LA BOLLA SPECULATIVA DEI LEVERAGED LOANS

C’erano una volta le banche ordinarie. Quelle che traevano dall’erogazione del credito la loro principale fonte di sostentamento, raccogliendo depositi ad un tasso più basso di quello dei prestiti che concedevano. Negli anni questa figura è sostanzialmente cambiata per mille e una ragione e oggi le banche -anche quando ancora erogano prestiti in misura prevalente- in realtà guadagnano soprattutto da commissioni, intermediazioni e consulenza, vivendo il reddito che proviene dalla gestione del denaro in forma residuale e, soprattutto, erogando prestiti quasi soltanto a chi non ne ha bisogno (ovviamente a tassi poco interessanti).

 

IL PRIVATE DEBT

Il cosiddetto “private debt” non passa ovviamente soltanto dalle BDC ma anche da “fondi di debito” (che funzionano comunque come gli altri fondi di private equity e spesso sono amministrati dagli stessi soggetti), dai cosiddetti “private placements” (animati soprattutto da investitori istituzionali e quasi sempre rivolti a soggetti aziendali in grado di esibire un rating) e in generale da tutti coloro che possono permettersi di emettere “bond” (ovvero obbligazioni) e riuscire a piazzarli presso investitori di ogni sorta. Il mercato di riferimento del “private debt” è ovviamente quello delle fusioni e acquisizioni, spesso associate all’intervento di banche d’affari o, più frequentemente, di fondi di “private equity”. Quest’ultimo settore è stato stimato che in Ottobre sedesse su una liquidità superiore a 1.100 miliardi di dollari e che, ciò nonostante, il numero di operazioni completate nel mondo fosse pari a circa 1200, con un valore delle operazioni di buy-out completate alla fine di Ottobre superiore al 91% di tutte quelle del 2017 (cioè in forte crescita).

L’ECCESSO DI LEVA FINANZIARIA

Questa intensità (e forte disponibilità di capitali per nuove operazioni) si associa a valutazioni crescenti delle imprese oggetto di tali operazioni e a crescente richiesta di finanziamenti per l’acquisto in leva, con un fattore di leva in costante crescita (siamo arrivati ad una media di quasi 7 volte l’EBITDA: vale a dire poco meno del doppio di quanto si presume sia il limite fisiologico di tali operazioni e poco distanti dagli eccessi del 2007, poco prima della grande crisi).

LE “BUSINESS DEVELOPMENT COMPANIES”

Nei paesi anglosassoni però -caratterizzati da minore regolamentazione e minori vincoli burocratici- ad erogare credito ai soggetti economici meno solidi sono intervenuti altri attori: in particolare le cosiddette “Business Development Companies” (in sintesi: BDC), che hanno rispolverato la vecchia tradizione del credito basato sulla disamina della capacità individuale attingendo risorse non già ai depositi dei risparmiatori, bensì ad un mercato molto più vasto: quello dei capitali. I depositi bancari sono infatti una specie che non è ancora in via di estinzione (ma quantomeno di assottigliamento dei relativi volumi) anche a causa delle politiche di tassi quasi a zero praticate dalle banche centrali.

Mentre invece il mercato dei capitali è sempre più liquido e continuamente alla ricerca di nuove vie di impiego capaci di assicurare margini consistenti all’impiego delle proprie risorse liquide, anche scendendo a compromessi sulla relativa rischiosità. Il fenomeno delle BDC in America ha raggiunto il mirabolante volume di quasi 100 miliardi di dollari di prestiti erogati !

Le BDC sono sorte tuttavia principalmente in America, con la logica di andare a occupare uno spazio di mercato -quello dei “debiti a più alto rischio”- che è stato lasciato sostanzialmente libero dalle banche per tutti I motivi di cui sopra. I cosiddetti “leveraged loans” sono comparsi per tornare a far accedere al credito i soggetti piu marginali del mercato: magari quelli che hanno le migliori idee o le più acute competenze, ma sicuramente caratterizzati da scarsissima qualità del merito di credito e/o di patrimonio adeguato, oppure che intendono proporre operazioni estremamente rischiose per le quali i normali criteri di contabilizzazione del credito lascerebbero poco spazio alle banche ordinarie senza destare sospetti sulla loro affidabilità di lungo termine.

