 2% considerato -non si sa bene perché- “salutare” per l’economia. Dunque se i tassi reali sono rimasti fino ad oggi così bassi un motivo ce lo avranno avuto. Questo motivo è stato l’elevato livello di liquidità immesso sul mercato globale dei capitali proprio dalle banche centrali, perché almeno una piccola parte di essi sgocciolasse più a valle, a stimolare l’economia reale. Ciò confermerebbe l’assunto che, se i tassi saliranno o meno, dipenderà assai poco da domanda e offerta di capitali, e assai più dalle politiche monetarie delle banche centrali, le quali a tutt’oggi non avrebbero molte ragioni per andare a guastare la sincronia meravigliosa che, complice il Dollaro debole, si è creata attorno al mondo nella crescita economica.

I ROBOT PORTERANNO L’AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE SOCIALI

In una cosa l’Economist sembra invece aver ragione da vendere: in assenza di politiche fiscali incisive e mirate l’incremento degli investimenti in automazione industriale porterà un incremento delle diseguaglianze economiche e della necessità di politiche mirate di sussidio. Secondo Bain lo sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale porterà infatti entro il 2030 alla cancellazione del 20-25% degli attuali posti di lavoro, soprattutto tra quelli meno qualificati, mentre saranno ancor meglio pagate le professionalità più richieste per permettere di funzionare ad un sistema industriale sempre più automatizzato.

L’INFLAZIONE NON CRESCERÀ PIÙ DI TANTO

Ma c’è da scommetterci che i consumi non cresceranno altrettanto quanto i Prodotti Lordi dell’economia, perché chi già si trova nel benessere tende a risparmiare molto più di quanto facciano le classi meno agiate, con il risultato che potremmo trovarci nella stessa situazione vista negli ultimi anni di “congestione dei risparmi” (savings glut) che ha contribuito a determinare la discesa dei rendimenti e la cavalcata delle borse negli ultimi anni. Come dire che ci sono buone ragioni per credere che, al contrario di quanto affermino ripetutamente da qualche anno le cornacchie dei mercati finanziari, l’inflazione non salirà significativamente e i rendimenti reali potrebbero riprendersi solo un po’, ma non troppo.

I TASSI NON POTRANNO CRESCERE TROPPO

Un ulteriore motivo per rimanere relativamente ottimisti sul fatto che, a maggior ragione se ci si aspetta che l’inflazione possa crescere leggermente, i tassi di interesse reale potrebbero salire si, ma di molto poco, è anche quello dell’eccesso di debito che affligge da almeno un decennio l’economia globale. Per non parlare dei debiti pubblici, i quali a tutt’oggi continuano a crescere e se- come sembra- le necessità di sussidi pubblici non si ridurranno bensì saranno affiancate dalle esigenze di investimenti pubblici infrastrutturali, quei debiti continueranno a restare eccessivi, rendendo politicamente inaccettabili le velleità odierne delle banche centrali di ridurre la liquidità in circolazione e far crescere molto gli interessi.

Come dire che le attese dei mercati sono quelle di molta moderazione nella crescita dei tassi di interesse e, di conseguenza, non troppo negative per le Borse e anzi tutto sommato positive per le banche italiane, che della moderata risalita dei tassi beneficeranno decisamente, erogando più prestiti alle imprese senza che ciò arrivi deprimere le proprie ragioni di credito. Cosa che aiuterà la nostra economia a riavvicinarsi ai ritmi di crescita del resto dell’Unione.

Stefano di Tommaso




PERCHÉ IL DOLLARO SCENDE?

Superato il “sell-off”delle ultime settimane, Wall Street è tornata a toccare nuovi massimi, le statistiche più recenti diffuse dalle autorità americane forniscono riscontri più che incoraggianti e l’attesa per ulteriori incrementi dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve è addirittura cresciuta e, con essa, i rendimenti dei titoli obbligazionari ma, nonostante tutto ciò, il Dollaro continua a svalutarsi nei confronti di praticamente tutte le altre valute!

 

IN CADUTA LIBERA

L’anno scorso il biglietto verde si è svalutato infatti del 9% nei confronti delle principali valute di cambio, nonostante una crescita economica superiore alle attese e quest’anno in un mese e mezzo è sceso di un ulteriore 3% sebbene le prospettive del paese siano ancora migliori e si accompagnino a due fattori che dovrebbero migliorarne ulteriormente l’appetibilità : la forte riduzione delle aliquote fiscali e il conseguente rientro dei capitali detenuti all’estero dalle grandi multinazionali americane.

