DRAGHI E TRUMP POTREBBERO DELUDERE I MERCATI

Stavolta le borse sembrano più prudenti del solito, in attesa del Consiglio della Banca Centrale Europea di Giovedì, perché le quotazioni incorporano sì l’aspettativa di un giudizio più severo sulla salute dell’economia nell’Euro-Zona ma anche quella (non ovvia ma ugualmente attesa con ansia) che la BCE possa lanciare di conseguenza nuovi stimoli monetari, quantomeno per scongiurare un nuovo “Credit Crunch” nelle zone più svantaggiate. Se gli stimoli saranno annunciati, allora ne beneficeranno innanzitutto le banche e le quotazioni delle borse valori. Quel che non è così scontato però è che le due notizie (la rilevazione dell’andamento macroeconomico e il pacchetto di stimoli monetari) giungeranno nello stesso momento.

 

La BCE potrebbe infatti riservarsi di calibrarne meglio il lancio e rimandarlo ad Aprile. Ma se questo avvenisse non sarebbe un bel segnale per i mercati nè per lo spread tra i Bund e i BTP. Le pressioni dei mercati sul governo italiano e sulla sostenibilità del debito pubblico nazionale potrebbero accrescersi, generando di conseguenza nuovi timori e nuove fughe di capitali dal nostro Paese e, a volerci ricamare sopra, forse queste ultime avidamente agognate dai registi occulti dello spettacolo in scena.

E’ un po’ quel che è accaduto per la sorte del dialogo Cina-America tanto agognata dalle borse internazionali: ci si aspettava che Trump segnasse già nei giorni scorsi due goal spettacolari, tanto al tavolo da gioco dei rapporti commerciali quanto sullo scacchiere ancora più complesso dei negoziati strategici con la Corea del Nord (considerata ancora un vero e proprio satellite della politica estera cinese, che mira a porre una propria zampata significativa sulla futura Corea riunita): il successo probabilmente ci sarà, ma nessuno ne ha davvero fretta, e nel frattempo le borse non brindano. Ora si parla di un consenso generale per la firma dell’accordo commerciale con la Cina al 27 di Marzo, sebbene nemmeno quella data sia certa.

Sullo sfondo poi le preoccupazioni sull’andamento dell’economia nel suo complesso aumentano e molti si chiedono se la crescita economica che ci si attendeva si verificherà davvero, inducendo perciò l’esposizione degli investitori al rischio dei mercati verso atteggiamenti di maggior prudenza ma soprattutto generando un ovvio “volo verso la qualità” dei capitali che, nel dubbio, preferiscono spostarsi sulle piazze finanziarie più liquide e sicure, riducendo la loro presenza dunque nell’Europa periferica (dove siamo noi Italiani), nonché in Cina e in molti altri Paesi Emergenti. Questa tendenza può suggerire a Donald Trump di generare altra pressione sull‘interlocutore cinese attraverso la fibrillazione dei mercati finanziari, anche al fine di indurlo a più miti consigli.

Ma a ben vedere lo stesso concetto può valere anche per i Paesi partner dell’Unione che oggi più influenzano la Commissione Europea (leggi Francia e Germania), non esattamente allineati con l’idea di veder proseguire con successo la manovra del governo giallo-verde in Italia, e dunque meno inchine a vedere la BCE agire troppo prontamente per tutelare i titoli scambiati sulle piazze finanziarie periferiche come la nostra.

Non ci sarebbe da stupirsi dunque che l’attesa di nuovi spunti dei mercati finanziari si trasformi in un lento logorìo, o addirittura in un vero e proprio allarme, pur non potendo imputarne la colpa a Mario Draghi, che resta condizionato alle decisioni collegiali del Consiglio e rimane in uscita a breve termine.

Non è ovviamente questo l’unico scenario possibile: il super governatore potrebbe ugualmente tentare un colpo di scena dai risvolti patriottici o anche soltanto un commento più generoso, e in fondo gli osservatori un po’ ci sperano.