LA “PATATA BOLLENTE” DEI RISCHI SUL CREDITO PASSA DALLE BANCHE AI RISPARMIATORI

I leveraged loans hanno potuto godere inoltre dello sviluppo del mercato delle cartolarizzazioni, visto che le banche riescono con facilità a “impacchettare” queste obbligazioni e venderle a investitori del mercato dei capitali. In particolare c’è stata una notevole crescita delle collateralised loan obbligations (CLO). Le cartolarizzazioni c’erano anche prima della grande crisi, ovviamente. Ma a differenza di allora, quando i titoli che ne rivenivano circolavano all’interno del sistema bancario, adesso le nuove regole sono più restrittive e obbligano le banche a disfarsene per la maggior parte.

E qui viene il bello: la “fame di rendimenti positivi” che si è creata sul mercato dei capitali ha fatto crescere la domanda di prestiti “speculativi”, mentre l’ampliarsi del numero di acquisizioni e fusioni in tutto il mondo ne ha fatto lievitare anche l’offerta. Negli Stati Uniti, quasi il 40% delle emissioni di prestiti leveraged è ascrivibile a acquisizioni ristrutturazioni societarie come fusioni, acquisizioni e operazioni di leveraged buyout”, spiega la Bis. La cartolarizzazione dei crediti e la nuova regolamentazione imposta dalle banche centrali ha insomma fatto sì che la patata bollente dell’espansione del debito ad alto rischio sia stata passata dai bilanci delle banche ai fondi pensione, ai gestori di patrimoni e agli altri emittenti di titoli che finiscono in un modo o nell’altro nelle tasche dei risparmiatori.

CLAUSOLE TROPPO BLANDE

Purtroppo il fenomeno dell’espansione dei “leveraged loans” da un lato poggia su una domanda da parte dei sottoscrittori che, fino a poche settimane fa, non faceva che crescere, dall’altro lato si associa fortemente ad un rilassamento dei criteri di erogazione del credito che viene concesso: i sottoscrittori, pur di spuntare qualche decimale di rendimento in più, sono stati disposti ad accettare un minore protezione contro il deterioramento della capacità di rimborso dei debitori, allentando decisamente le clausole dei contratti. E questo spiega il notevole aumento dei prestiti cosiddetti “covenant-lite” che ha raggiunto il suo massimo a metà 2018.


Inoltre la forte domanda degli investitori per i prestiti leveraged ha favorito l’attività di rifinanziamento di quelli esistenti. Negli Stati Uniti, per esempio, il rifinanziamento di debiti pregressi rappresenta circa il 70% delle emissioni di titoli che vanno a finanziare i “leveraged loans”. Questa quota è cresciuta costantemente fino alla prima metà del 2018.

IL RISCHIO DI SCOPPIO DELLA BOLLA SPECULATIVA

Il problema ovviamente per ora potrebbe essere destinato a rimanere sulla carta, dal momento che l’economia globale è ancora in espansione e il tasso di “default” dei prestiti ad alto rischio (i leveraged loans, appunto) in America è in crescita ma è pur sempre al 2,5%. Tutt’altra faccenda sarà quando l’economia inizierà seriamente a rallentare e il tasso di insolvenza crescerà (ovviamente in modo accelerato sui prestiti a più alto rischio). Ma la verità è peggiore: la maggior parte degli strumenti che alimentano di liquidità il sistema dei prestiti ad alto rischio è -almeno negli U.S.A.- data dagli ETF (Exchange Traded Funds), che stanno soffrendo nelle ultime settimane di una forte richiesta di rimborsi da parte dei sottoscrittori, trovandosi dunque costretti a vendere (anche in perdita) i titoli che avevano sottoscritto quando la marea andava in direzione opposta.


Stefano di Tommaso




BORSE:VEDREMO IL RALLY DI FINE ANNO?

Dopo molte settimane di debolezza dei mercati finanziari (e in particolare delle borse) si moltiplicano le attese di un rimbalzo, non fosse altro che per motivi statistici o per le ricoperture degli speculatori al ribasso. O ancora, se si vuole ascoltare le gole profonde del mercato, a causa della necessità dei gestori di patrimoni, giunti a fine anno, di ammantare le scarse performances del 2018 con una vernice non troppo negativa. Ma quante chances ci sono che il rally parta davvero? E quanto durerà?

 

WALL STREET

La statistica può darci una mano guardando da un lato al grafico di copertina, che segnala un rimbalzo significativo dell’indice globale delle borse mondiali (in Dollari) riportandolo nell’ultima settimana esattamente sulla media dell’ultimo anno, e dall’altro lato al grafico qui sotto riportato, che mette a raffronto l’andamento stagionale (per settimana) storico medio di Wall Street (da sempre la piazza finanziaria che dà l’impostazione a tutte le altre) dalla prima alla 52.sima settimana dell’anno, comparato con l’andamento effettivo dell’indice Dow Jones nel 2018 fino all’inizio di Novembre:

 

Come si può osservare, per Wall Street l’impostazione dell’intero anno 2018 (linea blu) appare un po’ sotto tono ma sostanzialmente in linea con la media stagionale di lungo periodo (linea rossa) ma dobbiamo tenere conto del fatto che negli ultimi anni è la piazza finanziaria che è cresciuta di più e dove c’era da attendere le maggiori prese di beneficio.

L’andamento del Dow Jones nel 2018 tuttavia rispecchia la stagionalità media soltanto fino alla 41.ma settimana (seconda di Ottobre), quando invece esso fa uno scivolone significativo (si veda il mio articolo del 19 Ottobre u.s.) e inverte la tendenza al rialzo che normalmente lo caratterizza intorno alla fine dell’anno.

PIAZZA AFFARI

Come si può riscontrare dal grafico qui riportato, più o meno la stessa cosa avviene nel medesimo periodo alla Borsa Italiana (sebbene l’impostazione annuale fosse ancora peggiore) salvo un recente rimbalzo ancora più deciso di quello americano, probabilmente a causa di una maggiore incidenza delle ricoperture degli speculatori al ribasso, che è notorio siano nelle ultime ottave più pesantemente presenti sul nostro listino:

 

UN MINI-RALLY DI FINE ANNO LO ATTENDONO IN MOLTI

Cosa succede dunque: proseguirà l’andamento negativo anche nel corso del prossimo mese (fino alla vigilia di Natale) o si invertirà? La risposta esatta sarebbe: “dipende”, ma è anche la più scontata. Anticipiamola subito allora: probabilmente no, il rimbalzo ha tutte le premesse per poter proseguire. Gli analisti danno una probabilità del 75% che il mese a venire chiuda positivamente per Wall Street (e ricordiamoci che c’è una correlazione statistica del 76% tra l’andamento di quest’ultima e quello della media delle altre borse internazionali). Dunque anche per quelle periferiche come Milano esiste la speranza statistica di una prosecuzione in territorio “non negativo”.

I LIMITI ALL’OTTIMISMO

Esiste tuttavia un doppio limite all’ottimismo: innanzitutto l’accresciuta volatilità :

Come si può notare dal grafico relativo all’indice VIX (di volatilità), è soprattutto dalla seconda settimana di ottobre che essa si è impennata a Wall Street (indice SP500) per poi riposizionarsi esattamente sulla media dell’anno lo scorso Venerdì.

Ma anche e soprattutto un altro limite è dettato dall’andamento dell’economia mondiale, sul quale non esistono grafici aggiornati sebbene la maggioranza degli analisti finanziari concordi sul fatto che è in corso un rallentamento della sua crescita e, soprattutto, che difficilmente si vedranno nel corso del 2019 prospettive significativamente migliori di quelle del 2018.

Dunque anche senza cadere nel pessimismo, è relativamente improbabile che la rincorsa delle borse alla performance positiva nel 2018 (o tuttalpiù meno negativa, come a Milano) possa proseguire anche oltre la fine dell’anno.

LO SPREAD

Per il nostro Paese c’è da registrare un ridimensionamento della speculazione al ribasso sui nostri titoli di Stato, registrata anche dall’andamento dello Spread con quelli tedeschi, asceso a livelli preoccupanti sempre intorno all’inizio di Ottobre (dunque con una componente “importata” di non poco conto) ma poi stabilizzatosi intorno al 3% e, nella prima parte di Novembre, addirittura ridisceso al 2,9%.

Purtroppo su questo fronte è troppo presto per cantare vittoria, ma una cosa di sicuro esso significa: la speculazione al ribasso contro il nostro Paese si è (almeno per il momento) decisamente placata, e questo sottrae uno dei pilastri più significativi alle attese di ulteriore ribasso della borsa: al momento la fuga dei capitali all’estero sembra essersi arrestata.

L’ECONOMIA GLOBALE

A livello globale tuttavia i segnali sono contrastanti: da una parte c’è l’andamento formidabile dell’economia americana che fa ben sperare possa agire da traino, almeno su quelle europee. Nel grafico qui riportato si vede un importante recupero dei salari, con una crescita dei quali (intorno al 3% su base annua) che non si vedeva da prima della grande crisi del 2008 :


Un analogo segnale positivo lo forniscono i profitti aziendali americani, cresciuti costantemente a partire dal 2016 su base annuale ben di più delle retribuzioni (in media quasi del 12% nel terzo trimestre 2018, contro una media storica dell’ultimo ventennio poco sopra l’8%), in particolare per il comparto dell’energia (63% su base annua) delle telecomunicazioni (56% su base annua) e per quello finanziario (33% su base annua):

Sul fronte negativo c’è il progressivo venir meno, dopo quasi dieci anni di costante somministrazione, della “droga” che ha esaltato le performance delle borse di tutto il mondo: l’incremento della liquidità indotto dalle banche centrali. Nel corso del 2019 infatti l’immissione netta di liquidità diverrà negativa (contro i 720 miliardi di dollari del 2018 e i 1800 del 2017) e, con questo passaggio, molti analisti si attendono di vedere le borse riprendere l’impostazione negativa che ha soltanto fatto capolino nell’ultimo scorcio del 2018.

I TASSI DI INTERESSE

Per non parlare dei rialzi dei tassi: se è vero che l’ampia anticipazione delle proprie mosse fornita dalla Federal Reserve Bank of America ha fatto sì che tutti i mercati stiano dando per scontati altri tre o quattro rialzi dei tassi di interesse, resta altrettanto vero che gli effetti degli stessi sulla risalita del Dollaro americano non potranno che incrementarsi, rischiando di mettere in ginocchio i bilanci di molti Paesi Emergenti (indebitati in Dollari) e continuando ad attirare capitali in U.S.A. facendoli fuggire dalle periferie del mondo dove essi trovavano migliori opportunità di profitto e assolvevano al compito fondamentale di finanziarne lo sviluppo.

È perciò in corso un progressivo “spiazzamento” dell’investimento azionario da parte dei titoli a reddito fisso, il rendimento dei quali non soltanto cresce, ma lascia anche molto più tranquilli gli investitori professionali e istituzionali che trovano quantomai interessante riporre oggi sotto il tetto sicuro delle cedole periodiche le plusvalenze ottenute sino a ieri nelle borse valori.

A QUANDO LA PROSSIMA RECESSIONE?

È infine attesa da tutti -al termine del 2019- la “fine del super-ciclo economico positivo” che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni di ripresa da una delle maggiori crisi finanziarie dell’ultimo secolo. L’elezione di Donal Trump ha contribuito parecchio a rinviarne il termine (atteso già alla fine del 2016) ma, mano mano che gli anni passano, l’arrivo di una periodica recessione (seppur magari non necessariamente drammatica), si fa sempre più probabile e le borse lo sanno. In quest’ottica il rimbalzo prevedibile per fine anno non può essere visto come la ripresa indefinita della crescita esponenziale delle borse per l’intero 2019, ma soltanto come un momento di assestamento.

Stefano di Tommaso




LA RIVINCITA DEL SOGNO AMERICANO

Se c’è un’auto che negli ultimi due-tre anni ha incorporato il “sogno erotico automobilistico” di moltissimi cittadini del mondo dotati di tasche sufficientemente profonde da permettersi una “seconda auto di lusso” (visto che non può essere la prima a causa della limitata autonomia di percorso) questa è stata proprio la Tesla.

