LA RECESSIONE È GIÀ FINITA?

Una serie di indicatori non-statistici hanno fatto muovere al rialzo i mercati finanziari e quelli delle materie prime da inizio anno dell’8,5% in media nel mondo. Ma mentre per il rialzo dei mercati finanziari si può ragionevolmente ritenere che l’ottimismo attuale dipenda più dal livello della liquidità in circolazione (in questo momento molto elevato) che dalle prospettive macroeconomiche, per la crescita dei prezzi delle materie prime (e in particolare per quella del petrolio) bisogna prendere atto che la loro domanda supera l’offerta nonostante questa stia continuando a crescere. Dunque l’economia globale evidentemente prosegue impetuosa la sua corsa, mentre le statistiche fanno fatica a rilevarne la misura.

 

Si potrebbe obiettare che un paio di rondini non fanno primavera e che le dichiarazioni pro-Opec fatte dai principali produttori di oro nero fanno temere che in futuro l’offerta di greggio potrà ridursi, ma visto che ad oggi non è ancora successo, se la domanda supera l’offerta può dipendere soltanto da due fatti:

 

  • O c’è molta richiesta di petrolio e dunque il prodotto interno lordo delle nazioni non sta affatto rallentando,
  • Oppure la domanda non è poi così forte ma c’è chi sta accumulando riserve di petrolio in attesa che ne cresca il prezzo.

Ma se anche fosse la seconda ipotesi, allora bisogna mettere in conto uno dei due possibili scenari che seguono:

  • O gli speculatori che accumulano stock sono in attesa di una decisa e importante riduzione della disponibilità di petrolio nel prossimo futuro
  • Oppure, OPEC a parte, le prospettive di domanda di petrolio sono comunque più elevate dell’offerta, e dunque nessuno si aspetta una severa recessione economica nei prossimi mesi.

 

E qui veniamo al punto: ricordiamoci che nonostante banchieri centrali, analisti e osservatori economici continuino da almeno un biennio a gridare allo scandalo di quotazioni troppo elevate delle borse, e nonostante le banche centrali abbiano rialzato in qualche caso i tassi e in altri casi ne abbiano annunciato l’intenzione, i rendimenti dei titoli obbligazionari restano bassissimi e gli indici di borsa restano prossimi ai massimi di sempre.

LE BORSE NEL MONDO FANNO +8,5% DA INIZIO ANNO

In passato si era giunti a “giustificare” quei livelli a causa della forte crescita dei profitti industriali e dunque sulla base di decise aspettative di crescita economica globale. Poi negli scorsi mesi qualcuno ha iniziato a dubitarne e, in effetti, nella seconda metà del 2108 una raffica di statistiche ha mostrato una decisa flessione nell’andamento di investimenti e consumi. Eppure le borse non si sono quasi mosse. La discesa delle quotazioni dello scorso Dicembre è oramai un ricordo e persino la borsa di Shangai (quella che era crollata di più nel corso del 2018) da quasi un mese non fa che puntare in alto.

Ora è arcinoto che la prospettiva di una imminente recessione globale, o quantomeno quella di chiazze geografiche di recessione nel mondo porta con se la prospettiva di una riduzione dei profitti aziendali e dunque anche quella di una riduzione aziendali dei valori sottostanti. Ma se andiamo a cercare commenti e previsioni sulla stagione dei profitti in corso, nonostante le aspettative di crescita degli utili aziendali siano in calo, tutti si aspettano che continuino a salire, e non soltanto nel primo trimestre dell’anno, bensì per tutto il 2019.

Questo non significa necessariamente che le borse continueranno a crescere ininterrottamente ancora a lungo, perché molte altre variabili sono ancora in gioco al di là della crescita economica globale, ma evidentemente gli allarmi lanciati negli ultimi mesi dagli organi di (dis)informazione di massa si sono rivelati spesso infondati o anche soltanto esagerati.

