ANCORA TORO A WALL STREET?

Le relazioni commerciali internazionali sembrano in fiamme. Non c’è giornale che non ne parli e non c’è politico al mondo che non ne risulti preoccupato. Donald Trump venerdì scorso sembra aver imboccato una strada apparentemente senza ritorno dichiarando ulteriori dazi e tariffe contro le importazioni dalla Cina per 34 miliardi di dollari (con la conseguente contromisura presa immediatamente da quest’ultima).

 

A questo punto i mercati finanziari sono tutti sotto osservazione, con cali anche vistosi. Tutti salvo quello americano. I mercati borsistici dei Paesi Emergenti sono sotto mediamente del 20% dall’inizio del 2018, ma a queste perdite si devono sommare quelle delle divise valutarie in cui sono espressi i rendimenti delle borse dei Paesi Emergenti. Una vera e propria Caporetto per gli investitori non basati sui dollari, che certamente potrebbe finire per contagiare anche l’America, ma occorre notare che al momento quest’ultima ne è rimasta indenne. E almeno fino alle elezioni di medio termine (Novembre) c’è una certa possibilità che l’attuale tendenza rimanga invariata. Come è possibile?

LA SCOMMESSA DI TRUMP

Trump ha fatto capire che le sue iniziative doganali nascono dal fatto che sino a ieri l’America lasciava entrare i prodotti di chiunque e che era ora di smetterla con atteggiamenti non “simmetrici” da parte degli altri Paesi. Questo potrebbe significare che, di fronte a un passo indietro di cinesi, canadesi, messicani ed europei, anche Trump potrebbe togliere i dazi, ma non possiamo non prendere atto che per i suoi fini l’attuale politica commerciale ha funzionato alla grande! Non soltanto l’occupazione continua a crescere negli USA ma anche e soprattutto i profitti delle imprese stanno volando: ci si attende che i dati del secondo trimestre rivelino una loro crescita oltre il 20% sullo stesso periodo dell’anno precedente.

IL RICATTO CINESE DEL TECHNOLOGY TRANSFER

Nonostante la martellante campagna stampa contro Trump e i suoi dazi, l’opinione pubblica interna al paese tende a dargli ragione. Senza considerare che nei confronti di Paesi Emergenti come la Cina o il Messico esistono anche altri rilevanti problemi sollevati per la prima volta solo da Trump: ad esempio l’imposizione del “Technology Transfer” a tutte le imprese che vanno a investire in Cina senza che ci sia poi una valida tutela delle opere d‘ingegno significa dare la possibilità pratica alle imprese cinesi di copiare i prodotti americani ed europei (per i quali sono stati investiti quattrini in ricerca e sviluppo) per riproporli a basso costo fabbricati illegalmente.

Per non parlare del Messico dove la scarsa sicurezza sociale e sul lavoro spinge tutte le multinazionali ad impiantare siti industriali per poi esportare i manufatti colà prodotti negli USA. E’ chiaro che questo toglie posti di lavoro (o migliori salari) agli operai americani, già assediati dai disperati che varcano illegalmente i confini per cercare direttamente lavoro negli USA facendo loro concorrenza sui salari perché accettano paghe molto basse.

Difficile persino per noi Europei dare torto a Trump su questi ultimi temi. Anche perché per il momento l’America sta attirando capitali da tutto il resto del mondo con il risultato che l’economia americana continua a tirare e le imprese americane a fare -appunto- lauti profitti.

GLI U.S.A. SONO DIVENTATI IL PRIMO ATTORE NELLE ENERGIE

Ciò che poi è passato proprio in sordina è stata l’accelerazione della produzione americana di petrolio e gas, che ha tratto ottimo profitto dall’ascesa dei loro prezzi. Oggi gli USA ne sono diventati più che mai il più importante produttore e non se ne parla molto perché al tempo stesso essi sono anche il loro primo consumatore. Ma questo ancora una volta significa che l’economia americana tira più del previsto, nonostante le statistiche e nonostante le campagne stampa avverse all’attuale Presidente.