 

Se ci aggiungiamo poi le promesse (solo parzialmente mantenute) di essere la prima a guidare da sola e di costituire un salto quantico nel bel mezzo di una tecnologia oramai stantía delle altre automobili, oltre che un design accattivante e la certezza di non passare mai inosservati, ecco che si può tentare di comprendere i motivi per i quali per comperarne una (a prezzi non esattamente d’occasione) bisogna ancora oggi mettersi in coda per quasi un anno e i motivi per cui decine di migliaia di esponenti della classe media hanno deciso di “finanziare” una società quasi in bancarotta sottoscrivendo l’opzione da 3mila dollari ad acquistare il “modello3” con un paio d’anni di anticipo.

Un nome accattivante, un design minimalista, la certezza di non fare rumore nè fumo nonostante un’accelerazione da brivido, un abitacolo avveniristico e l’illusione di rientrare nella cerchia degli eletti sono state le leve di marketing sapientemente agitate dal poliedrico e problematico imprenditore che ci ha costruito sopra la sua fortuna (e forse anche la sua rovina) per far sentire i suoi attuali e futuri clienti praticamente a bordo di un‘astronave della confederazione galattica.

A giudicare da quanto osservato sino qui Elon Musk è stato soprattutto un abile stratega di vendita, non soltanto nei confronti degli acquirenti delle 4 ruote di sua produzione ma anche e soprattutto nei confronti dei mercati finanziari, che fino a ieri gli hanno perdonato tutto digerendo quasi senza protestare le ripetute richieste di sottoscrivere ingenti finanziamenti e capitali per le sue scintillanti avventure (fino a una decina di miliardi di dollari nel complesso), e riuscendo poi anche a evitare la bancarotta pur avendone già bruciati oltre 6 miliardi.

L’ultimo colpo di scena di Tesla poi ha sorpreso tutti: invece di proseguire sulla strada verso il fallimento annunciato dai più l’azienda è stata in grado di esibire un buon utile di periodo è una ancor più ingente generazione di cassa nel 3.o trimestre 2018, sferrando un colpo mortale alla speculazione dei “ribassisti” (quelli che vendono le azioni allo scoperto per guadagnare dalle aspettative non ancora realizzatesi), da sempre i più grandi nemici dichiarati dell’imprenditore più “americano” (pur provenendo dal Sud Africa) che la borsa ricordi.  Nell’ultimo periodo fiscale Tesla è riuscita infatti a incrementare significativamente le consegne di autovetture prenotate in precedenza alimentando altresì l’aspettativa di poter continuare sulla medesima linea anche nei prossimi mesi e di non dover più chiedere al mercato altri aumenti di capitale. Il titolo è cresciuto del 22% in due sedute e sembra continuare a riprendere vigore.


Ma per il nuovo corso politico americano -in guerra contemporaneamente con quasi tutto il resto del mondo e che vuole dimostrare al popolo di riuscire a risvegliare la supremazia tecnologica e industriale della nazione- la posta in gioco riguardo al successo di Tesla è molto più alta della “rivincita” di un imprenditore contro gli speculatori finanziari: è lo stesso concetto di “sogno americano” che “deve” riuscire a raggiungere il suo lieto fine perché molti altri ne possano seguire l’esempio. Non mi stupirei perciò di qualche “mano invisibile” che arrivi in extremis a supportare una delle più affascinanti storie industriali dell’ultimo secolo, proprio adesso che sull’auto elettrica e sull‘intelligenza artificiale è sfida aperta con i Cinesi, i Giapponesi, gli Israeliani, i Tedeschi e persino gli Indiani !

 

Stefano di Tommaso




RICONOSCERE UN SELL-OFF

Dove vanno i mercati finanziari? Continuerà il caos che stiamo sperimentando nelle ultime settimane oppure si fermerà? Tutti gli operatori se lo chiedono e tutti gli investitori si chiedono cosa fare per limitarne i rischi, ma la risposta giusta è quella che a nessuno piace ascoltare: nel breve termine giù a picco! I motivi sono numerosi e le probabilità contrarie sono poche. Nel medio termine invece tutto può succedere.