LA CRESCITA RALLENTA MA PROSEGUE

Certamente: la crescita economica sta rallentando un po’ dappertutto nel mondo, e in particolare in Europa, ma non sono i fattori congiunturali a frenare lo sviluppo, bensì molto più probabilmente quelli strutturali, come la necessità di ingenti investimenti per proseguire nell’automazione industriale, o quella di ancor più ingenti risorse per le grandi opere infrastrutturali.

Gli investitori sui mercati finanziari restano particolarmente cauti perché si rendono conto della necessità di individuare un nuovo equilibrio finanziario globale nel decennio che è in arrivo, dato l’eccesso di debiti che tutte le nazioni hanno accumulato, l’invecchiamento della popolazione più benestante, la crescente concentrazione della ricchezza in poche fortissime mani, il possibile effetto dirompente delle numerose nuove tecnologie in arrivo.

Ma come si può leggere dal grafico nell’ultimo mese essi sono ritornati a scommettere sulle tecnologie e sui Paesi Emergenti e dunque nonostante le doverose cautele i mercati finanziari viaggiano a gonfie vele, i profitti aziendali continuano (seppur a ritmo più pacato) a crescere, e il lungo ciclo economico positivo globale che nell’ultimo biennio si è sincronizzato un po’ in tutto il mondo, non si è affatto invertito.

Gli unici che forse sono rimasti davvero scornati dalla successione degli eventi più recenti sono invece gli economisti, i ”guru” di ogni sorta e gli pseudo-cartomanti che da anni continuano a suonare le campane a morto sperando di essere ricordati come coloro che avevano annunciato per primi la recessione. Ma anche, probabilmente, tutti coloro che alle attuali notizie (mediamente positive) avrebbero preferito un diverso corso delle vicende politiche e geo-politiche (oggi infinitamente più tranquille di ieri), evidentemente per motivi di loro tornaconto personale. Prima o poi una nuova recessione economica arriverà ugualmente, ma al momento non se ne vedono ancora i contorni all’orizzonte…

Stefano di Tommaso




L’INGANNEVOLE ENFASI DEGLI ORGANI DI STAMPA SULLA MANOVRA ECONOMICA ITALIANA

È dalla metà del 2018, dopo il consolidamento dell’attuale maggioranza di governo, che l’Italia è percorsa da feroci polemiche sulla validità della manovra economica che quest’ultima ha propugnato agli Italiani. Dov’è la verità? Cosa sta succedendo davvero?

 

Per fare luce occorre iniziare col guardare indietro di qualche mese. La polemica politica sulla validità della manovra giallo-verde era già rovente ai blocchi di partenza del nuovo governo (1. Giugno 2018) ed è divenuta poi infuocata nei lunghi mesi in cui la Commissione Europea ha fatto di tutto per contrastarla (trovandosi peraltro chiaramente su posizioni politiche opposte rispetto a quelle del nuovo governo italiano). Mesi in cui l’Italia ha visto lievitare lo spread tra i tassi di interesse sui BTP decennali e quelli sul Bund tedesco di pari durata.

LA MINI-RECESSIONE HA INFUOCATO LA POLEMICA

Lo scontro ad ogni quartiere tra governo e opposizione tuttavia è giunto alle estreme conseguenze di minacce, insulti e all’evocazione di scenari apocalittici quando l’intera Europa continentale (a partire dalla Germania) è caduta in una mini-recessione tecnica proprio nello stesso periodo in cui il governo si insediava (seconda metà del 2018), sebbene le statistiche che hanno rivelato tali numeri (per quasi tutta l’Europa) siano state rese pubbliche solamente dalla fine dell’anno. Pochi commentatori hanno fatto notare che si trattava di un “male comune”.

Oggi -dopo più di un semestre di campagna stampa denigratoria- tutti si chiedono se la manovra di governo (che in buona parte deve essere ancora resa operativa) sia davvero sbagliata e se lo spread, ritornato leggermente in basso ma pur sempre al 2,5% rispetto ai tassi dei titoli tedeschi, non sia la spia di una profonda diffidenza che i mercati nutrono per l’attuale governo. Anticipo qui immediatamente alcune conclusioni del mio articolo: lo spread non è una misura assoluta dell’appetibilità dei titoli italiani, dal momento che, se lo fosse stata davvero, nel secondo semestre del 2018 avremmo visto una fuga dai titoli di stato italiani e il loro tasso di interesse non si sarebbe addirittura ridotto di quasi un punto percentuale.

