APPLE A UN PASSO DAL TRILIONE DI DOLLARI

In una strana e surreale atmosfera di Wall Street che rischia di tornare a celebrare i massimi di sempre pur con un indice SP500 che capitalizza adesso solo poco più di 16 volte gli utili attesi, con un’America che sta ancora facendo i conti per valutare tutte le ricadute positive degli incentivi che il Presidente Trump ha posto per chi produce utili e fa rientrare i capitali in patria, si stanno creando le condizioni necessarie affinché per la prima volta nella storia la capitalizzazione di un’impresa (il valore che la borsa le attribuisce) superi i 1000 miliardi di dollari. E se ciò succedesse ancora una volta la corona di investitore più intelligente andrebbe a Warren Buffett, che ha appena finito di scommettere pesantemente sulle potenzialità dell’azienda caratterizzata dalla mela morsa proprio mentre Apple lanciava un programma di riacquisto azioni proprie da 100 miliardi di Dollari.

 

Indubbiamente per quasi tutti i titoli dell’indice Standard&Poor 500 gli utili per azione sono cresciuti moltissimo (in media siamo a 155 dollari per azione cioè poco meno di un sedicesimo del valore medio) anche grazie alla riforma fiscale che ha contribuito a sgonfiare i timori che le valutazioni di Wall Street fossero troppo alte.

LE FAVOLOSE VALUTAZIONI DEI TITOLI TECNOLOGICI

Ma se si pensa che in America i tassi di interesse stanno già tornando a crescere, che il prezzo dell’energia corre e, con esso, anche i timori di fiammate inflazionistiche, se si tiene conto che i segnali di inversione del ciclo economico si moltiplicano e che Wall Street ha una forte componente di titoli cosiddetti “tecnologici” come le famose FANG (Facebook, Amazon, Netflix e Google), caratterizzate da favolosi moltiplicatori degli utili (in media ben oltre le cento volte con il record di Amazon che supera le 250 volte), la performance delle borse delle ultime settimane non era così scontata, anzi!

UN TITOLO “TECNOLOGICO” CON VALUTAZIONE DA AZIENDA INDUSTRIALE

Eppure esiste un altro titolo tecnologico, anzi il più importante di tutti -Apple- che invece capitalizza soltanto 16 volte gli utili attesi (cioè esattamente quanto la media dell’indice SP 500) ma che mostra ugualmente prospettive di crescita migliori di tanti altri titoli “tecnologici”. Con la solidità dei margini di cui parliamo più sotto c’è facilmente da attendersi una riduzione nel forte divario tra i moltiplicatori dei FANG e quello di Apple ! Per fare un esempio: il titolo Amazon si è rivalutato del 70% nell’ultimo anno, quello di Apple solo del 24%.

Anzi: nonostante le sue vendite siano ancora legate per una parte preponderante ai telefonini, è in forte crescita ed ha un‘altissima marginalità la parte di ricavi Apple riguardanti i”servizi” (che si prevede raggiungeranno da soli quest’anno i 10 miliardi di Dollari, il fatturato di una multinazionale quotata a Wall Street di media taglia, mentre la Ferrari fatturerà quest’anno “solo” 3,4 miliardi di dollari) oltre che la quota di fatturato afferente le vendite online di musica e software a oltre a quella più pregiata- delle vendite “ricorrenti”- come ad esempio l’abbonamento al “cloud” (l’archiviazione remota dei dati), o i servizi di pagamento tramite telefonino e orologio intelligenti.

LA “BRAND IDENTITY”

Ma la vera chiave per convincersi della fortissima identità di marca che Apple ha sviluppato, in buona misura derivante dal successo delle politiche di qualità di prodotto e di attenzione alle esigenze del consumatore che negli anni hanno creato un “ecosistema” di prodotti e servizi che si integrano tra loro e che creano una fortissima “fedeltà”, nell’ordine del 90% della clientela che deve effettuare acquisti di rinnovo, si rivela nella disposizione del cliente a pagare significativamente più cari degli altri i prodotti Apple (balzati nell’ultimo anno dal prezzo medio di 655 dollari a quello di 728).

Questo avviene sia perché l’utente medio riconosce loro una qualità superiore che perché egli considera sempre più irrinunciabili i benefici dell’ecosistema dei prodotti stessi, i quali custodiscono le informazioni personali, le abitudini dell’utente, le immagini e i video nonché, ultimamente, anche tutti i dati biometrici (dal riconoscimento facciale all‘ andamento delle informazioni sotto sforzo sulla circolazione sanguigna o sulle abitudini di fitness e persino del sonno).