Ovviamente tutti si chiedono perché. La vicenda smentisce una serie di assiomi dettati da tutte le teorie economiche e, evidentemente, desta molti dubbi anche sulla possibilità che possa andare avanti a lungo.

LE POSSIBILI SPIEGAZIONI

Una prima risposta potrebbe venire dalla scarsa fiducia che i maggiori operatori vogliono mostrare sulla capacità dell’amministrazione Trump di tenere a bada il deficit di bilancio che deriverà dalle minori entrate fiscali (questi ha puntato sulla riduzione delle spese deducibili e sulla crescita del prodotto interno lordo per controbilanciarle). Ma l’eventuale ampliamento del debito pubblico americano non è di per se un forte argomento per vendere dollari, perché il primo risultato sarebbe quello di un’ulteriore crescita dei rendimenti dei titoli e quindi invoglierebbe ulteriori capitali a trasferirsi oltre oceano.

Una seconda risposta, questa volta più fondata, potrebbe arrivare dalle attese di inflazione per l’economia americana, che controbilancerebbero la salita dei tassi portandone a nullità l’effetto sui tassi reali d’interesse (al netto dell’inflazione) o peggio riducendoli. Si tratta tuttavia di illazioni non supportate dai fatti, dal momento che nessuno dispone di statistiche sui prezzi che non siano di pubblico dominio.

Ancor più fondati sarebbero però i dubbi sugli effettivi rendimenti degli investimenti finanziari sul mercato americano se sommiamo a quelli sui tassi d’interesse reali anche I dubbi sulla tenuta del mercato borsistico statunitense, oggettivamente sopravvalutato rispetto a tutti gli altri, sebbene questo fenomeno sia una costante da decenni (in compenso è sempre stato più liquido e più trasparente).

Chi vende allora i dollari sarebbero soprattutto gli investitori, i quali hanno ben a mente che veniamo da un periodo recente di grande risalita del biglietto verde e che sino a ieri avevano a lungo controbilanciato l’effetto depressivo sui cambi che deriva dal deficit strutturale commerciale e delle partite correnti tra USA e resto del mondo con l’allocazione di capitali stranieri sul mercato finanziario americano. Ma oggi -grazie anche alla globalizzazione dei mercati finanziari- essi trovano più interessante puntare altrove le loro scommesse.

IL RUOLO DELLA SPECULAZIONE

Ovviamente però a costoro si aggiunge la speculazione, che sembra abbia puntato in totale qualcosa come 13 miliardi di dollari in scommesse contro la valuta a stelle e strisce. Speculazione che spera di trovare nel tempo supporto nelle scelte degli investitori finali perché dovrebbe invece correre presto ai ripari qualora l’economia americana dovesse continuare a correre, Wall Street dovesse stabilizzarsi nuovamente e l’inflazione rimanesse entro i limiti fisiologici del 2-3% (cioè al di sotto della crescita del P.I.L.).

Stefano di Tommaso




LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI RIVELA MINOR OTTIMISMO DI QUANTO ESPRESSO DAGLI INDICI DI BORSA

Per chi si chiede come andrà l’economia globale nel 2018 c’è un modo semplice di provare a rispondere: provare a guardare dove si orientano le grandi case di investimento nel mondo. Non soltanto è utile conoscere il loro livello di fiducia, la quota investita in azioni rispetto a ciò che è investito in titoli a reddito fisso e a quale percentuale di cassa mantengono la loro liquidità, ma soprattutto è interessante conoscere la ripartizione dei loro portafogli per settori industriali, quanta quota parte è investita in titoli proc-ciclici e quanta in titoli anti-ciclici (cioè che crescono o che decrescono quando l’economia “tira”). Ebbene i dati più recenti, relativi allo “stance” di Febbraio differiscono molto da quelli di solo un mese prima:

REDDITO FISSO

come ci si poteva attendere dai corsi dei titoli obbligazionari (tutti in discesa) la quota di titoli a reddito fisso non è cresciuta nei portafogli istituzionali, ma non sembra nemmeno essere scesa, dal momento che l’attesa generale è quella di una fortissima correlazione tra gli andamenti di azioni e obbligazioni (oltre il 90%);