IL CORO DEL “MAINSTREAM” È CHIARAMENTE CON L’OPPOSIZIONE

A ciò va aggiunto il fatto che le tesi della vecchia classe politica italiana -che oggi si trova in minoranza in Parlamento- vengono tuttavia supportate con vigore dai principali media del nostro e degli altri paesi occidentali, nonché dalle vecchie maggioranze ancora al governo nei paesi dominanti nell’Unione Europea. È anche per questo motivo che l’opposizione -forte dell’imponente schieramento internazionale che la supporta- conta di risultare alla lunga convincente sull‘opinione pubblica circa l’incongruità della manovra e l’inadeguatezza a governare dei vincitori delle elezioni.

Pur essendo evidente che per la maggior parte delle polemiche in corso le opinioni sbandierate da quasi tutti coloro che strillano forte (opinionisti e commentatori delle grandi testate, esperti economici e centri studi di questa o quella associazione) sono tutte spesso orientate a sostenere la pura lotta di fazione a questo governo fatto di “outsiders”, e non sono certo basate su dibattiti seri e autorevoli circa la selezione delle migliori politiche economiche per il nostro Paese, vorrei qui di seguito tentare di affrontare il bandolo della matassa delle accuse alla manovra economica del governo, provando ad analizzarne il contenuto tecnico.

IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA STIMOLI ECONOMICI E VINCOLI EUROPEI

Partiamo da un dato di fatto difficilmente controvertibile: le politiche economiche vagamente neo-keynesiane cui si sarebbe ispirato per più di 4 anni (febbraio 2014-maggio 2018) il precedente duetto di governo (Renzi-Gentiloni), non soltanto non si sono rivelate molto efficaci in termini di rilancio dell’economia pur essendo state avanzate in tempi di piena espansione economica globale, ma se da un lato hanno prodotto qualche incentivo alla crescita della produzione industriale e alla riduzione della disoccupazione, dall’altro lato hanno fatto crescere a dismisura la tassazione per lasciare intatta la spesa corrente dello Stato e mantenere altresì il rispetto del forte vincolo di bilancio richiesto dalla Commissione Europea.

Anche un bambino però comprende che è molto difficile coniugare crescita economica e crescita dell’imposizione fiscale e che, al primo soffio di venticello a livello internazionale, l’unovirgola di crescita dell’Italia sparisce come neve al sole. Quel che dunque le nuove forze politiche stanno sperando di realizzare è un mix tra qualche taglio alla spesa pubblica insieme a qualche incentivo ai consumi (vedi il reddito di cittadinanza e le pensioni agli esodati della legge Fornero) e agli investimenti (vedi la Flat Tax e altre misure di contenimento della tassazione).

L’equilibrio tra le diverse esigenze senza andare in totale rotta di collisione con gli altri membri dell’Unione Europea è anch’esso difficile, come lo era quello del precedente governo, ma lo è ancor di più senza arrivare ad incrementare il deficit dei conti pubblici, che questo governo spera di ottenere con l’avvento -in primavera- di una maggioranza politica diversa in Commissione Europea. Ricordiamoci il benestare appena fornito dalla Commissione Europea alla stessa istanza promossa dalla Francia, senza un battito di ciglia, per il solo fatto che lo ritiene uno Stato “più affidabile”.

GLI USA HANNO TIRATO DRITTO E I FATTI HANNO DATO LORO RAGIONE

Negli Stati Uniti d’America, dove la banca centrale non doveva chiedere permesso ad alcun governo straniero nel finanziare il proprio deficit pubblico, la manovra di taglio delle tasse è stata portata avanti con coraggio (per il deficit dei conti pubblici che essa genera) ed è risultata tuttavia in un puro successo, rilanciando non poco la crescita economica americana e ancor più sbaragliando letteralmente la disoccupazione, mentre il timore prevalente, all’epoca come anche oggi, di una fiammata inflazionistica come risultato di una “politica fiscale” troppo espansiva, si è rivelato -a due anni di distanza- del tutto infondato.