Certo le guerre commerciali sono comunque delle guerre e, al di là di un loro utilizzo strettamente tattico, esse non possono mancare di esigere -come tutte le guerre- un tributo di “sangue” anche alle imprese e ai lavoratori americani. E questo è un terreno molto scivoloso per il primo Presidente che ha dichiarato guerra a praticamente tutte le altre nazioni del mondo, perché se dalla sua scelta di rinegoziare gli accordi commerciali su base bilaterale (invece che attraverso gli organismi sovranazionali) non otterrà presto dei risultati sarà allora la sua posizione politica a cominciare a logorarsi. Quello che se ne può dedurre è che probabilmente Trump lo sappia benissimo e che dunque oggi spinge più che mai sull’acceleratore del confronto-scontro sia perché è riuscito a infliggere del dolore alle controparti europee e cinesi le quali adesso stanno finalmente valutando se continuare a rispondere tono su tono alle provocazioni o scendere a compromessi, ma anche perché Trump è il primo che ha altrettanta fretta di fare marcia indietro.

LE GUERRE COMMERCIALI NON POSSONO DURARE ALL’INFINITO

I grandi operatori sui mercati finanziari (quasi tutti americani) lo hanno sempre saputo e sino ad oggi non si sono preoccupati molto delle guerre commerciali, ma se dovranno constatare che l’escalation prosegue e se il gioco dovesse tirare in lungo dovranno prendere atto che questo rischierebbe di produrre forti danni all’economia globale. Se a rischio ci saranno i profitti futuri delle imprese multinazionali americane allora le borse valori potrebbero iniziare a flettere nonostante le numerose buone notizie e contribuire esse stesse a trascinare al ribasso anche la crescita economica globale. Ma Trump non resterà a guardare che questo accada, anche se per farlo onorevolmente egli dovrà mettere a segno delle vittorie almeno parziali, sulla base delle quali egli giocherà la sua chance di fare il buon gesto nei confronti di tutti gli altri “avversari”.

CHI GUADAGNA A WALL STREET: “TECNOLOGICI” E “SMALL CAP”

In ogni caso c’è tuttavia una certa probabilità che la crescita economica americana resti forte per la restante parte del 2018 e che essa riguarderà ancora una volta i titoli tecnologici e le “small cap” (i titoli a bassa capitalizzazione) che sino ad oggi hanno reagito meglio alla riduzione delle tasse. Con buona pace di tutti coloro (tra cui il sottoscritto) che gridano allo scandalo delle iper-valutazioni e mettono in guardia sulla relativa illiquidità dei titoli a bassa capitalizzazione.

La conclusione di questo ragionamento è che se quanto sopra è corretto allora parallelamente alla prosecuzione della tendenza della prima parte dell’anno (Wall Street su
e Europa giù) anche tanta volatilità è ancora una volta attesa per i mesi a venire, mentre scarsa attenzione sarà riservata ai parametri economici fondamentali delle imprese, almeno sintantochè i profitti delle imprese (principalmente quelle tecnologiche) continueranno copiosi.

 

RIALZO FINO A NOVEMBRE?

Dunque potrebbe esserci ancora una volta un rialzo di Borsa (nella sola Wall Street) a breve termine (lo stesso termine entro il quale Trump deve riuscire a invertire la rotta che lo ha portato alle guerre commerciali) e invece una certa probabilità di ribasso delle borse nel medio Termine (cioè dall’autunno in poi), soprattutto se la sua manovra sui dazi non avrà avuto rapido successo.

Ciò vale anche per le quotazioni delle materie prime: nonostante il Dollaro forte (che però non durerà in eterno): il rialzo dei loro prezzi potrà generare la sensazione che una nuova ondata inflazionistica sia alle porte. In quel caso la stretta che la FED (la banca centrale americana) si troverebbe contretta a muovere potrebbe risultare come la classica buccia di banana sulla quale veder scivolare le prospettive di crescita dell’intera economia globale! E con l’ammontare in circolazione di debiti pubblici da sfamare a tassi bassi nessuno pensa che ce lo possiamo permettere! Ma tutte queste sono preoccupazioni marco-economiche che non impattano sull’andamento delle borse, anzi: di solito con l’inflazione che risale (segno di riscaldamento della crescita economica) anche le azioni vanno su.

Dunque, nonostante i rischi legati agli effetti negativi per i Paesi Emergenti (tra i quali tocca oramai annoverare anche il nostro) della risalita dei tassi d’interesse americani, se lo scenario non muta chi ci rimetterà potrebbero essere i Paesi a più bassa crescita economica e i non-produttori di materie prime come gli Europei, mentre chi ci guadagnerà potrebbero essere -oltre a quello americano- i mercati finanziari che più hanno perduto terreno fino ad oggi, come quello cinese.

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo e quelle appena esposte sono solo ipotesi. Ma se ci chiedevamo quanto potrebbe durare il prossimo rialzo la risposta sembra abbastanza esauriente: non così poco!

Stefano di Tommaso




APPLE A UN PASSO DAL TRILIONE DI DOLLARI

In una strana e surreale atmosfera di Wall Street che rischia di tornare a celebrare i massimi di sempre pur con un indice SP500 che capitalizza adesso solo poco più di 16 volte gli utili attesi, con un’America che sta ancora facendo i conti per valutare tutte le ricadute positive degli incentivi che il Presidente Trump ha posto per chi produce utili e fa rientrare i capitali in patria, si stanno creando le condizioni necessarie affinché per la prima volta nella storia la capitalizzazione di un’impresa (il valore che la borsa le attribuisce) superi i 1000 miliardi di dollari. E se ciò succedesse ancora una volta la corona di investitore più intelligente andrebbe a Warren Buffett, che ha appena finito di scommettere pesantemente sulle potenzialità dell’azienda caratterizzata dalla mela morsa proprio mentre Apple lanciava un programma di riacquisto azioni proprie da 100 miliardi di Dollari.

 

Indubbiamente per quasi tutti i titoli dell’indice Standard&Poor 500 gli utili per azione sono cresciuti moltissimo (in media siamo a 155 dollari per azione cioè poco meno di un sedicesimo del valore medio) anche grazie alla riforma fiscale che ha contribuito a sgonfiare i timori che le valutazioni di Wall Street fossero troppo alte.

LE FAVOLOSE VALUTAZIONI DEI TITOLI TECNOLOGICI

Ma se si pensa che in America i tassi di interesse stanno già tornando a crescere, che il prezzo dell’energia corre e, con esso, anche i timori di fiammate inflazionistiche, se si tiene conto che i segnali di inversione del ciclo economico si moltiplicano e che Wall Street ha una forte componente di titoli cosiddetti “tecnologici” come le famose FANG (Facebook, Amazon, Netflix e Google), caratterizzate da favolosi moltiplicatori degli utili (in media ben oltre le cento volte con il record di Amazon che supera le 250 volte), la performance delle borse delle ultime settimane non era così scontata, anzi!

UN TITOLO “TECNOLOGICO” CON VALUTAZIONE DA AZIENDA INDUSTRIALE

Eppure esiste un altro titolo tecnologico, anzi il più importante di tutti -Apple- che invece capitalizza soltanto 16 volte gli utili attesi (cioè esattamente quanto la media dell’indice SP 500) ma che mostra ugualmente prospettive di crescita migliori di tanti altri titoli “tecnologici”. Con la solidità dei margini di cui parliamo più sotto c’è facilmente da attendersi una riduzione nel forte divario tra i moltiplicatori dei FANG e quello di Apple ! Per fare un esempio: il titolo Amazon si è rivalutato del 70% nell’ultimo anno, quello di Apple solo del 24%.

Anzi: nonostante le sue vendite siano ancora legate per una parte preponderante ai telefonini, è in forte crescita ed ha un‘altissima marginalità la parte di ricavi Apple riguardanti i”servizi” (che si prevede raggiungeranno da soli quest’anno i 10 miliardi di Dollari, il fatturato di una multinazionale quotata a Wall Street di media taglia, mentre la Ferrari fatturerà quest’anno “solo” 3,4 miliardi di dollari) oltre che la quota di fatturato afferente le vendite online di musica e software a oltre a quella più pregiata- delle vendite “ricorrenti”- come ad esempio l’abbonamento al “cloud” (l’archiviazione remota dei dati), o i servizi di pagamento tramite telefonino e orologio intelligenti.

LA “BRAND IDENTITY”

Ma la vera chiave per convincersi della fortissima identità di marca che Apple ha sviluppato, in buona misura derivante dal successo delle politiche di qualità di prodotto e di attenzione alle esigenze del consumatore che negli anni hanno creato un “ecosistema” di prodotti e servizi che si integrano tra loro e che creano una fortissima “fedeltà”, nell’ordine del 90% della clientela che deve effettuare acquisti di rinnovo, si rivela nella disposizione del cliente a pagare significativamente più cari degli altri i prodotti Apple (balzati nell’ultimo anno dal prezzo medio di 655 dollari a quello di 728).

Questo avviene sia perché l’utente medio riconosce loro una qualità superiore che perché egli considera sempre più irrinunciabili i benefici dell’ecosistema dei prodotti stessi, i quali custodiscono le informazioni personali, le abitudini dell’utente, le immagini e i video nonché, ultimamente, anche tutti i dati biometrici (dal riconoscimento facciale all‘ andamento delle informazioni sotto sforzo sulla circolazione sanguigna o sulle abitudini di fitness e persino del sonno).

I MARGINI SONO DIFENDIBILI

Apple dunque ha edificato negli anni una decisa barriera all’entrata di concorrenti nel suo portafoglio di clientela e si è assicurata la fedeltà di quest’ultima a livelli mai visti da nessuna altra marca, cosa che getta le basi per una sempre maggiore sostenibilità degli elevati margini di cui gode. Il numero 16 ricorre ancora altre volta parlando di Apple perché la quota di mercato delle sue vendite è in media a livello globale al 16% del totale, dunque ancora con decise possibilità di miglioramento negli anni dato tutto quanto esposto, nonostante il telefonino più economico della gamma costi non meno di 340 Dollari, mentre gli utili del primo trimestre 2018 sono saliti del 16% a 65 miliardi di Dollari (dunque $260 miliardi di utili su base annua).

BASSI MOLTIPLICATORI DEGLI UTILI E TANTA CASSA DISPONIBILE

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la capitalizzazione di borsa è basata su un moltiplicatore degli utili decisamente “economico” per la natura online, tecnologica e innovativa dei prodotti e servizi offerti, ecco che non è impossibile pensare ad ulteriori forti incrementi di valore delle sue azioni quotate, forte anche della grandissima liquidità accumulata sino ad oggi con la quale Apple può permettersi di pianificare politiche di riacquisto di azioni proprie per molti anni a venire.


Da quando ha iniziato a comprare proprie azioni (2012) fino ad oggi Apple ha già speso 275 miliardi di dollari e, con la quantità di denaro liquido (quasi 270 miliardi di Dollari a fine Aprile) e la generazione di cassa (circa $60 miliardi/anno) che si ritrova, ha già pianificato ufficialmente di spendere almeno altri $100 miliardi senza intaccare minimamente la solidità del titolo o la sua capacità di scommettere su nuove nicchie di mercato (vedi ad esempio l’ingresso nel settore auto con veicoli elettrici e a guida autonoma).

FORTI ATTESE

A una quotazione del titolo di 185 Dollari, corrispondente ad una capitalizzazione di borsa di oltre 930 miliardi di dollari, sono molti gli analisti che prevedono un rapido avanzamento del titolo oltre la soglia dei 200 Dollari per azione e di conseguenza ben oltre i 1000 miliardi di capitalizzazione di borsa dell’azienda di Cupertino in California. Tra questi il più ricco e famoso investitore di tutti i tempi: Warren Buffett che ha staccato di recente in totale assegni per quasi 50 miliardi di Dollari per diventarne socio.

Stefano di Tommaso




AMAZON FA SOLDI CON IL WEB (E NON CON L’E-COMMERCE)

Dopo tutto il polverone sollevato dallo scandalo Facebook sui cosiddetti titoli “tecnologici” (i cui ricavi appaiono fortemente legati all’uso di internet), sembrava segnato il destino delle spropositate valutazioni che il mercato finanziario ha loro sinora attribuito. E invece no. Amazon mostra da inizio 2018 un progresso superiore al 30%!

 


Mostrando i suoi risultati trimestrali infatti Amazon ha battuto ogni aspettativa degli analisti rivelando numeri mai così buoni in precedenza e progressi tali da riuscire a rafforzare del 7% la sua capitalizzazione già elevatissima. Ma anche il fatto che il 10% del suo fatturato e buona parte dei suoi margini provengono dai servizi di rete e dalla pubblicità su Internet.

Per intenderci sul concetto di valutazione elevatissima del titolo, ricordiamoci che Amazon capitalizza in borsa oltre 4 volte il suo fatturato, oltre 26 volte il suo patrimonio netto e oltre 240 volte i suoi profitti, mentre brucia cassa netta tendenziale per circa 12 miliardi di dollari (3 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre). Non esattamente quella che si dice una valutazione prudenziale!

Tutti i giornali riportano oggi i numeri roboanti di Amazon e pertanto vorrei evitare di annoiare i miei lettori facendolo anch’io: di seguito ho raccolto solo un paio delle diapositive che sono state proiettate alla presentazione, nelle quali si vede sì quasi un raddoppio nel reddito operativo, ma anche un flusso di cassa netto che, in funzione della crescita roboante di capitale circolante e investimenti, si è rivelato invece incrementalmente negativo a partire da metà 2017 sino ad oggi.

 

 

Eppure si deve ammettere che la gestione del colosso mondiale del commercio elettronico si è rivelata oculata, che ha battuto ogni attesa degli analisti -in particolare riguardo al numero di iscritti ai suoi servizi “Amazon Prime”: ben 100 milioni di individui, quasi due volte la popolazione italiana- e soprattutto per due elementi che hanno ricollegato più decisamente al rapporto con internet la vera natura del suo business:

  1. Amazon è riuscita ad incrementare a oltre 8 miliardi di dollari annui suoi introiti pubblicitari tendenziali del 2018, quella stessa categoria di entrate che ha letteralmente crocifisso le sue cugine più strette, come Google e Facebook, finite sotto inchiesta per uso improprio delle informazioni personali raccolte dai loro utenti. Questi introiti costituiscono il 4% circa del fatturato e sono più che raddoppiati rispetto allo scorso anno;
  2. Il 5 e mezzo per cento del suo fatturato e ben tre quarti del reddito operativo provengono dagli incassi per i servizi di rete (“Amazon Web Services”) e non dal commercio elettronico!


In pratica Amazon trae quasi il 10% dei suoi ricavi e forse quattro quinti del suo reddito operativo (il dettaglio non mi è noto) da attività di rete non troppo diverse da quelle di Netflix, Google, Facebook e Microsoft.

Il concetto è importante per cogliere la vera natura di Amazon ed è confermato dal confronto tra I multipli di mercato di Amazon e quelli degli altri operatori, tanto nel commercio quanto nei servizi di rete:Come si vede quasi tutti gli altri operatori attivi nella distribuzione di prodotti mostrano moltiplicatori pari a un decimo di quelli di Amazon e Netflix. Cioè questi ultimi sono ancora una volta basati sulle più rosee aspettative. Se si cercava una prova del fatto che il mercato è ancora sopravvalutato eccone trovate due. Evidentemente la liquidità in circolazione è ancora tanta…

Stefano di Tommaso 




TUTTI VOGLIONO FAR SOLDI CON LA NUVOLA,MA A RENDERLA SICURA ARRIVA IL BLOCKCHAIN

Se vi chiedete qual è il tema più importante nelle aspettative degli analisti finanziari per far soldi in borsa, allora dimenticate l’intelligenza artificiale, le auto elettriche, o la realtà aumentata: tutta roba che fa molto spettacolo ma, dal momento che la grande liquidità disponibile favorisce soprattutto la spesa per investimenti delle imprese che vogliono rinnovarsi ed efficientarsi, ecco che i veri quattrini la maggior parte degli operatori del mercato dei capitali pensano di farli con ciò che è più vicino alle attuali esigenze delle imprese che oggi investono a tutto spiano: la nuvola digitale (detta anche: “cloud computing”).