I MARGINI SONO DIFENDIBILI

Apple dunque ha edificato negli anni una decisa barriera all’entrata di concorrenti nel suo portafoglio di clientela e si è assicurata la fedeltà di quest’ultima a livelli mai visti da nessuna altra marca, cosa che getta le basi per una sempre maggiore sostenibilità degli elevati margini di cui gode. Il numero 16 ricorre ancora altre volta parlando di Apple perché la quota di mercato delle sue vendite è in media a livello globale al 16% del totale, dunque ancora con decise possibilità di miglioramento negli anni dato tutto quanto esposto, nonostante il telefonino più economico della gamma costi non meno di 340 Dollari, mentre gli utili del primo trimestre 2018 sono saliti del 16% a 65 miliardi di Dollari (dunque $260 miliardi di utili su base annua).

BASSI MOLTIPLICATORI DEGLI UTILI E TANTA CASSA DISPONIBILE

Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la capitalizzazione di borsa è basata su un moltiplicatore degli utili decisamente “economico” per la natura online, tecnologica e innovativa dei prodotti e servizi offerti, ecco che non è impossibile pensare ad ulteriori forti incrementi di valore delle sue azioni quotate, forte anche della grandissima liquidità accumulata sino ad oggi con la quale Apple può permettersi di pianificare politiche di riacquisto di azioni proprie per molti anni a venire.


Da quando ha iniziato a comprare proprie azioni (2012) fino ad oggi Apple ha già speso 275 miliardi di dollari e, con la quantità di denaro liquido (quasi 270 miliardi di Dollari a fine Aprile) e la generazione di cassa (circa $60 miliardi/anno) che si ritrova, ha già pianificato ufficialmente di spendere almeno altri $100 miliardi senza intaccare minimamente la solidità del titolo o la sua capacità di scommettere su nuove nicchie di mercato (vedi ad esempio l’ingresso nel settore auto con veicoli elettrici e a guida autonoma).

FORTI ATTESE

A una quotazione del titolo di 185 Dollari, corrispondente ad una capitalizzazione di borsa di oltre 930 miliardi di dollari, sono molti gli analisti che prevedono un rapido avanzamento del titolo oltre la soglia dei 200 Dollari per azione e di conseguenza ben oltre i 1000 miliardi di capitalizzazione di borsa dell’azienda di Cupertino in California. Tra questi il più ricco e famoso investitore di tutti i tempi: Warren Buffett che ha staccato di recente in totale assegni per quasi 50 miliardi di Dollari per diventarne socio.

Stefano di Tommaso




L’EUFORIA DELLE BORSE

Che le prospettive di un indebolimento dell’economia reale non significhino necessariamente che le borse debbano crollare lo sapevamo già, ma che addirittura gli indici di tutte le principali borse del pianeta portassero a casa una settimana da record non era così scontato che potesse accadere. La domanda perciò è: cosa succede? Quali aspettative spingono gli investitori ad alimentare il “rally di Maggio”? I mercati lo hanno già ribattezzato “Iran Deal”.

 

Al di là dell’ovvia affermazione che la risalita del prezzo del petrolio ha beneficiato le numerose aziende quotate le cui sorti sono legate a questa variabile, non sembra facile rispondere compiutamente, proviamo perciò a esaminare i fatti:
•In funzione delle tensioni geopolitiche, oro e petrolio toccano nuovi massimi e trainano i listini di molte aziende energetiche, chimiche e industriali;

•I rendimenti a lungo termine si stabilizzano poco sotto il 3%, così come pure si riducono le ansie da risalita dell’inflazione e questo sembra dare ossigeno alle banche e alle compagnie assicurative, nonché più tempo alle banche centrali per far salire i tassi;

•Il Dollaro continua ad apprezzarsi contro tutte le altre valute ma soprattutto mette in difficoltà il cambio con buona parte dei Paesi Emergenti e fa scendere per gli americani il prezzo delle materie prime.


La montagna di preoccupazioni che la stampa internazionale ha quasi unanimemente sollevato per le tensioni commerciali con la Cina è stata ignorata dai mercati finanziari mentre l’abbandono dell’accordo nucleare sull’Iran da parte degli U.S.A., ha fatto ascendere le quotazioni di Dollaro e Petrolio generando il topolino di un “hurrà” dei mercati finanziari! L’effetto può apparire strano se non si comprende a fondo lo stato d’animo dei mercati, che nella misura dei rischi percepiti valutano molto più gravemente l’incremento dei tassi di interesse che non quello delle probabilità di un conflitto.