 

Mi sono chiesto molte volte se la situazione di deterioramento dei valori finanziari italiani non potesse deviare uno sguardo oggettivo sui mercati e colorare di nero ogni mia possibile valutazione e, per questo motivo, preferirei partire dall’analisi della situazione nazionale, tanto per non avere dubbi.

UNA TEMPESTA PERFETTA ?

L’Italia ha molto probabilmente davanti a sè la “tempesta perfetta“ dei mercati finanziari, dal momento che lo scontro del nostro governo è frontale con la Commissione Europea (e, tra pochissimo, anche con l’intera “troika” che ha asfaltato la Grecia: cioè anche la Banca Centrale Europea -BCE- e il Fondo Monetario Internazionale -FMI-) e stanno per arrivare quasi certamente i downgrade delle agenzie di rating, che daranno la mazzata finale sulla testa del debito pubblico italiano. La congiuntura si fa perciò assai nera tanto per il sistema bancario italiano quanto, di conseguenza, per la Borsa di Milano.

Inutile dire che di fronte a un tale spiegamento di forze qualsiasi altro governo avrebbe vacillato e il Paese avrebbe probabilmente preso in seria considerazione un cambio di rotta della volontà di generare incremento del prodotto interno lordo attraverso una manovra che inizialmente prevede un deficit di bilancio “non ammissibile” per l’Unione Europea. Perché non ammissibile? Chiaramente e inequivocabilmente per motivi politici: questa coalizione politica al governo promette battaglia anche alle prossime elezioni europee e l’attuale classe dirigente europea sta facendo l’impossibile per combatterla !

IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA

Ma questo governo no, per i medesimi motivi politici (è nato sull’onda della prolungata crisi economica e del disprezzo dell’italiano medio nei confronti della politica deviata fatta a livello comunitario sulla sua pelle) non solo non vuole ma non è neppure in grado di fare qualcosa di diverso dal proseguire “in direzione ostinata e contraria”, arrivando a portare alle estreme conseguenze lo scontro in atto, con tutto quello che può significare a livello finanziario una tale scelta. Per non girarci intorno quello che può significare è l’intervento d’urgenza del FMI a imporre un prestito forzoso in nome del solito fantomatico piano di salvataggio per il debito pubblico italiano che, come si è visto in Grecia, consentirà esclusivamente agli stranieri di vederselo rimborsato.

Ovviamente la cosa non avrà un‘ impatto limitato sui mercati perché tra l’altro, se la coalizione al governo del Paese riuscirà ad essere coerente con i suoi intenti, a quel punto dovrebbe chiedere l’immediata congelamento del debito pubblico e l’uscita dall’Unione Monetaria (cosa che potrebbe arrivare a fare e che potrebbe anche avere un profondo senso storico, ma che comporta un fegato d’acciaio da parte di chi promuoverà un tal passo). Possiamo però immaginare cosa può significare una manovra così forte nel breve periodo! L’intero sistema dei valori finanziari italiani (immobili compresi) subirebbe uno shock planetario e nel frattempo assisteremmo al medesimo copione greco a meno che non venisse deciso in un baleno il ritorno alla Lira. Ciò peraltro comporterebbe un incremento stellare dei prezzi di qualsiasi bene ci si voglia acquistare perché al cambio risulterebbe fortemente svalutata rispetto all’Euro e a tutte le altre valute.


L’ASIMMETRIA DEGLI OPPOSTI

Alla base del braccio di ferro che sta giungendo alle estreme conseguenze c’è una forte asimmetria tra due ragionamenti, entrambi assai fondati, tra la coalizione governativa italiana e la maggioranza politica che ispira le scelte della Commissione Europea (il governo dell’Unione): i politici a capo della prima hanno sempre pensato che all’Europa non conviene affatto un braccio di ferro risoluto e continuato con l’Italia perché può determinare l’affossamento definitivo della moneta unica e comunque danneggerebbe gravemente gli interessi degli altri stati membri, quelli a capo della seconda sanno invece che per i politici italiani è cosa assai complessa tenere testa a un simile scontro frontale e che tutti i loro predecessori (Berlusconi compreso) molto presto hanno capitolato. Dunque i secondi puntano sullo sfiancamento dell’attuale maggioranza nazionale anche grazie a tutti gli innumerevoli addentellati del potere finanziario internazionale, a partire dai “media” che getterebbero veleno a volontà e che farebbero di tutto per disorientare gli elettori che hanno votato la maggioranza gialloverde, fino alla “troika” passando anche dalle agenzie di rating e magari dalle accuse di qualche tribunale internazionale. In una parola l’ “assedio” ci sarebbe di sicuro!