Così come a Wall Street l’attesa della fine delle guerre commerciali tra poco più di un paio di settimane tiene ancora gl’indici sui massimi. Le borse possono contare ancora su un’ottima liquidità e sull’ennesima aspettativa di buoni profitti industriali che saranno pagati a breve dalle imprese quotate, dunque la benzina non manca loro e non hanno troppi problemi anche a divergere vistosamente dall’andamento delle principali variabili macroeconomiche, tutte o quasi oramai orientate all’opposto degli indici di borsa e delle quotazioni dei titoli a reddito fisso.

È per tutti questi motivi che nulla è scontato, e che in queste ore la cautela regna sovrana. Ma in fondo l’attesa è breve. Tra Giovedì e Venerdì qualche carta verrà scoperta.

Stefano di Tommaso




A PROPOSITO DI CICLI ECONOMICI

Le borse stanno vivendo un momento di traslazione dopo lo scoppiettante inizio del 2019, l’arrivo del quale ha regalato a chi investe una performance che potrebbe essere considerata già valida per tutto il resto dell’anno. Oggi l’economia di carta sembra sonnecchiare senza molti timori, mentre è assai difficile affermare che anche per l’economia reale va tutto bene: i dati macroeconomici non sono affatto rassicuranti e l’intero sistema industriale planetario sembra registrare un rallentamento. E ci si chiede se potrà contagiare anche i mercati finanziari.

 

PERSINO L’AMERICA TEME LA RECESSIONE

I dati statistici parlano chiaro persino in America (la stessa che ancora prevede di chiudere l’anno in corso con una crescita del Prodotto Interno Lordo al 3%, e che probabilmente dovrà presto rivedere quel numero al ribasso): il rallentamento della crescita economica è sotto gli occhi di tutti. Persino la disoccupazione in America rischia di riprendersi, sebbene con il 3,7% sia scesa a poco più di un terzo della nostra, mentre calano la crescita della produzione manifatturiera, i prezzi degli immobili, la fiducia dei consumatori, l’erogazione di credito alle piccole imprese, e mentre il debito pubblico supera il livello di guardia. L’America però sul piatto da poker della crescita economica ha da tempo giocato la sua carta migliore: gli investimenti sull‘innovazione, in molti casi destinati a portare dei frutti persino in caso di recessione.

L’INDUSTRIA EUROPEA GIÀ ARRANCA

Il continente europeo purtroppo non se la cava affatto altrettanto bene. Il governo italiano sta cercando come può di creare nuovi stimoli all’economia ma l’impostazione complessiva dell’Unione tende a limitarne l’efficacia: sarà già un bel risultato se riusciremo a contrastare la frenata delle esportazioni e la diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori, facendo terminare l’anno poco sopra la parità.

Frenano pesantemente la crescita economica e un certo malessere delle banche, che soffrono per i tassi bassi e la liquidità che vola oltre oceano. La riduzione del credito alle piccole e medie imprese è particolarmente rilevante in Italia, dove rischia nel 2019 di risultare maggiore di quella registrata nel 2018 (oltre 40 miliardi di euro). I fattori esterni congiurano con gli scontri politici per le prossime elezioni europee, a tarpare le ali all’economia del nostro Paese, sebbene è probabile che anche l’anno in corso risulti positivo per il turismo e l’industria alimentare nazionali.

La Germania è risultata ancor più vulnerabile dell’Italia all’arrivo della recessione nel 2019, non soltanto perché fortemente dipendente dall’andamento delle esportazioni, ma anche perché è risultata troppo esposta all’andamento -non positivo- dell’industria automobilistica, sottoposta a sempre più stringenti regolamentazioni ambientali e al cambio di paradigma che viene imposto dalle auto elettriche. Peraltro le condizioni generali dell’economia-molto migliori delle nostre- hanno fatto sì che i consumi tedeschi sino ad oggi non subissero forti ripercussioni.