L’indice STOXX® Global 1800 è un indice relativo all’andamento di un paniere selezionato di 600 titoli azionari americani, 600 europei e 600 asiatici. Eccone il grafico, dove si può ben vedere la decisa rimonta delle borse da fine Marzo ad oggi, a un passo dal massimo, raggiunto a Gennaio 2018:


Senza dubbio il rientrato allarme sull’inflazione americana (quella europea sembra quasi inesistente) e il ritorno dei tassi a lungo termine sul Dollaro al di sotto del 3% ha poi scoraggiato la speculazione dal portare avanti indefinitamente le proprie posizioni ribassiste costringendola a ricoprirsi, ma è sufficiente questo fattore a spiegare la corsa di Wall Street del 2,4% in una settimana?

Sicuramente il temuto (almeno in America) surriscaldamento salariale non c’è quasi stato: le retribuzioni medie orarie dell’ultimo trimestre sono cresciute del 2,6% rispetto ad un anno prima, esattamente un decimo della crescita dei profitti netti delle aziende americane nello stesso periodo (+26%), mentre la disoccupazione è scesa al livello record del 3,9%.

Ma la vera notizia degli ultimi giorni sembra essere quella che non ci sono grandi notizie (negative), soprattutto in tema di crescita economica globale:

 

 

 

 

 

 

 

 

Dunque: se nell’economia americana (che fa da traino alle tendenze di tutte le altre) l’inflazione sale meno del previsto, il prodotto lordo prosegue senza scossoni la sua crescita e le tensioni mediorientali non spaventano i mercati ma giustamente li mettono un po’ in allerta, ecco allora che si prospetta un quadro in cui le banche centrali difficilmente accelereranno sulla previsione della risalita dei tassi d’interesse.

Se combiniamo il dato di fortissima crescita dei profitti aziendali con quelli di debole risalita del costo del lavoro e dell’inflazione, con la ricopertura delle posizioni speculative al ribasso e infine con la caduta dei timori di accelerazione della risalita dei tassi di interesse (e della conseguente riduzione della liquidità in circolazione), ecco che la ricetta è completa: i risparmiatori tornano a comperare titoli e fondi azionari e i mercati possono continuare a marciare a gonfie vele, almeno sintantoché la liquidità resterà abbondante !

Non chiedetemi però fino a quando. Non lo sa nessuno, nemmeno gli economisti che continuano a snocciolare (spesso a ragione) dati preoccupanti a proposito dei timori relativi alla fragilità delle economie dei Paesi Emergenti davanti alla risalita di Dollaro e Interessi, nonché nei confronti della presunta maturità del ciclo economico o meglio, come afferma qualcuno più autorevole del sottoscritto, di quella del “ciclo del credito” (e dunque dell’abbondanza di liquidità). Ecco un grafico che mette a confronto i periodi di recessione già vissuti con l’andamento del ciclo del credito:


Sarà anche vero (e dunque pericoloso) ma intanto l’andamento attuale del grafico mostra una maggior similitudine con quello dell’ultimo decennio del 1900 che con il primo decennio del 2000. Ma poi non possiamo non accettare che sino ad oggi sono stati i governi ed i mercati -con i loro “animal spirits”- a mostrarsi più autorevoli degli economisti e questi ultimi, si sa, sono tendenzialmente pessimisti e sicuramente più deboli, dunque finiscono con l’aver spesso torto. Voglio proprio vedere se se la prenderanno con Trump anche per questo motivo!

Stefano di Tommaso




GUERRE COMMERCIALI IMMAGINARIE

Ho appena letto l’articolo di Martin Wolf sul Financial Times di ieri (“TRUMP DICHIARA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA”) nel quale afferma che il Governo Americano è alternativamente matto o sfrontato nel richiedere alla Cina “concrete e verificabili azioni” per raggiungere risultati nelle seguenti direzioni (traduzione testuale):
•Ridurre lo squilibrio commerciale tra i due paesi di 100 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi e di altri 100 miliardi nei successivi 12 mesi

•Eliminare i sussidi di stato che distorcono la concorrenza delle imprese cinesi con quelle americane e conducono ad un eccesso di capacità produttiva delle prime