LIQUIDITÀ IN PORTAFOGLIO

ciò che dunque sale è invece la cassa netta detenuta (al di sopra delle medie storiche) sul totale del portafoglio di investimenti (segnale di cautela di fronte all’incertezza dei mercati) ma soprattutto aumenta l’intenzione dei gestori di portafogli di liquidare talune posizioni appena possibile sfruttando eventuali rimbalzi delle quotazioni. Evidentemente l’ipotesi alla base è che il mercato azionario è ancora troppo caro;

SETTORI INDUSTRIALI

un forte segnale di avversione al rischio è la rinnovata preferenza per comparti notoriamente “difensivi” quali la sanità, le telecomunicazioni, le “utilities” (acqua, energia, servizi pubblici ecc…) mentre solo un mese fa ad essere favoriti erano soprattutto I comparti “pro-ciclici” come la meccanica e l’elettronica e le nuove tecnologie. E’ evidente che la scelta riflette l’aspettativa generale di un rallentamento dell’economia, mentre le statistiche sino ad oggi sembrano indicare il contrario.

MERCATI

dietro-front anche per i mercati emergenti, sui quali fino al mese scorso molti gestori di portafogli avevano puntato, evidentemente perchè si teme che la liquidità del mercato -chiaramente in restrizione- possa affliggere prima le piazze più remote del globo. Questo normalmente è un segnale di aspettativa di rafforzamento del Dollaro (principale moneta estera di scambio per i paesi emergenti) mentre non è un buon segnale per l’euro, che riflette l’andamento dell’Europa, che annovera le principali nazioni esportatrici di costruzioni, impianti e tecnologie industriali, le quali evidentemente non beneficeranno della ridotta disponibilità di capitali nei paesi emergenti. Tuttavia non possiamo evitare di notare che invece sono mesi che il Dollaro continua a scendere e che questo fatto tutto sommato controbilancia la fuoriuscita dei capitali dai paesi emergenti.


IL “GURU” DI OMAHA

interessante curiosità viene dall’orientamento di portafoglio del più famoso di tutti I gestori di investimento azionario: il quasi novantenne Warren Buffett. La sua notoria avversione ai titoli finanziari e a quelli tecnologici viene ribaltata dai fatti: il bilancio di Berkshire Hathaway vede nell’ultimo trimestre 2017 un accrescimento significativo della partecipazione in Apple (tecnologia) e in banche come Wells Fargo, Bank of America, Bank of New York Mellon e US Bancorp. Altro settore dove ha effettuato una pesante scommessa è quello dell’agricoltura, incrementando negli ultimi mesi la quota di azioni già detenuta in Monsanto. In effetti è difficile dargli torto: Apple sta performando molto bene e risulta una delle società più solide e meglio gestite di Wall Street, la tendenza al rialzo dei tassi si sta confermando e ne risultano inevitabilmente favorite le banche che vedono crescere la loro forbice (tra tassi attivi e tassi passivi) e infine i prezzi delle principali derrate alimentari stanno crescendo e ciò favorisce i titoli del settore.


MORALE

la corsa delle borse degli ultimi anni è stata accompagnata da un prolungamento del ciclo economico positivo ben oltre le più rosee aspettative che, anche per la sua lunga durata è riuscito a sincronizzare l’economia americana (il cui orologio va notoriamente avanti di mesi rispetto al resto del mondo) con quella europea e quella dei principali Paesi in via di sviluppo. Questa sincronia ha dato nuovo impulso alla crescita economica globale e, ovviamente, gli indici delle borse di tutto il mondo non hanno potuto che registrare l’ottimismo che si andava diffondendo. Oggi però i principali investitori, nonostante le buone notizie sul fronte dell’economia reale, ritengono ugualmente le borse sopravvalutate e orientano verso la prudenza la composizione dei loro investimenti, rivolgendosi verso titoli anticiclici e aumentando la quota di liquidità.

È interessante notare che questo non significa necessariamente che le borse scenderanno ma solo che tra gli investitori si diffonde maggior prudenza visto che possono permetterselo. I recenti lauti guadagni possono infatti far dimenticare loro il rischio di beneficiare meno delle prossime risalite. E, così come è già accaduto nell’ultimo anno e mezzo, questo fatto è positivo perché riduce la possibilità di eccessi speculativi e aiuta a dare stabilità al mercato azionario.

Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso