QUANTO VALE IL BRAND VERSACE?

Il gruppo Michael Kors si aggiudica l’asta indetta da Goldmann Sachs per la cessione della Versace superando al fotofinish un nutrito gruppo di pretendenti -sono girate indiscrezioni su Tiffany, Kering (Gucci etc) Carlyle, Coach Tapestry e altri- e subito il suo titolo in borsa è scivolato di circa il 9% (dopo essersi apprezzato però di oltre il 40% nell’ultimo anno). Eppure gli analisti che coprono la Michael Kors continuano a vedere un target price (la stima di valore che le sue azioni possono raggiungere) più alto del 15-20% (a circa 78 dollari, dagli attuali 67) e soprattutto un’ottima capacità di digerire bocconi grossi e ambitissimi come la Jimmy Choo, acquisita un anno fa per un miliardo e duecento milioni di dollari.

 

CENTO VOLTE GLI UTILI

Il gruppo guidato da Donatella Versace sembra aver chiuso il 2017 con un fatturato superiore agli 800 milioni di dollari, in crescita del 18% sull’anno precedente e per circa la metà realizzati in Asia, con e un utile di meno di 20 milioni di dollari, poco più del 2% del fatturato. Valutarla oltre 100 volte gli utili (2,1 miliardi di dollari al lordo della posizione finanziaria netta) significa ovviamente attribuire buona parte del prezzo agli asset che essa contiene -principalmente il marchio della Medusa- visto che la redditività della maison fondata da Gianni Versace è stata buona ma limitata.

I MULTIPLI DEL BRAND

Ma quanto vale il marchio Versace? Un criterio universalmente riconosciuto posiziona a circa 2,5 volte il valore del marchio rispetto al fatturato dei più grandi brand del lusso ed evidentemente tale valore medio “fitta” perfettamente con quanto è successo anche stavolta. Ma ovviamente si tratta di più del doppio delle “normali” valutazioni relative ai brand vincenti del largo consumo, quindi bisogna che il mercato riconosca una indubbia capacità di giustificare nel tempo il forte plusvalore pagato.

La Michael Kors (che con l’occasione ha annunciato di aver cambiato nome in Capri Group) porta a casa un gruppo che fattura 800 milioni con 200 negozi monomarca nel mondo e dichiara di voler innalzarne il numero a 300 portando il fatturato a più che raddoppiare: 2 miliardi. Ci riuscirà?

I NUMERI DELL’ACQUIRENTE

Con un fatturato atteso per l’anno in corso di oltre 5 miliardi di dollari e una generazione di cassa di quasi un miliardo (prima dell’acquisizione di Versace, il cui giro d’affari quest’anno potrebbe da solo aggiungere al gruppo quasi un altro miliardo di dollari) il suo presidente Johnny Idol potrebbe anche farcela, grazie agli investimenti previsti e alle sinergie negli accessori, nella distribuzione e nella comunicazione.

Al momento il gruppo Capri capitalizza in borsa circa 10 miliardi di dollari, cioè due volte circa il fatturato consolidato e fa utili per circa 600 milioni di dollari, dunque vale circa 17 volte gli utili, esattamente in linea con la capitalizzazione media delle società quotate a Wall Street. Ma soprattutto è atteso generare cassa per circa un miliardo di dollari e dunque non ha paura di investire ancora pesantemente nel proprio sviluppo, soprattutto con un altro importante marchio per le mani, icona del lusso e dello stile italiano nel mondo. (Qui sotto: l’andamento del titolo Michael Kors negli ultimi 24 mesi)

QUALCHE PARAGONE ILLUSTRE…

Per fare un paragone illustre: il gruppo Armani, che fattura circa 3 miliardi di dollari, fa utili netti per oltre 320 milioni (circa il doppio in percentuale rispetto a Capri Group). Certo il suo marchio non vale meno di 5 miliardi ma se volessimo applicare gli stessi multipli di Versace arriverebbe a 7,5 miliardi di dollari e a quella cifra sarebbe ancora sottovalutato rispetto agli utili.

Tra i precedenti italiani nel mondo del fashion c’è stato quello di Loro Piana, il cui marchio fu valutato addirittura quasi quattro volte il fatturato al momento della cessione, nel 2013 (3,2 miliardi di dollari) con un fatturato appena superiore a quello odierno di Versace, sebbene la maison di tessuti e abbigliamento avesse una redditività completamente diversa (20% delle vendite) e dunque la società venne valutata soprattutto sulla base degli utili (19 volte).

Se perciò da un lato l’acquisizione di una società che fa meno utili di quanto ne vengano generati dall’acquirente è stata giustamente considerata “dilutiva” dagli analisti di borsa (e perciò “punita” al suo annuncio), dall’altra parte bisogna ammettere che la valutazione del marchio dalla medusa dorata applicata dall’acquirente non è stata poi così folle, se consideriamo che i numeri appena citati si riferiscono all’anno passato e che le prospettive di raddoppio del fatturato a marchio Versace non sono così peregrine se correttamente accostata alle sinergie apportate dal nuovo proprietario.

CHI HA RAGIONE?