•Rafforzare la tutela in Cina della proprietà intellettuale straniera

•Eliminare l’obbligo delle imprese straniere di trasferire tecnologia alle imprese cinesi per ottenere il permesso di procedere a joint-ventures in Cina

•Cessare i cyber-attacchi alle imprese americane, il loro spionaggio, la contraffazione dei loro prodotti e la pirateria sui loro diritti

•Rispettare le leggi americane sul controllo delle esportazioni

•Ritirare la richiesta al WTO di imporre tasse sulla proprietà intellettuale straniera

•Cessare azioni di ulteriore rivalsa in risposta alle iniziative degli USA volte al riequilibrio dei rapporti commerciali e alla tutela della loro sicurezza militare

•Bilanciare in pari misura le restrizioni e le tariffe imposte agli scambi commerciali USA-CINA

•Permettere controlli sanitari e sulle condizioni umane di lavoro nelle imprese cinesi che vogliono esportare alimentari in USA.

Al di là della mia incondizionata condanna ai giornalisti ed intellettuali che ritengono di potersi permettere toni così dispregiativi delle istituzioni di paesi terzi che vantano governi davvero eletti democraticamente, ditemi Voi se le richieste di Trump, benché maledettamente dirette ed esplicite e dunque contrarie ai bizantinismi della diplomazia, possano risultare “ridicole” o “impossibili” !

 


A me viene da pensare il contrario e da rivolgere un applauso a chi ha avuto il coraggio di sfidare lo “status quo” e denunciare le disparità di trattamento che sembravano divenute normali sotto le precedenti amministrazioni governative americane.

Ma è chiaro che nel fare ciò, per qualche ineffabile motivo, il presidente americano ha contro l’intero establishment della stampa internazionale.

Il bello è che lo stesso autore sulla medesima testata afferma al termine dell’articolo che in effetti la Cina dovrebbe riconoscere di essere divenuta una superpotenza economica e militare e dovrebbe finalmente accettare i principi del diritto internazionale e quelli del libero commercio aprendosi ad una discussione franca e multilaterale sul commercio internazionale. Ma secondo il medesimo autore non dovrebbe essere l’America da sola e per prima che getta il sasso nello stagno bensì una commissione congiunta con l’Europa e il Giappone. Come dire che l’urgenza non esiste.

Difficile aggiungere commenti a quanto riportato senza rischiare di essere di parte. Basta solo leggere con autonomo giudizio quanto scritto dal medesimo defraudatore delle dignità altrui.

(le immagini riportate sono tratte dal medesimo articolo)

Stefano di Tommaso




ALLA RICERCA DEL VALORE

Con i tassi di interesse che salgono sui mercati anglosassoni (e non solo) e le prospettive di ulteriori guadagni futuri che scendono, molti investitori stanno “ruotando” i loro titoli in portafoglio (cioè sostituendoli con altri), tanto per posizionarsi in maniera più prudenziale nei confronti dei rischi che corrono sui mercati finanziari quanto per prendere periodicamente beneficio delle posizioni che hanno loro fruttato un bel guadagno.

 

Nessun “guadagno” infatti in Borsa è mai davvero certo sino a quando non lo si è realizzato a titolo definitivo e a titolo definitivo significa solo quando l’investimento è stato liquidato.

Anche per questo motivo stiamo osservando da diversi mesi una certa volatilità sulle borse e -in media- un loro riassestamento: dopo le ascese stellari dell’anno scorso è normale che più di un investitore abbia deciso di prenderne beneficio o semplicemente di cambiare “asset class” (ovvero: categoria di investimenti). Se i titoli che erano cresciuti più velocemente di valore erano quelli cosiddetti “growth” (crescita): tipicamente titoli legati allo sviluppo delle tecnologie e delle vendite online di beni e servizi, oggi quelli che gli investitori cercano nelle loro (prudenti) politiche di reinvestimento sono viceversa principalmente “value” cioè capaci di esprimere intrinseco valore nel lungo termine indipendentemente dalle mode e dalle aspettative dei mercati.

TITOLI “VALUE” E TITOLI “GROWTH”

Non è facile però definire “value” un titolo azionario, dal momento che la sola non appartenenza alla categoria “growth” non lo qualifica per la precedente. Fiumi di parole sono stati spesi negli ultimi cinquant’anni tanto in dottrina quanto nelle analisi finanziarie per cercare di precisare cosa si intende per investimenti “value” senza quasi mai riuscire a sancire principi generali validi, semplici e facilmente riconoscibili.

