L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

La Compagnia Holding
Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

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MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

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L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

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Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




CHI SOSTERRÀ L’EXPORT ITALIANO?

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Apparentemente le notizie sono eccellenti per l’economia italiana: il primo semestre dell’anno ha visto una straordinaria ripresa dei volumi di produzione ed export della macchina industriale nazionale. Ma il successo per l’economia del nostro Paese è meno scontato di quanto sembri, a causa del potenziale spiazzamento delle piccole e medie imprese italiane derivante dall’elevata tassazione, e a causa dell’inflazione e del rischio di non trovare sufficiente credito. In questo il governo italiano sta facendo molto ma non ancora a sufficienza.

 

OTTIMI RISULTATI INDUSTRIALI NEL PRIMO SEMESTRE

La direzione corporate di Intesa San Paolo ha presentato nei giorni scorsi i risultati di un’indagine sui 158 distretti industriali italiani, i cui risultati appaiono estremamente lusinghieri per il primo semestre 2021: nuovo record dell’export nazionale nei 6 mesi a quasi €65 miliardi (oltre quelli del 2019), 145 di essi appaiono in crescita (il 92%) e 101 distretti produttivi sono andati oltre i livelli del 2019.

Come si può leggere dal grafico sotto riportato, primeggiano nella crescita delle esportazioni i produttori di elettrodomestici, metallurgia, arredo e costruzioni. Poco sotto i livelli del primo semestre 2019 l’export del settore meccanico, mentre è ancora pesantemente dietro ai livelli pre-covid il sistema moda (-29%) con gli altri beni di consumo (-10%) . In totale ci si attende per fine anno un avanzo commerciale dell’industria italiana di oltre 100 miliardi di euro.

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Se dopo la crisi del 2009 ci vollero due anni per tornare ai livelli produttivi pre-crisi, dopo quella del 2020 sono apparentemente bastati soli sei mesi. Ovviamente è stato di sicuro complice di tale risultato la pesante riallocazione delle filiere di sub-fornitura della grande industria europea a favore delle imprese continentali, tra le quali quelle italiane sono spesso tra le principali terziste, anche se la festa rischia di durare poco.

La performance industriale del resto d’Europa nello stesso periodo è stata infatti assai meno positiva, come si può leggere dalla tabella comparativa qui sotto riportata (la performance si riferisce al periodo gennaio-luglio 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020, nei quali come è noto il nostro Paese aveva fermato più di altri la macchina produttiva) :

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INFLAZIONE E CONGIUNTURA RISCHIANO DI ROVINARE LA FESTA

A preoccupare però sono i rincari di energia e materie prime scattati nel secondo semestre del 2021, che oggi minacciano le imprese di far azzerare i margini industriali accumulati nel primo semestre, oltre evidentemente ad un deterioramento complessivo del clima di ripresa e fiducia che si era diffuso all’inizio dell’anno.

Il rincaro delle materie prime cui assistiamo negli ultimi mesi è soprattutto l’inevitabile conseguenza del rimbalzo post-lockdown della domanda di energia, che si è scontrata con una carenza di offerta di idrocarburi derivante anche dalla pretesa di sostituire velocemente le tradizionali fonti energetiche di origine fossile (tipicamente petrolio, gas e carbone) con quelle rinnovabili come sole e vento. Non soltanto la produzione di energie da fonti rinnovabili non ha ancora raggiunto in molti casi l’efficienza necessaria a fare a meno dei sussidi pubblici (la cosiddetta “carbon parity”), ma non è ancora altresì sufficientemente assistita da adeguati sistemi di accumulo dell’energia prodotta nelle ore di punta.