 

LE CONTROMOSSE DELLE BANCHE CENTRALI

D’altra parte, proprio perché il timore di una recessione globale è oramai generalizzato, le banche centrali si preparano (tutte) a tornare a immettere stimoli monetari (come il Quantitative Easing o il TLTRO), per cercare di prevenire e contrastare la possibilità di una deriva eccessiva, e questo apparentemente ha ottenuto l’effetto di rassicurare i mercati borsistici, i quali ne risulterebbero beneficiari molto prima che il mondo manifatturiero. Addirittura il Tesoro britannico ha accantonato una liquidità di emergenza del valore di 4 miliardi di sterline, mentre la Banca d’Inghilterra non ha escluso la possibilità di intervenire, nello scenario peggiore -quello del “no deal Brexit- con un taglio dei tassi. L’opinione prevalente è che nel breve termine tali contromisure sortiranno un effetto positivo, soprattutto sul fronte dell’erogazione del credito alle imprese, mentre è meno chiaro cosa possa succedere nell’arco di un anno o più.

LE TEORIE ECONOMICHE NON AIUTANO

In congiunture come quella attuale non c’è allora da stupirsi se -nell’incertezza- tutti gli osservatori corrono a scrutare teorie economiche vecchie e nuove che aiutino a chiarire se sono fondati i timori di essere giunti al termine del ciclo economico espansivo. La crescita economica globale sta soltanto prendendosi una “boccata d’aria” o una nuova tempesta perfetta è in procinto di abbatterla? Come sempre è più probabile che la verità sia nel mezzo, il che però non risulterebbe un granché di buona notizia perché contribuirebbe a rafforzare ugualmente i timori e le perplessità degli operatori economici in procinto di effettuare nuovi investimenti.

Ma rispondere sarebbe più facile se potessimo spiegare perché periodicamente la crescita economica si trasforma nel suo opposto. Quali sono le ragioni determinanti? Questa tendenza alle oscillazioni del pendolo è irrinunciabile oppure si può sperare in una crescita economica prolungata senza preoccuparsene troppo ?

QUATTRO SCUOLE DI PENSIERO

Sono queste le domande cui numerosi economisti hanno tentato di rispondere nell’ultimo secolo, sfornando ipotesi per tutti i gusti di cui vorrei fare soltanto quattro rapidissime citazioni:

  • dalla scuola austriaca che vede nelle manovre delle banche centrali la causa prima del disequilibrio che in prima battuta droga i mercati ma poi porta all’effetto opposto,
  • alla teoria Keynesiana secondo la quale il governo può allentare gli effetti della recessione tagliando le tasse ed aumentando la spesa pubblica.
  • Quest’ultima è contrastata dalla “scuola monetarista” secondo la quale il concetto di ciclo economico è controverso e le sue fasi sono da intendersi piuttosto come fluttuazioni irregolari (per citarne solo alcuni) derivanti dalla maggiore o minore disponibilità di denaro liquido e dalla sua velocità di circolazione.
  • Negli ultimi anni si è poi diffusa la cosiddetta “Modern Monetary Theory”, che vede il governo di ciascuna nazione che possiede sovranità monetaria (non l’Italia, dunque) come un monopolista capace di controllare l’economia con la sua spesa, le sue tasse e il suo debito. In questa logica non importa quale sia il livello del deficit o del debito pubblico, purché l’inflazione sia sotto controllo e si possa raggiungere la piena occupazione. Insomma la negazione della concezione della scuola austriaca.

Morale: sembra proprio che non esista alcuna teoria universalmente valida e condivisa da tutti a proposito dei cicli economici, nè una ricetta che ne derivi consigli utili a prevenire o limitare i danni di una possibile recessione! Se questo è vero è come dire che non ci sono prove che le teorie sul ciclo economico rispondano a verità nè che esistono ragioni universali che ne spieghino l’andamento, e nemmeno una teoria condivisa circa gli arnesi di politica economica da usare di conseguenza.

LE “UNIFORMITÀ RELATIVE” FANNO TREMARE

Eppure se guardiamo al passato, esistono eccome delle “uniformità relative” e degli strumenti per Identificare a quale punto del ciclo economico ci troviamo. Questo perché dopo qualche anno di espansione l’economia di ciascuna nazione è sempre tornata a contrarsi, e questo è ciò che sembra accadere già oggi all’Europa, a prescindere dalle teorie e dalle spiegazioni possibili, così pure ci sono segnali di rallentamento della crescita economica anche in America e ancor più in Cina, esattamente come era avvenuto alla vigilia dei precedenti momenti di inversione del ciclo economico.

Il grafico sottostante (riferito agli U.S.A.) può mostrarci ad esempio che l’andamento della disoccupazione tende a scendere ai minimi poco prima che arrivi una recessione (fascia grigia) per poi risalire bruscamente.


Lo stesso discorso si può fare a proposito dell’indice di fiducia dei consumatori, che si riporta rapidamente in territorio positivo (colore verde) subito dopo la fine di ogni nuova recessione per poi declinare progressivamente mano mano che si prosegue nel corso del ciclo economico espansivo.


Il problema di un tale approccio però è che molte considerazioni valide per ciascuna nazione rischiano di risultare poco valide per il mondo intero, dal momento che le oscillazioni della crescita economica sono quasi sempre sfasate tra una nazione e l’altra.

D’altra parte ciò può essere un bene, dal momento che i veri problemi si manifestano quando tutto il mondo contemporaneamente si avvia verso la recessione, e ciascuna area geografica contagia le altre.

Ci sono peraltro sempre maggiori collegamenti tra i mercati finanziari di tutto il mondo e alcune variabili tendono oramai a oscillare in perfetta sincronia. Si guardi per esempio all’inversione della cosiddetta “curva dei rendimenti”: una tendenza manifestatasi con costanza negli ultimi decenni in tutto il pianeta, alla vigilia di ogni recessione c’è stata infatti una sensibile riduzione (sino all’inversione) delle differenze dei rendimenti finanziari tra il breve e il lungo termine, come è mostrato dal grafico che segue:


Se da un segnale così forte dovessimo dunque dedurne qualcosa in termini predittivi, allora sarebbe piuttosto probabile che il momento attuale esprima la potenzialità dell’arrivo di una nuova recessione, così come è successo quasi sempre in precedenza.

IL DEBITO GLOBALE È FUORI CONTROLLO

Ma il mondo deve anche confrontarsi con una variabile che sembra essere uscita fuori controllo soltanto negli ultimi anni: l’espansione del debito globale. Nel grafico qui sotto ne vediamo le proporzioni: alla fine dell’anno in corso probabilmente conviveremo con un debito complessivo globale che è semplicemente triplicato rispetto a quello del 2003, come mostrato dal grafico che segue:


Una crisi di fiducia prossima ventura insomma trascinerebbe con sè una crisi del debito le cui proporzioni si sono sensibilmente ampliate negli ultimi dieci anni. Difficile ovviamente dedurne delle indicazioni pratiche circa le azioni da intraprendere, tanto a livello pubblico quanto dei propri investimenti privati. E di conseguenza è difficile dedurne delle cautele possibili, ma certamente il contesto macroeconomico in cui ci troviamo sembra premonire -senza precisarne il momento- l’arrivo di una nuova recessione globale e il livello di indebitamento cui si è spinto l’intero pianeta non fa presumere nulla di buono circa la sorte possibile delle attività finanziarie in contesti come quello attuale.

Ma, come appena specificato, nessuno sa quando arriverà quel momento. America e Cina -per motivi politici- concordano fortemente nel cercare soluzioni per prolungare la durata dell’attuale ciclo economico, ma ciò non sarà possibile se il resto del mondo andrà ugualmente sott’acqua (e l’Europa ci è molto vicina).

QUALE DIVERSIFICAZIONE DEGLI INVESTIMENTI ?

Non è un caso che oramai già da qualche tempo gli investitori di tutto il mondo cerchino protezione del valore delle ricchezze amministrate nelle più svariate direzioni della diversificazione degli investimenti, ma in un mondo dove gli andamenti di quasi tutte le attività finanziarie sembrano sempre più fortemente correlati tra di loro, è davvero difficile ottenerla.

Qualcuno dice che quella protezione potrebbe arrivare dal mattone e dalle cosiddette “utilities” (attività economiche di produzione di beni e servizi di pubblica utilità) cioè dagli investimenti anticiclici per eccellenza, qualcun altro dice che tale difesa può trovare attuazione investendo di più sui mercati delle economie emergenti del pianeta (quelle meno colpite oggi dalla speculazione), i quali risentiranno meno di un’eventuale crisi perché hanno meno da perdere e perché la crescita demografica sospinge le loro economie.

Ma la verità è che, sebbene molti dati inizino a parlar chiaro circa la possibilità di una recessione globale, resta molto difficile presagire temporali mentre ancora il sole splende a cielo terso, e che in casi come questo si corre persino il rischio di essere additati per il malaugurio!

Stefano di Tommaso




BANCHE ITALIANE AL BIVIO

È di qualche giorno fa una duplice batteria di riflettori che ha acceso l’attenzione dei media sull’andamento delle banche italiane: da un lato un sibillino resoconto sullo stato di salute dei loro bilanci pubblicato da Equita Sim, denominato “Hit but not Sunk” (colpite ma non affondate) e dall’altro lato lo scandalo della truffa dei diamanti, che ha rivelato non soltanto la propensione delle aziende di credito nazionali a trasformarsi in un supermarket della qualsiasi, ma anche lo scarso regime di verifiche che avvolge il mondo dorato della sollecitazione del pubblico risparmio. Tuttavia, a causa di una serie di fattori contingenti, da circa un mese a questa parte i titoli azionari delle banche quotate in borsa sono tornati a crescere, proponendo un legittimo dubbio sulle prospettive del comparto creditizio in Italia.

 

LA TRUFFA DEI DIAMANTI

Se torniamo per un istante alle questioni sollevate dalla truffa dei diamanti proposti alla clientela come forma alternativa di investimento, non può sfuggire il fatto che quello bancario dovrebbe essere un setttore fortemente regolamentato e vigilato dalla Banca d’Italia. Se infatti gli “asset manager” (i gestori di patrimoni) sono numerosi e spesso indipendenti, le reti di vendita che lanciano i promotori finanziari a caccia dei risparmi da gestire e indirizzare sono in numero molto minore e anche quando sembrano indipendenti sono spesso controllate o partecipate da banche e assicurazioni (altro settore che, direttamente o indirettamente, sollecita il pubblico risparmio).

LA SCARSA EFFICACIA DELLA VIGILANZA

Da notare che i compiti istituzionali della Banca d’Italia, compiti fortemente ritagliati e ridimensionati dal conferimento di buona parte di quelli precedenti alla Banca Centrale Europea (BCE) ai tempi della nascita della Moneta Unica , dovrebbero riguardare principalmente la vigilanza sugli istituti di credito, mentre al contrario il numero di persone stabilmente assunte continua inspiegabilmente a crescere…

Nemmeno questa volta, come era già successo nei casi più eclatanti di Banca Etruria, e poi delle popolari venete, alcun ispettore si è accorto di nulla, e nemmeno è stato citato dai media che se ne sono occupati, come fosse un problema di qualcun altro. Il sospetto perciò che le maglie della vigilanza siano larghe anche in altri ambiti come quello della contabilizzazione delle minusvalenze o del calcolo della correttezza dei costi applicati alla clientela, accentua la sensazione di rischio che provano gli investitori per l’intero comparto bancario, quando esaminano la possibilità di prendere posizione sul mercato borsistico ovvero di partecipare ad un aumento di capitale.

LA TENDENZA DI LUNGO PERIODO È AL RIBASSO

E se prendiamo l’indice borsistico relativo al comparto banche, non a caso si nota una costante discesa del medesimo da un anno a questa parte:

Per Scauri, il gestore azionario Italia di Lemanik Asset Management, è meglio ridere nei portafogli di investimento il settore bancario alla luce del rallentamento del pil italiano, della crescente pressione da parte del regolatore europeo (la BCE, che si fida sempre meno di Bankitalia) e della difficoltà nel generare un accettabile margine di interesse.

Tornando però al report sopra citato di Equita, viene fatto notare che il giro di vite della Bce sui crediti deteriorati potrebbe anche lasciare indenni le banche, che sono in grado di gestire la richiesta della Vigilanza senza troppi scossoni.

CALERÀ ANCORA L’EROGAZIONE DEL CREDITO

Ma a pagare il prezzo del meccanismo con cui Francoforte chiede alle banche di svalutare completamente i crediti deteriorati entro| il 2026 – saranno probabilmente le famiglie e le piccole e medie imprese italiane: l’erogazione del credito nei prossimi anni potrebbe stringersi del 15% rispetto ad oggi, con un calo cumulato dei prestiti atteso nell’ordine di 185 miliardi in 7 anni. In un mio precedente articolo facevo notare che, nel corso del 2018, i prestiti delle banche alle piccole e medie imprese si sono contratti in totale del 5%, cioè di 40 miliardi di euro, nonostante che le sofferenze creditizie verso le medesime imprese si siano ridotte del 31%, vale a dire di 53 miliardi (da 173 miliardi a 120).

Inoltre prosegue il rapporto di Equita, entro il 2020 le banche dovranno rifinanziare una raccolta pari a 200 miliardi, di cui 188 miliardi attraverso il programma di liquidità della Bce ma stima che se il 40% dell’esposizione con la Bce dovesse essere rinnovata, non ci dovrebbero essere “rischi di ulteriore deleveraging sugli impieghi” e perciò “le banche dovranno emettere almeno 70 miliardi di bond e ridurre di 27 miliardi (-18%) i Btp nel loro portafoglio. Il contesto in cui operano le banche italiane viene definito dunque “sempre più sfidante”.

LA MINACCIA “DIGITALE”

Da non sottovalutare poi il pericolo di disintermediazione che proviene dalle cosiddette FinTech (le società tecnologiche che puntano a rimpiazzare il ruolo della banca creando sulla rete digitale un punto d’incontro “autonomo” tra domanda e offerta di capitali). Uno studio della BAIN&Co evidenzia proprio in Italia il massimo del rischio di riduzione della raccolta di depositi a causa di ciò.

 

Per non parlare dell’ulteriore rischio di disintermediazione che proviene dai sistemi digitali di pagamento che stanno progressivamente rimpiazzando quelli bancari.

 

 

MA LA BORSA SEMBRA CREDERCI

Le prospettive insomma, comunque le si gira, non sono splendide per il settore bancario, senza contare il fatto che l’apparentemente inevitabile riduzione dell’erogazione del credito per il sistema bancario potrà comportare il rischio di una progressiva disaffezione della clientela, dal momento che si fa largo l’idea che nel prossimo futuro non sarà più la banca il luogo dove trovare risposte a tutte le esigenze finanziarie.

A meno di decise manovre di riduzione dei costi e di recupero di efficienza, i margini di profitto delle banche non potranno non risentirne. Ecco il bivio: riusciranno le banche italiane ad incrementare l’efficienza economica più di quanto il mercato ridurrà i loro margini economici? La borsa sembra crederci oggi, ma per i mercati finanziari anche i semestri possono risultare delle eternità!