E poiché l’unico timore che tratteneva anche la banca centrale americana (la FED) dall’accompagnare tale politica espansiva (l’inflazione appunto) è caduto, anche la politica di rialzo dei tassi americani portata avanti fino a tutto il 2018 dalla FED è stata oggi stoppata (quasi) definitivamente, riportando le quotazioni delle borse quasi ai massimi di sempre. La lotta politica prosegue spietata anche oltreoceano ma intanto l’America si riempie la pancia e toglie dalla strada i senza lavoro.

IN EUROPA TUTTO È PIÙ DIFFICILE

Certo, la guardia degli investitori resta (e deve restare) molto alta perché il mondo convive con uno spropositato livello di debito che dal punto di vista storico è un inedito e che molti temono possa riportare indietro di un secolo il calendario dell’occidente se non attentamente monitorato. Per lo stesso motivo nemmeno l’Europa del dopo elezioni comunitarie potrà allegramente disinteressarsene, ma certo il problema del vincolo di bilancio rende quasi inattuabile qualsiasi politica economica italiana che provi seriamente a favorire la crescita.

Al sottoscritto come a molti altri -pur senza parteggiare per alcuna fazione politica- non piace perciò la situazione di perenne concerto di voci contrarie alla manovra del governo e il coro di coloro che continuano a dichiarare ai giornali che la maggioranza parlamentare di quest’ultimo cadrà prestissimo. Viene il dubbio che se al governo fosse andata qualsiasi altra forza politica nuova sarebbe successo esattamente lo stesso. E l’aver rinunciato a parte della nostra sovranità nazionale senza aver completato l’integrazione europea, anzi avendo lasciato in vita il vecchio debito pubblico, resta un vero e proprio cappio al collo per chiunque volesse seriamente tentare di rilanciare l’economia nazionale.

EPPURE QUALCOSA BISOGNA PUR FARE

Ma poiché a farne le spese come al solito sono e saranno le classi e le regioni più deboli, che risultano essere anche quelle che meno possono far sentire a Roma la loro voce, ecco che la ricerca di ricette valide per riprendere la strada della crescita economica italiana diviene (anche) un’emergenza umanitaria per oltre un terzo della popolazione e la necessità di arrestare l’emorragia di cervelli e capitali di cui sono affette anche le regioni del Nord.

Un’emergenza su cui occorre arrivare a concentrare l’attenzione di tutti, forse in qualche misura paragonabile a quella dei migranti africani, che i media ci rammentano invece tutti i giorni dell’anno.

 

Stefano di Tommaso




CRESCITA ECONOMICA : TUTTO DIPENDERÀ DAGLI INVESTIMENTI

Il 2019 ha quasi compiuto un mese di vita e si è presentato fino ad oggi ai mercati finanziari come un anno le cui prospettive di crescita economica globale sono difficili da interpretare ma sicuramente è stato foriero di cospicui rialzi di borsa nonché di una decisa stabilizzazione dei rendimenti (che si sono addirittura ridotti).
Persino la volatilità si è data una regolata, dopo un Dicembre da brivido. Ciò è accaduto piuttosto inaspettatamente a partire dal periodo di Natale, dopo mesi preoccupanti di borse in ribasso e di grandi tensioni geo-politiche, e nonostante che molti risparmiatori hanno liquidato le loro posizioni nei fondi di investimento.
A influenzare positivamente i mercati è intervenuto anche il cambio di atteggiamento delle banche centrali, che fino all’anno passato sembravano avviate in direzione “ostinata e contraria” a continuare con il raffreddamento monetario e la risalita dei tassi.

 

UN AUTUNNO DIFFICILE

Quello appena trascorso è stato un autunno-inverno denso di tensioni e guerre psicologiche, commerciali e politiche: è difficile definire diversamente non soltanto quella (ancora) in atto tra l’America e la Cina, ma anche quella che abbiamo vissuto nello stesso periodo tra il nuovo Governo Italiano e la vecchia classe dirigente dell’Unione Europea. Magicamente invece, nell’anno appena iniziato non solo l’inflazione ha mostrato di essere un fantasma e il petrolio è risultato in ribasso, ma persino le prospettive dell’economia reale sembrano decisamente meno peggiori di quel che si poteva ritenere.