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Tecnicamente dunque l’ambizione di sostituire rapidamente le fonti energetiche tradizionali con quelle meno inquinanti è stata prematura. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: la forte riduzione degli investimenti nell’estrazione di petrolio, gas e carbone (penalizzati dalle normative ambientaliste) ha determinato uno strozzamento dell’offerta delle materie prime energetiche di origine fossile e un deciso rincaro dei relativi prezzi. Questi ultimi hanno agito da detonatore per un rialzo generalizzato dei costi delle materie prime, che ha a sua volta provocato l’inflazione dei prezzi immediatamente a valle: quelli dei principali fattori di produzione dell’industria.

E poiché in molti casi la concorrenza e la subalternità di fornitura di parecchie piccole e medie imprese italiane mei confronti delle grandi multinazionali non consente di scaricare a valle il rincaro subìto nei costi dei fattori di produzione, ne consegue un pericolo per la stessa sopravvivenza di molti dei distretti produttivi italiani.

GLI INTERVENTI DI MARIO DRAGHI

Per una volta il governo italiano ne è stato perfettamente conscio ed è intervenuto silenziosamente ma efficacemente più volte, tanto nell’assicurare l’arrivo dei primi fondi europei, quanto nello sblocco di maggiori forniture di gas (con il sostegno all’apertura del North Stream, il gasdotto che passa dal nord Europa), come pure nel ridurre i limiti e le strozzature alla normativa per l’utilizzo degli incentivi alle ristrutturazioni edilizie (il cosiddetto “Superbonus”), e infine nell’evitare tensioni inflative e salariali con la fiscalizzazione di parte dei rincari della bolletta energetica.

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Ma la partita per le piccole e medie imprese italiane è ancora molto più complessa: se da un lato esse hanno bisogno di mantenere margini positivi tra costi di produzione e ricavi, dall’altro lato sono sottoposte ad una fortissima pressione fiscale (“vantano” il record mondiale di tassazione, come si può leggere dalla tabella qui accanto riportata), dall’altro ancora hanno anche bisogno di sostenere finanziariamente l’incremento di capitale circolante e, soprattutto, di tornare a investire.

Tutto questo mentre è in corso un duro scontro politico nel Paese circa le riforme economiche (e fiscali) e mentre la congiuntura generale del mercato finanziario rischia un deciso peggioramento, con il rialzo dei tassi d’interesse e i cali del mercato borsistico.

I RISCHI FINANZIARI PER LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

In Italia il 90% delle esigenze finanziarie delle piccole e medie imprese (PMI) è tutt’ora fornito dal sistema bancario, sul quale ha agito efficacemente nel recente passato la vigilanza della Banca Centrale Europea, allentando i requisiti patrimoniali richiesti nell’erogazione del credito e lanciando il cosiddetto “PEPP” (Pandemic Emergency Purchase Program) per fornire adeguata liquidità agli istituti di credito, che si è rivelato provvidenziale.

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Il punto è che tali misure erano legate al raggiungimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2% (fino all’inizio del 2021 c’era viceversa un serio rischio di deflazione) che oggi è stata ampiamente superata anche nelle statistiche (che notoriamente sono sempre in ritardo) mentre i livelli di erogazione del PEPP a Settembre stavano già eccedendo l’obiettivo programmato di 1700 miliardi.

L’inflazione in Germania ha viaggiato invece nell’ultimo mese al 4,1% e la media europea ha raggiunto il 3,6%. Il rischio dunque è che i paesi “frugali” del nord Europa possano richiedere la riduzione degli incentivi alla liquidità del sistema bancario nel timore che essi possano alimentare la spirale inflativa. Ciò ridurrebbe la provvista finanziaria per le banche italiane e a farebbe tornare a crescere il livello dei tassi d’interesse, cosa che andrebbe immediatamente a scoraggiare gli investimenti produttivi. Tutto questo mentre la domanda di produzione industriale è in crescita e l’esigenza di fare efficienza aumenta la necessità di modernizzare l’industria.

COSA FARE DUNQUE ?