LA DIGITALIZZAZIONE È IL MAGGIOR SINGOLO CAPITOLO DI SPESA PER INVESTIMENTI DELLE IMPRESE

La digitalizzazione avanza, e con essa crescono le esigenze di infrastruttura informatica delle imprese, che trovano il loro sbocco naturale nell’outsourcing di tutto ciò che non conviene tenere in casa e che può essere fornito da remoto accanto a una miriade di servizi accessori. E se questo è il capitolo di spesa che si prevede crescerà di più nell’anno a venire, è qui che gli operatori vogliono scommettere.

È il medesimo motivo per il quale le più grandi società dell’era digitale, come Apple, Google, Amazon, Alibaba, Tencent e Facebook sono cresciute in borsa per tutto il 2017: si sono soprattutto apprestate a occupare anticipatamente lo spazio di mercato delle piattaforme digitali rivolte alle imprese industriali e commerciali (il “B2B”) ottenendo con questo il consenso degli analisti finanziari.

C’ERANO UNA VOLTA I DATABASE

C’erano una volta i data center e prima ancora i software per la gestione dei database, come ad esempio Oracle, ma avevano uno straordinario limite tecnico (tra gli altri): era difficile accedere loro da telefoni intelligenti e tavolette, cioè dalla rete mobile. Non a caso le società che meglio sperano di posizionarsi per il 2018 (solo per le FAAMG -Facebook Amazon, Apple, Microsoft e Google- si pensa che le vendite in questo settore possano crescere al ritmo di 100 miliardi di dollari nel corso dell’anno) sono proprio quelle che più hanno investito sugli strumenti accessibili da rete mobile.

Con una (grossa) eccezione: “the big blue” (al secolo “IBM” : nell’immagine Virginia Rometty, Presidente e Direttore Generale) il gigante dei mainframes si è già dotata dei più avanzati 60 data center nel mondo ed è fornitrice di buona parte del software di gestione di tutti gli altri servizi cloud nonché ovviamente del “ferro” di buona parte degli altri data center e per di più prima di tutti gli altri ad aver scommesso sulla tecnologia del blockchain per fornire accesso sicuro ai database aziendali, al commercio elettronico e ai servizi remoti di telelavoro, contabilità, gestione del personale, della forza di vendita, delle fabbriche automatiche, eccetera. Addirittura il gigante dell’informatica, che ha appena compiuto 106 anni di vita, sta compiendo una vera e propria rivoluzione copernicana nel favorire la nascita di start-up tecnologiche regalando loro l’accesso gratuito al proprio software di gestione del blockchain per incoraggiare l’utilizzo della propria nuvola.

LA NUVOLA NON SI È DIFFUSA SINO AD OGGI PER TIMORI SULLA SICUREZZA INFORMATICA

Si sa che la remora principale ad adottare servizi sulla nuvola da parte delle aziende e delle pubbliche amministrazioni era stata la problematica della sicurezza di accesso ai dati.

Le frodi informatiche e la ciber-sicurezza sono ancora oggi un tema caldo e molto spesso un vero e proprio mal di testa per chi vuole fare il miglior utilizzo del sistema informatico che gira intorno al “cloud computing” cioè alla digitalizzazione “sulla nuvola” (da remoto): quello estensivo dove tutte le applicazioni e i sistemi gestionali aziendali sono collegati e accessibili da qualsiasi piattaforma.

IL BLOCKCHAIN PUÒ RISOLVERE IL PROBLEMA

Il sistema di registro remoto (diffused ledger) creato con la tecnologia blockchain per assicurare gli scambi sulle criptovalute è la risposta ideale alla domanda di sicurezza aziendale che frenava lo sviluppo del “cloud computing”: il sistema di blocco creato per le criptovalute è considerato sino ad oggi virtualmente inattaccabile e tiene conto di ogni possibile accesso o movimento, documentandolo.

Il mercato dei servizi informatici connessi al blockchain è valso nel suo complesso nel 2016 soltanto 242 milioni di dollari, ma è destinato a toccare quasi gli 8 miliardi di dollari entro il 2022, parallelamente alla stima dell’espansione dei servizi in “cloud” che si stima verrà adottata entro 5 anni dal 55% delle grandi imprese (oltre i 1000 dipendenti) rispetto all’attuale 17% delle stesse, anche a causa del crescente utilizzo dei dati relativi all’Internet delle cose (IOT).
Stefano di Tommaso