IL MIGLIOR GENNAIO DAL 1987

Dunque ciò che è accaduto nella prima parte del 2019 è che per le borse è stato il miglior mese di Gennaio dal 1987). Nel grafico a destra l’indice MSCI WORLD (che rappresenta l’andamento medio delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese):

Quel che stupisce di più è che è possibile che il trend al rialzo delle borse addirittura prosegua anche nei prossimi mesi, nonostante il pessimismo che si è respirato a Davos, diffuso tra i grandi leader del mondo radunati per il World Economic Forum, nonostante i forti venti della mini-recessione europea d’autunno abbiano fatto temere i più per il peggio (i soliti Tedeschi avevano già aperto l’ombrello prima della pioggia con l’indice IFO ai minimi storici) e nonostante che quei timori abbiano immediatamente amplificato altri timori: quelli riguardanti la conseguente possibile fragilità dei debiti pubblici di molti Paesi sovraindebitati, come il nostro.

I CONSUMI RISTAGNANO

Ammettiamolo. Sicuramente alla fine del 2018 (e altrettanto sicuramente all’inizio del 2019) l’economia mondiale ha subìto una forte frenata, complici molte concause sbandierate dal “mainstream” (cioè i giornali, le televisioni e gli opinionisti prevalenti): dai populismi alla Hard Brexit, dal Blocco della spesa degli uffici del Governo Americano alla protesta dei Gilet Gialli, eccetera eccetera… Ma probabilmente la causa principale della frenata dello sviluppo economico globale poco ha a vedere con tutto ciò: dopo l’avvento di un ciclo economico positivo (che è risultato estremamente longevo nei Paesi Anglosassoni, sin troppo roboante in quelli Asiatici e molto più recente ma al tempo stesso estremamente fragile in quelli Latini), i consumi di beni e servizi in tutto il mondo hanno mostrato un’intrinseca tendenza alla flessione, com’è d’altronde normale dopo un lungo periodo di bonanza.

GLI INVESTITORI SONO DUBBIOSI

Al tempo stesso anche gli investimenti hanno segnato il passo: “Si investe per produrre, si produce per vendere. Se non sono in grado di sapere che ci sarà qualcuno pronto a comprare, io smetto di investire” ha detto al World Economic Forum Angel Gurrìa, Segretario Generale dell’OCSE. Ma questo non significa necessariamente che il mondo sia inevitabilmente avviato verso la recessione, almeno non sùbito.

Le abitudini della gente stanno cambiando radicalmente e così anche i panieri di spesa, quelli su cui si basano le attese statistiche di inflazione. Crescono ugualmente infatti quella sanitaria, quella per gli adeguamenti tecnologici, quelle per la formazione e l’istruzione. Cresce persino la spesa per alimenti più sani e di migliore qualità. Decresce la spesa per accessori e gadgets, per l’arredo e l’abbigliamento, e scendono gli acquisti per autoveicoli, elettrodomestici e altri beni di uso durevole. Cioè gli oggetti che erano più “glamour” in passato ma che interessano meno ai “millennials” (le nuove generazioni divenute adulte). Di conseguenza anche gli investitori si orientano diversamente nel selezionare i settori industriali più interessanti.

LE STATISTICHE INGANNANO

Ma il punto è che molti servizi oggi non sono più oggetto di spesa monetaria a causa dell’avvento della “digital sharing economy” ma essi creano ugualmente benessere per chi li ottiene e ricchezza per chi li produce. Arrivano inoltre sul mercato i primi prodotti e servizi basati sull‘intelligenza artificiale (si pensi ad “Amazon Alexa”, o ai sistemi esperti di assistenza alla guida dei veicoli, al fintech e all’insurtech, eccetera…) e c’è chi è pronto a scommettere che l’invasione di questi ultimi determinerà una vera e propria rivoluzione, tanto economica quanto sociologica, immettendo presto nuova benzina nel motore della crescita economica globale.

C’E TROPPO PESSIMISMO

Proprio a Davos, dove è noto che le previsioni ivi formulate al termine di ciascun Forum dell’ultimo decennio sono quasi sempre risultate sbagliate, al Segretario dell’OCSE ha fatto eco il Presidente Cinese Xi: “c’è troppo pessimismo”! Dello stesso avviso il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “il prodotto interno lordo italiano crescerà come previsto” ovviamente se gli investimenti avranno luogo, ha aggiunto.

E probabilmente la chiave è tutta qui: nel trovare il modo di mantenere alta la fiducia e nel continuare in ciò che quest’anno sarà probabilmente più facile fare che non l’anno prossimo (quando magari un possibile d’inflazione potrebbe anche arrivare a manifestarsi, rialzando i tassi di interesse): incentivare gli investimenti tecnologici e supportare quelli infrastrutturali. La Cina sta tenendo fede a quanto pianificato in precedenza, ovvero sta mantenendo in corsa gli investimenti pubblici e sta cercando di stimolare quelli privati, immettendo altra liquidità nel sistema, esattamente quello che l’Europa sembra oggi non voler fare.

L’IMPORTANZA DELLE ELEZIONI EUROPEE

Ed è forse anche per questo motivo che le elezioni europee che si terranno a primavera potrebbero risultare determinanti affinché il vecchio continente non cada in una crisi di sfiducia (con tutto quello che ne consegue a livello economico): per riuscire a mantenere la rotta sul fronte della crescita economica, la quale tra l’altro resta l’unico vero antidoto al rischio di default del debito pubblico italiano bisogna cambiare le teste che lo guidano. È infatti oramai chiaro a tutti che quella dell’austerità, promossa sin dai tempi della grande crisi dalla vecchia classe dirigente europea, è la ricetta sbagliata (nel migliore dei casi) o addirittura uno strumento di sottomissione (nel peggiore).

I MERCATI FINANZIARI NON SI AGITANO

Nel frattempo i mercati finanziari non scontano oggi alcuna recessione nè l’ombra di alcuna fiammata inflazionistica, anzi restano piuttosto tranquilli, esattamente come era successo durante il fuoco di paglia delle tensioni internazionali nate a valle degli screzi “balistici” tra Giappone e Corea del Nord, esattamente come quando il Medio Oriente sembrava una polveriera pronta ad esplodere ed esattamente come è successo subito dopo il voto sulla Brexit. Chi la sa lunga cerca sicuramente di mettere ancora un po’ di fieno in cascina per tempi peggiori che potrebbero sempre arrivare, ma sa anche che magari non arriveranno sùbito, non così rovinosamente, e non senza che si prepari nel sottofondo una nuova stagione della crescita dei profitti legata all’avanzata delle nuove tecnologie.

Molto ovviamente dipenderà dal comportamento degli investitori ma ancor più da parte dei governi e delle banche centrali, le quali come dice il nome risultano (e risulteranno anche in futuro, almeno per un po’) sempre più “centrali” nelle decisioni di investimento e nel determinarne il loro costo. Una responsabilità importante ma che esse hanno mostrato sino a questo momento di voler prendere molto sul serio!

Dunque se una recessione globale prima o poi arriverà, questa volta forse non dipenderà dal sistema bancario e finanziario. E se ciò risultasse una previsione corretta anche la portata del suo impatto sarà minore. Potrebbe essere questo il motivo per cui le borse non sembrano al momento avviate ad alcun inesorabile declino…

 

Stefano di Tommaso




IL 2019 POTREBBE ESSERE L’ANNO DELLE INFRASTRUTTURE

Vediamo insieme i numerosi motivi perché ciò potrebbe e dovrebbe accadere. Esistono molte opportunità che ciò avvenga ma anche mille ostacoli allo sviluppo degli investimenti infrastrutturali, come è possibile leggere qui di seguito.

 

C’È PIÙ BISOGNO DI INFRASTRUTTURE

Il mondo non ha mai percepito così tanto il bisogno di investimenti infrastrutturali tanto quanto lo sente oggi, in funzione del bisogno di godere appieno dei benefici dell’era digitale con sistemi di comunicazione evoluti, interattivi e intelligenti, della necessità di abbreviare gli spostamenti di persone e merci e al tempo stesso in funzione della necessità di rendere lo sviluppo tecnologico compatibile con le esigenze di protezione dell’ambiente (inquinamento, surriscaldamento globale, consumismo, ecc…), dunque innovando nelle modalità per farlo e non semplicemente viaggiando di più o potenziando gli apparati già esistenti.

Ne consegue che oggi lo sviluppo degli investimenti pubblici così come di quelli produttivi incontra un oggettivo limite nella necessità di allocarli in un “ambiente” più evoluto di quello attuale, che ne favorisca -con gli adeguati investimenti infrastrutturali- tanto le prospettive di ulteriore sviluppo tecnologico, quanto il ritorno economico. Parliamo quindi di reti digitali in fibra ottica, di autostrade pan-continentali, di ferrovie superveloci e super-efficienti, di energie da fonti rinnovabili, di sistemi logistici integrati e automatizzati, di tele-sanità, di reti idriche e sistemi ambientali che consentano il riciclo di acque e rifiuti, eccetera.

I DEBITI PUBBLICI HANNO FRENATO GLI INTERVENTI GOVERNATIVI E LASCIATO PIÙ SPAZIO A QUELLI PRIVATI

Mentre apprezziamo tuttavia i vantaggi per il business e per la qualità della vita che possono scaturire da questi investimenti “di sistema”, viviamo al tempo stesso nella consapevolezza che i governi nazionali non potranno fare granché per il loro sviluppo senza l’apporto essenziale di ingenti risorse provenienti dal mercato dei capitali, dato il gigantesco indebitamento collettivo che limita la capacità di spesa autonoma dei singoli governi.


Il timore di non riuscire a sostenere il servizio del debito e quello di andare a sollevare incresciose questioni di salvaguardia del territorio, di legalità e di possibili incrementi delle disuguaglianze sociali che possono derivare dalle ingenti risorse che vengono profuse in investimenti infrastrutturali è quantomai fondato, eppure a ben vedere esiste sempre un modo per conciliare le diverse istanze sociali se si guarda con più attenzione agli sviluppi futuri, al reddito ulteriore che gli investimenti stessi possono generare, e se nell’affrontarli si riesce a rifuggire dalle posizioni strettamente partigiane.

UNO STIMOLO PER L’ULTERIORE SVILUPPO ECONOMICO

L’opportunità da cogliere nell’affrontare l’argomento senza guardarsi troppo indietro è d’altronde assolutamente reciproca: i finanziamenti e i capitali privati rimangono essenziali per far ripartire il circolo virtuoso che trasforma il denaro speso negli investimenti in maggior prodotto interno lordo, ma d’altra parte un contesto normativo, fiscale e burocratico favorevole rimane essenziale affinché chi deve decidere di allocare le proprie risorse possa percepire un minor rischio e la possibilità di non cadere trappola di quegli eccessi di tassazione o di inflazione che porterebbero a zero il rendimento netto atteso.

Fino a ieri una cultura collettiva eccessivamente incline alla scarsa efficienza produttiva, al relativo controllo di qualità e durabilità delle strutture, all’eccesso di tassazione e di welfare sociale, alla tendenza alla spesa pubblica (corrente) indiscriminata, e a considerare “normale” l’instabilità finanziaria e valutaria, hanno decisamente ridotto l’appetito degli risparmiatori per avventurarsi a sottoscrivere quote di investimenti nelle public utilities, nelle grandi opere infrastrutturali, o nei servizi di pubblica utilità.

Il risultato (soprattutto nei paesi più arretrati dal punto di vista istituzionale, come il nostro) è risultato essere una decisa penuria di quegli investimenti oppure un’eccessiva rendita di posizione per quei gruppi privati che, ben posizionati dal punto di vista delle relazioni politiche hanno potuto ottenere dai legislatori trattamenti di “ampio riguardo” (vedi ad esempio: Autostrade per l’Italia) e, inevitabilmente, una scarsa attenzione all‘efficienza in nome della concorrenza e della pubblica utilità.

UNA NUOVA COSCIENZA COLLETTIVA

Chi più chi meno nel mondo quasi tutti i Paesi evoluti hanno accumulato un ritardo negli investimenti in grandi opere infrastrutturali, e dunque un relativo disinteresse del settore privato ad investire in tale campo.

Nel corso delle campagne elettorali degli ultimi anni pertanto molto spesso si sono pronunciati discorsi favorevoli nella direzione di una maggiore attenzione a fattori così importanti per il progresso dell’umanità, ma sino ad oggi è stato piuttosto difficile vedere un avanzamento oggettivo, anche a causa dell’inasprirsi della lotta politica tra fazioni e portatori di specifici interessi di lobbying. L’umanità percepisce però in modo più netto la necessità di ricreare contesti favorevoli per l’evoluzione della civiltà ed è inoltre sempre più benestante: dunque è più bisognosa di nuove infrastrutture che possano permetterle di diffondere l’istruzione, le comunicazioni e la facilità degli spostamenti. Dunque la percezione del valore intrinseco degli investimenti infrastrutturali ne risulta accresciuta, così come di conseguenza l’attenzione della politica verso tali necessità.


I TASSI BASSI E LA VOLATILITÀ DEI MERCATI FINANZIARI HANNO CREATO UNA FANTASTICA OCCASIONE PER PROFITTARNE

Bisogna poi considerare che, all’alba del nuovo anno, i mercati finanziari rifuggono dal rischio delle borse e tendono ad affogare nella liquidità (sempre meno allocata nelle speculazioni finanziarie) e chi deve allocare del risparmio gestito si confronta con il rischio di ridurre al lumicino i rendimenti reali di chi investe in azioni e obbligazioni e l’investimento in fondi infrastrutturali costituisce un’alternativa interessante all‘investimento in immobili con caratteristiche simili e forse migliori quanto al rapporto rischio/rendimento.

Se ci aggiungiamo che i grandi organismi sovranazionali che oggi risultano decisamente meno centrali di qualche anno fa nel loro ruolo di sostegno allo sviluppo economico globale potrebbero riorientarsi proficuamente nel cooperare tra loro e con i governi nazionali al fine di determinare uno sforzo collettivo idoneo a catalizzare risorse e attenzione dei media verso il vastissimo mondo delle iniziative infrastrutturali collettive. Potrebbe risultare una mossa “win-win” utile a tutti e foriera di ulteriori sviluppi, mentre le terribili prospettive di “stagnazione secolare” paventate (non troppo a torto) da taluni economisti che misuravano il decrescente rendimento marginale dei capitali in un contesto saturo e privo di lungimiranza, si vedrebbero finalmente sventate alla loro radice.

IL BOOM DEI FONDI INFRASTRUTTURALI

Secondo la società di analisi statistiche Preqin l’anno 2018 ha visto gli investitori allocare nel mondo (principalmente anglosassone) ben 85 miliardi di dollari nei fondi di investimento infrastrutturali, il 13% in più che nel 2017 (75 miliardi), con la prospettiva che nel 2019 quella cifra salirà ancora significativamente, spostando a questo settore anche parte delle risorse a disposizione dei fondi di private equity e private debt. Non a caso peraltro: i tassi di interesse restano bassi è invece le occasioni di buoni affari sul fronte delle iniziative da finanziare si moltiplicano, mentre le alternative agli investimenti infrastrutturali in questo momento appaiono sempre meno interessanti.

La speranza è perciò che una tendenza dei mercati finanziari che ha origini strettamente opportunistiche possa invece tramutarsi anche in un beneficio per il mondo civile e, segnatamente, anche per i Paesi in via di sviluppo, dove per le infrastrutture si ravvisano le sfide più ardue ma anche i ritorni più elevati sul capitale investito.

Stefano di Tommaso