Dunque hanno altrettanta ragione gli analisti di borsa (che guardano al breve termine) quanto gli strateghi del fashion (che puntano al medio-lungo termine). La grande “presa” del marchio Versace in Asia poi è ulteriore fattore di interesse per chi guarda alla crescita globale del proprio business, dal momento che in questo momento demografia e consumi si stanno sviluppando soprattutto a Oriente.

Stefano di Tommaso




IL LUXURY FASHION CEDE ALLE LUSINGHE DELL’E-COMMERCE

Il mercato dei servizi digitali sta cambiando le nostre abitudini nel modo più profondo e pervasivo che avremmo mai potuto immaginare.

 

C’era una volta il commercio elettronico, iniziato con la libreria di Amazon, poi piano piano esteso a praticamente ogni merceologia si possa immaginare. Quello che forse nessuno poteva prevedere era il repentino trapasso dell’intero mondo digitale al mobile, integrando la messaggistica, i social networks, i sistemi di pagamento, e persino il controllo della salute.

Ovviamente l’estendersi a macchia d’olio del fenomeno del commercio elettronico sta rivoluzionando non solo la distribuzione organizzata, la logistica e la comunicazione, ma anche tutti gli altri business ad esso collegati, ivi compresi quelli avanzati di molti dei grandi pionieri del web e dei colossi delle comunicazioni.
Già perché non solo stanno cambiando -più o meno velocemente- le nostre abitudini, ma ci sono intere popolazioni , come quelle del sud-est asiatico, che si sono adattate più in fretta delle altre ai nuovi standard digitali e il business sulla rete da quelle parti rischia di correre molto più velocemente di quanto accada nei paesi OCSE, quelli ricchi per intenderci. E in Asia, si sa, vivono oltre 5 miliardi di individui. Se queste popolazioni si adattano più velocemente di noi ai nuovi modelli di business, è probabile che anche le loro aziende trarranno maggior benefici dalla rete!

In Cina oramai il numero dei telefonini cellulari (oltre 800 milioni) ha soppiantato quello dei televisori e -complice la relativa carenza di altre infrastrutture- molte delle esigenze di consumo o di servizio della popolazione passano oggi dalla rete mobile. È questa la prima ragione del grande successo di Tencent, nome occidentalizzato di Téngxùn Kònggǔ Yǒuxiàn Gōngsī (alla lettera: informazione crescente): oggi l’azienda di maggior capitalizzazione in Cina (340 miliardi di dollari) e con il maggior numero di utenti: ben 770 milioni di persone in tutto il mondo. Tencent è la titolare del servizio di messaggistica online “WeChat” (alla lettera “noi chiacchieriamo”, in cinese Weixin) e dell’omonimo servizio di pagamenti elettronici cui aderiscono oltre 300 milioni di utenti nel mondo.

La vera notizia è che WeChat non soltanto ha iniziato a vendere online apparecchi vari, accessori e abbigliamento, bensì sta corteggiando i giganti del lusso, forte della sua vastissima base clienti e di una proposta innovativa: agire da canale diretto di comunicazione tra di essi e il grande pubblico (con una piccola percentuale a suo favore). Il mercato del lusso e della moda era fino a ieri confinato nelle strade più esclusive delle metropoli del pianeta, circondato da un’aula magica di fascino, stile e discrezione, inarrivabile per i più, aspirazionale per molti altri.

Oggi il tentativo delle major del commercio elettronico è quello di attrarre il maggior numero dei “vendor” tra le proprie maglie, perché più efficienti e più diretti alle specifiche esigenze di ogni loro utente, del quale conoscono un gran numero di preferenze e caratteristiche. Ma c’è una differenza tra gli altri grandi operatori e Tencent: nessuno degli altri (come Alibaba, Zalando o Amazon) ospita sulla propria rete i discorsi privati del pubblico di potenziali acquirenti! Nessuno è sempre collegato con loro.

Inoltre fino a ieri ciascuna catena di shopping online si configurava come un potenziale acquirente dei prodotti del fashion e del lusso, non come un canale per dialogare direttamente con l’utente finale!
Alibaba ha fatto un passaggio importante nel cercare di integrare nella sua rete un sistema proprietario di pagamenti (Alipay), così come lo hanno fatto altri grandi operatori (esempio: Apple Pay), ma non ospita già sui suoi server le comunicazioni dei propri potenziali acquirenti.
Infatti la quota di mercato di Alipay in Cina è passata in un anno dall’80% al 54%, grazie alla “discesa in campo” di WeChat.

 

Potranno gli acquirenti più esigenti rinunciare all’emozione delle vetrine dell’ “high street”? Probabilmente si per gli articoli di minor valore.
Cederanno i giganti del lusso alle lusinghe della rete?  Accetteranno le maison del lusso di vedersi recapitare a casa dei loro clienti i lussuosi pacchetti che le contraddistinguono? Anche qui la risposta è probabile che sia positiva, per un motivo assai banale: già oggi buona parte degli sforzi di immagine e di pubblicità delle grandi case si rivolgono alla rete. E dalla presenza in rete alle vendite in rete il passo è breve.

 
Stefano di Tommaso