 

Stefano di Tommaso




IL CREDITO ALLE IMPRESE CONTINUA A RESTRINGERSI MA UNA SPERANZA ARRIVA DAL FINTECH

È la stessa Banca d’Italia ad affermarlo in una nota dello scorso 22 Gennaio: nel 2018 la domanda di credito nel nostro Paese è cresciuta ma l’offerta no, anzi si è ulteriormente irrigidita. Soprattutto per le piccole imprese, che non hanno trovato sfogo negli strumenti alternativi offerti dal mercato dei capitali a quelle di dimensioni un po’maggiore. Ma all’orizzonte sembra emergere una vera e propria rivoluzione finanziaria…

 

LA RITIRATA DELLE BANCHE

Complice la normativa europea sempre più stringente sui requisiti di capitalizzazione delle banche, queste ultime rispondono alle accuse di aver ristretto i cordoni della borsa facendosi sempre più promotrici di servizi alle imprese, dall’intermediazione per la loro capitalizzazione al supporto dell’internazionalizzazione. Tuttavia mel corso del 2018 i prestiti alle piccole e medie imprese si sono contratti in totale del 5%, cioè di 40 miliardi di euro, nonostante che le sofferenze creditizie verso le medesime imprese si siano ridotte del 31%, vale a dire di 53 miliardi (da 173 miliardi a 120).

La statistica appena citata accomuna tuttavia le medie alle piccole imprese: sono quelle fino a 5 dipendenti le vere vittime sacrificali del momento. Pur costituendo -in numerosità- il 91% del totale degli operatori economici italiani, queste ultime ottengono soltanto l’11% del totale di credito erogato nel nostro Paese. Da questo punto di vista è scattata una vera e propria emergenza nazionale, dal momento che in Europa l’Italia era già il fanalino di coda quanto a disponibilità di credito per gli operatori economici e che l’ultimo intervento pubblico della Banca d’Italia certifica l’impotenza del medesimo istituto ad agire per contrastare la deriva.

L’ASCESA DELLE PIATTAFORME FINTECH

Ma per fortuna sta decollando una nuova modalità di erogazione del credito alle imprese, basata sul moltiplicarsi delle piattaforme finanziarie online (dette : FinTech) che offrono il cosiddetto P2P Lending vale a dire i “prestiti peer to peer”, cioè il credito erogato direttamente dal prestatore di denaro al suo prenditore.


Nel corso del 2018 questo sistema ha canalizzato a favore delle piccole imprese 763 milioni di euro, più che raddoppiando quanto fatto nel 2017. La stima (prudenziale) per l’anno in corso è che saranno superati i 1200 milioni di euro, in netto rialzo rispetto a quanto previsto dagli analisti fino a pochi mesi fa.

Il mercato potenziale però è molto più vasto: ammonta a 50 miliardi di euro la stima dei microprestiti erogati alle micro-imprese di cui le banche italiane farebbero volentieri a meno perché oggi considerati non remunerativi.


Le piattaforme FinTech rispondono alle esigenze di un mondo che cambia, nel quale le informazioni corrono in tempo reale, tutto passa dai dispositivi mobili (come gli smartphone e i tablets) e la generazione dei “millennials” (cioè colo che sono nati a ridosso del nuovo millennio) è cresciuta maneggiando dispositivi digitali e adesso che inizia a detenere risorse finanziarie le vuole investire in modo più efficiente.

Inoltre è oramai comprovato che ne Paesi economicamente più evoluti il sistema dei pagamenti si sposta ad una velocità sorprendente verso gli strumenti digitali, e non solo tramite le carte di credito (esempio: Paypal). Secondo uno studio di PWC già nel 2018 il 56% degli operatori finanziari tradizionali ha incorporato strumenti FinTech nella propria offerta alla clientela e addirittura l’82% di essi prevede di aumentare le proprie partnership nei prossimi tre-cinque anni.