Uno dei più grandi assertori delle politiche di “value investing” è sempre stato Warren Buffett, il quale tuttavia per primo ha riconosciuto che nelle sue scelte di fondo a volte le sensazioni hanno contato più della razionalità. E poi a lui è andata decisamente bene e oggi, dopo cinquant’anni di attività, egli è uno dei tre o quattro uomini che risultano più ricchi al mondo.

Ma moltissimi altri seguaci delle suddette politiche di investimento hanno dovuto amaramente pentirsi di non aver scelto azioni con forte potenziale di crescita quali ad esempio i titoli “tecnologici”, per poi scoprire che lo stesso Warren Buffett ha scommesso molti miliardi di dollari sulle azioni Apple (forse il più celebre di questi ultimi) e proprio adesso che -con l’approcciarsi della fine di un lunghissimo ciclo di ripresa economica americana- molti si chiedono quanto a lungo le valutazioni di quelle azioni resteranno alle stelle!


REGOLE SPANNOMETRICHE

Dunque se non ci sono (o quasi) regole che aiutino a definire quali aziende possono essere considerate “value” e quali no, come cercare di procedere nella loro selezione ?

Un primo criterio generale può essere quello della prudenza nel tipo di business aziendale e nei criteri di valutazione comunemente applicati a determinate azioni. Se dunque le valutazioni che il mercato esprime si fondano su aspettative stratosferiche o su aree di business non eticamente adamantine o ancora, se il management delle società risulta essere problematico e con idee discutibili e fortemente anticonvenzionali (anche se magari hanno ragione loro, come dimostra il caso di Steve Jobs) , ecco allora che l’investimento in quel titolo può essere considerato speculativo e a rischio. Dunque non necessariamente rispondente a criteri di ordine prudenziale.

Un secondo possibile criterio prudenziale può riguardare il livello di indebitamento delle aziende in questione. Se è molto alto è evidente che è in corso una scommessa: quella che gli investimenti effettuati più che ripagheranno il debito contratto. E’ stata svolta di recente da un analista finanziario (Travis Fairchild per conto della sua casa di investimenti O’Shaughnessy Asset Management) una ricerca sui titoli quotati che esprimevano, in venticinque anni di storia di Walls Street, un patrimonio netto negativo (cioè i debiti superavano gli attivi): ebbene se un investitore dal 1993 al 2017 li avesse evitati avrebbe perduto -in media- un’ottima opportunità di guadagno. Quello che conta, dice Fairchild, è la “qualità “ dei margini aziendali, misurata (nel grafico qui sotto riportato) secondo tre criteri generali: capacità finanziaria, crescita e sostenibilità.


Un modo diverso di approcciare al tema della stima dei valori immateriali -tutt’altro che certo e anzi spesso contraddittorio- può risiedere nella misurazione dell’effettivo valore dei beni posseduti dall’azienda o, più in generale, di quanto si discosta la valutazione complessiva della medesima da quella dei singoli beni che ha in pancia.

IL “CASO” McDONALD

Ma nemmeno in questo caso vi sono grandi certezze, come dimostrano le numerose grandi aziende che esprimono forti valutazioni di beni immetariali, come il marchio o l’avviamento. L’esempio riportato da Fairchild di McDonald è forse il più eclatante: il valore del suo marchio è riportato in bilancio per un misero paio di miliardi di dollari ma è stimato valerne all’incirca quaranta!


Il punto è che le politiche di bilancio (che non possono che rispettare le regole contabili) spesso spingono le imprese a sottostimare il valore dei beni immateriali. Dunque e tiare le aziende che esprimono forti valutazioni di beni immateriali può non essere una regola generale di stima della rischiosità implicita dell’investimento.

E’ probabilmente questa intrinseca difficoltà a definire i criteri di selezione delle aziende “value” (cioè che esprimono maggiormente un valore intrinseco sottostante e una miglior sostenibilità nel lungo termine della loro posizione competitiva) e a separare questi criteri da quelli, molto meglio individuabili, della ciclicità o anti-ciclicità del loro business, che fa si che la ricerca del valore nascosto resti soprattutto un’arte, non una scienza.

Il che non toglie il fatto che, quando le nuvole si addensano sulle borse di tutto il mondo e si tende a prepararsi al peggio, quest’arte sia la più richiesta…

Stefano di Tommaso