Le imprese italiane sono state storicamente sottoposte ad una serie di svantaggi competitivi rispetto a quelle di quasi tutto il resto del mondo che andrebbero rimossi. Ad esempio:

  • il progressivo riavvio delle attività di riscossione delle cartelle esattoriali (ancora sospese in Italia causa pandemia) rischia presto di drenare molta liquidità al sistema produttivo e occorrerebbe procedere alla loro rottamazione;
  • al momento ancora non si parla di possibili de-fiscalizzazioni degli investimenti, che sarebbero tanto più necessari dal momento che l’orientamento politico nazionale non sembra ancora indirizzato alla riduzione delle aliquote di tassazione, per rimuovere la differenza con le altre imprese europee;
  • come si può dedurre da quanto sopra la situazione economica italiana è sì in ripresa (si parla di un rimbalzo del prodotto interno lordo di circa il 6% nel 2021, ma si confronta con un calo del P.I.L. del 9% dell’anno precedente) ma il rischio per le imprese nazionali è quello di non disporre di un adeguato supporto finanziario proprio mentre stanno subendo una forte riduzione dei margini;
  • resta certamente da prendere in seria considerazione un rilancio degli investimenti infrastrutturali, sui quali non si è ancora fatto abbastanza e che potrebbero contribuire non poco tanto al rilancio dell’economia reale quanto al miglioramento dell’ambiente generale nel quale si muove l’industria nazionale. Non soltanto nelle telecomunicazioni e nell’apparato viario (sebbene siano fortemente arretrati) ma anche nello sviluppo dei sistemi logistici intermodali, nella modernizzazione della pubblica amministrazione, nel supporto a ricerca, innovazione e start-up, negli incentivi atti a contrastare la fuga dei cervelli e degli imprenditori;
  • anche l’intera filiera turistico-ricettiva (ivi compresi i servizi connessi, l’intrattenimento e la ristorazione) è stata messa a dura prova dal lockdown e resta, dopo la crisi subìta, ancora fortemente danneggiata. Nei confronti degli operatori di quel settore ancora molto poco è stato fatto per supportarne tanto la ripresa dell’attività quanto gli investimenti, nonostante il nostro Paese contempli la maggior parte del patrimonio storico e artistico mondiale;
  • esistono numerosi incentivi e misure di supporto agli investimenti legati alle esportazioni, previsti dalla Simest (la finanziaria di Stato che finanzia le imprese italiane quando vanno all’estero), che tuttavia non hanno ricevuto nel recente passato sufficiente una copertura finanziaria. Ragione per cui molte imprese italiane che avrebbero potuto beneficiarne ne sono beffardamente rimaste escluse. Poter disporre finalmente di tali misure nei limiti di legge senza dover sottostare a bandi e infinite graduatorie potrebbe migliorare non poco la capacità di esportazione degl’Italiani.

Occorre in definitiva una forte presa dì coscienza al riguardo delle misure ancora necessarie per il sostegno all’industria nazionale, altrimenti la pandemia non ancora terminata passerà alla storia come la buccia dì banana che ha fatto scivolare l’Italia al livello dei paesi del terzo mondo! Il governo Draghi sta comportandosi oggettivamente nel migliore dei modi possibili ma la ripresa dell’occupazione dipende soprattutto dalla performance delle attività private, perché quelle pubbliche sono già finanziate in deficit e non potranno perciò ragionevolmente espandersi ancora.

Stefano di Tommaso




METÀ ANNO & METÀ DEL GUADO

Giunti alla svolta dell’Estate, all’inizio del nuovo semestre solare e alla vigilia del nuovo G20, proviamo a fare il punto sulla situazione dei mercati e dell’economia globale e, soprattutto, sulla possibilità di una correzione estiva delle borse.

 

Con i prezzi al consumo stabili in Italia a giugno l’inflazione, grande protagonista di timori e aspettative nella prima metà dell’anno, è in calo dello 0,1% all’1,3% mentre nei prossimi mesi dovrebbe restare poco sopra questi livelli (media annua attesa del CPI a 1,5%). Alla stessa percentuale dovrebbe attestarsi in Eurozona la crescita dei finanziamenti ai privati.