Dicevamo che nel medio termine entrambi i contendenti potrebbero avere ragione e che però nel frattempo nessuno aveva previsto che sarebbero entrambi stati pronti a portare lo scontro fino alle estreme conseguenze. Conseguenze che non potranno non generare disordine e sconforto innanzitutto sulle quotazioni dell’Euro, poi sulle borse (non solo quella italiana) e infine anche sui titoli di stato di tutta Europa. Lo scontro di cui scrivevo qui sopra pertanto degli effetti devastanti a catena li produrrà molto presto, a meno che non rientri alla velocità della luce.

LE CONDIZIONI DISASTROSE DEI MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI

Ma c’è un’ulteriore circostanza che forse hanno tutti sottovalutato: le condizioni del mercato finanziario internazionale, già oggi fortemente deteriorate ben al di là delle attese di prossima recessione economica che tendono ad attestarsi intorno al 2020. Innanzitutto a causa delle pessime condizioni dei mercati asiatici, che pesano sempre più sulla bilancia internazionale. E poi perché se alla crisi asiatica e a quella dei mercati emergenti anche di tutto il resto del mondo (principalmente vittime del caro-Dollaro) si sommerà quella dei mercati europei, la frittata sarà servita, provocando serissime reazioni su Wall Street e su Londra, i cui listini sono oggi forse troppo dipendenti dalle supervalutazioni dei titoli “tecnologici”. La probabilità di deflagrazione di una nuova crisi finanziaria globale inizia dunque a crescere e può risultare fatale nel determinare la prosecuzione vino alle estreme conseguenze dello scontro tra l’Italia e il resto dell’Unione Europea.

Indipendentemente però da quello che potrebbe succedere in futuro lo scenario di breve termine è già di per sè decisamente preoccupante: la svalutazione dell’Euro è già in atto, il rialzo dei tassi di interesse rischia di proseguire a causa della reazione a catena che la crisi italiana può provocare in tutto il mondo, mentre le borse, che già stavano scendendo in tutto il mondo, rischiano soltanto di accelerare nella medesima direzione. La questione italiana insomma può risultare come la classica ultima goccia che fa traboccare l’intero vaso.

I POSSIBILI “MANDANTI”

Quali possibilità ci sono che ciò non accada? Non molte in realtà, complice la Federal Reserve Bank of America che non sta facendo nulla per correggere il suo attuale orientamento ad ulteriore rialzo dei tassi (il differenziale con quelli tedeschi è giunto a superare il 3%) schiacciando di conseguenza tanto i cambi contro il Dollaro quanto le prospettive di esportazioni americane nel resto del mondo. Qualcuno ci vede anche lì lo zampino della politica: l’attuale presidente americano “deve” subire una pesante sconfitta elettorale a Novembre e l’economia americana va troppo bene perché le probabilità che ciò accada restino alte. Un bel crollo di Wall Street aiuterebbe pertanto e l’abitazione che ne conseguirebbe magari farebbe gli interessi dei grandissimi gruppi internazionali che controllano il mercato dell’energia (il cui prezzo schizzerebbe alle stelle).

Sul fronte opposto non possiamo non menzionare la decisa opportunità di un accordo rappacificatore tra la Commissione Europea e il Governo Italiano, che indubbiamente risolleverebbe le sorti della Borsa e aiuterebbe a contenere lo spread, aggiungendo un motivo in più alle Agenzie di Rating per non abbassare quello italiano. Ci guadagnerebbe più l’Europa che l’Italia viste le prossime elezioni e visto il rischio di “contagio” di una disfatta della finanza del Bel Paese. Ma la razionalità della “ragione di stato” a volte si scontra con “lo particolare” interesse di questo o quel politico, che al proprio livello può preferire uno scontro a un confronto per mille e una motivazione personale (absit injuria verbis)…

Stefano di Tommaso