UN NUOVO MODELLO DI BUSINESS

Andiamo allora a scoprire le caratteristiche di questo strumento innovativo (la piattaforma FinTech) che di fatto rivoluziona il concetto stesso di banca commerciale, adeguandolo ai tempi che corrono e alle tecnologie più moderne:

  • il fatto stesso che la proposta si propaga esclusivamente sulla rete e non tramite sportelli bancari permette di individuare la prima: non ci sono vincoli territoriali nè aree geografiche preferite: l’extraterritorialità di internet è sicuramente una prima carta vincente; 
  • il prezzo del credito è molto probabile che risulti nominalmente più elevato, dal momento che deve essere tale da congiungere domanda e offerta di credito, ma anche più trasparente e privo di altri balzelli quali le numerose commissioni che le banche applicano sui conti correnti, su ogni comunicazione e su ogni servizio aggiuntivo, dato che le piattaforme finanziarie online sopportano costi molto limitati; 
  • sinora la maggior parte delle transazioni di credito online si sono rivolte al Factoring di crediti commerciali verso imprese di medio-grandi dimensioni, ma la maggior domanda di credito si posiziona sui finanziamenti per cassa e sulla raccolta di capitali online (detta anche : “crowdfunding”) per cui è soprattutto in queste direzioni che il mercato del credito P2P online può fare grandi numeri; 
  • la raccolta di depositi da parte delle FinTech avviene con la diretta finalità di finanziare delle specifiche imprese, e dunque il modello di business non genera rischi di insolvenza del debitore per il bilancio della piattaforma, perché quei rischi rimangono in capo a coloro che partecipano alle singole iniziative di credito; 
  • quanto sopra ovviamente limita molto la capacità di raccolta di risorse da parte delle singole piattaforme perché molti potenziali prestatori percepiscono un rischio elevato sulle somme che vi depositano. Dunque è questa la “frontiera efficiente” del P2P Lending: la possibilità di mutualizzare i rischi di erogazione tra un certo numero di imprese beneficiarie dei prestiti P2P, cosa che per definizione è un prodotto assicurativo; 
  • un’ultimo aspetto da sottolineare è il rating che esse attribuiscono all’impresa beneficiaria: ad oggi è “confezionato” artigianalmente da personale interno, con tutti i limiti che ciò può significare. Qualora la rischiosità delle erogazioni fosse mutualizzato tra un gran numero di imprese beneficiarie, nonché attutita da sistemi più efficienti di valutazione dei rischi, allora il successo delle piattaforme sarebbe -come dire?- “assicurato”.

Sino ad oggi tuttavia sono stati ben pochi i precursori di questa rivoluzione digitale. E soprattutto sono state quasi assenti le banche commerciali, che si presume possano avere i migliori benefici a mettere un piede anche dentro questa scarpa.

Le cose nel mondo digitale evolvono tuttavia molto velocemente e forse già il 2019 potrebbe risultare l’anno della “svolta”! In base ai dati Nielsen e a quelli dell’ Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano (School of Management) nel 2018 la percentuale di cittadini italiani che hanno utilizzato un servizio Fintech/Insurtech è stata dal 25%contro il 16% di un anno prima. Nella classifica dei servizi più utilizzati con il grado di soddisfazione più alto troviamo: mobile payment (16%), servizi per budget familiari (15%), trasferimenti P2P (12%) e Chatbot (9%).

LA CONVERGENZA CON L’ INSURTECH

Ma per i motivi sopra riportati è forse più probabile che la “svolta” arrivi dagli operatori del mondo assicurativo (già peraltro a loro volta impegnati nello sviluppo di piattaforme di Digital Insurance Technology, altrimenti nota come “InsurTech”). Questo è probabile tanto per la convergenza ineluttabile tra i diversi operatori del mercato finanziario, quanto perché è forse soltanto dalle competenze dei prodotti assicurativi che può originare l‘effettivo abbassamento della rischiosità del P2P Lending.

Stefano di Tommaso