L’OTTIMISMO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

Draghi perciò gongola: la situazione è in quella perfetta via di mezzo per la prosecuzione degli stimoli quantitativi (tra inflazione/deflazione, crescita moderata e borse non troppo esuberanti) che può permettergli al tempo stesso di continuare quasi indefinitamente a sostenere la liquidità in circolazione e i rinnovi dei titoli di stato italiani (di un eventuale stop se ne riparlerà oramai nel 2018) mentre l’Euro continua ad apprezzarsi sul Dollaro e su quasi tutte le altre valute (cosa molto gradita ai Tedeschi, che stanno partendo per le vacanze sentendosi un po’ più ricchi).

Nemmeno l’Italia trema: le esportazioni italiane vanno ugualmente un po’ meglio di prima (la fiducia delle imprese nel manifatturiero è passata a Giugno a 107,3 dal 106,9 precedente mentre nelle costruzioni sale a 129,8 dal 128,1 di maggio: ai massimi da quasi un decennio) e, se durante il momento di punta del turismo in Italia arriva un po’ più di valuta forte, la cosa non dispiace a nessuno.

L’Euro in salita invece alle borse europee un pochino disturba: chi fa i conti in Dollari continua a cavarsela con le performances ma concorrono alla debolezza delle borse continentali l’instabilità politica e bancaria italiana, gli effetti negativi (assai limitati invero) dell’uscita della Gran Bretagna e i dubbi sulla capacità di Macron di realizzare ciò che ha promesso. La situazione europea tuttavia non riuscirà a influenzare il corso delle borse, anzi fosse per quelle nostrane ci sarebbero anche segnali di cauto ottimismo.

I PERICOLI PER LE BORSE ARRIVANO DA OLTREOCEANO

Il mercato azionario è però sempre più globalizzato e, casomai, il vero pericolo che una correzione significativa su manifesti nel corso del mese arriva dal resto del mondo, dove un certo numero di tensioni stanno acuendosi: dalle difficoltà crescenti della presidenza Trump a quelle geopolitiche mediorientali, dal timore del crollo del sistema finanziario cinese, fino a quello dello scoppio della bolla speculativa derivante dagli eccessi di leva finanziaria di nuovo presenti sul mercato dei derivati (che nel 2008 è stato il vero detonatore).

Bisogna ricordare infine che buona parte degli shock sul mercato finanziario sono stati storicamente generati dalle mosse delle banche centrali e anche stavolta la Yellen potrebbe trovare il modo di portare avanti la tradizione tanto con il suo recente richiamo circa le valutazioni troppo elevate espresse dal mercato quanto per il fatto che un contesto americano di piena occupazione e crescita moderata potrebbe tentare la FED di continuare con il rialzo dei tassi, cosa che però potrebbe-nello scenario attuale- costituire un ulteriore ostacolo alla partenza degli investimenti nelle grandi opere infrastrutturali promesse da Trump.

A ciò va aggiunto che gli operatori si interrogano sulle implicazioni di una crescita economica americana fin troppo moderata che potrebbe far propendere il Congresso americano verso la definitiva archiviazione della riforma fiscale. Già solo questi ultimi due fatti, una volta incorporati nei modelli statistici degli analisti, possono far temere uno scivolone estivo delle borsa americana e, con essa, di buona parte di quelle asiatiche.

Questo non significherà necessariamente l’avvio di una nuova tempesta perfetta dei mercati, per via della crescita economica globale consistente e generata da variabili cosiddette “fondamentali” (demografia, capacità produttiva, tecnologie e globalizzazione). Ma solo che, all’alba del secondo semestre 2017, l’economia globale -giunta a malapena a metà del guado nel suo processo di rinnovamento- qualche ostacolo lungo il suo cammino verso un mondo migliore è praticamente scontato che lo si incontri

 

Stefano di Tommaso