METAMORFOSI

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Avevamo descritto il recente rally delle borse come un rimbalzo destinato a scomparire in fretta. Lo stesso si era detto per la resilienza delle economie occidentali: destinata a scomparire non appena le tensioni geopolitiche dovessero crescere ancora. Tutti oggi prevedono una recessione nei prossimi mesi che però si fa quantomeno attendere. Nel frattempo tuttavia l’economia globale rallenta, il commercio internazionale crolla e l’inflazione sembra recedere ma è assai improbabile che torni in fretta al livello sperato (2%) dalle banche centrali.
Le mosse di queste ultime sono le più temute al momento, ma la verità sembra essere che al contrario oggi le banche centrali hanno ben poche munizioni da sparare all’arrivo di una possibile nuova crisi. Dunque il mondo si avvia verso il baratro? Probabilmente no, ma è altresì assai difficile interpretare l’attuale congiuntura, se non analizzando i profondi cambiamenti che la generano.

 

(da Wikipedia) “Metamorfosi” è un sostantivo femminile che significa:

  1. Trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, come elemento tipico di racconti mitologici o di fantasia, spesso consacrati in opere letterarie, spec. del mondo classico
  2. In zoologia, la modificazione funzionale o strutturale di un animale durante lo sviluppo, nel passaggio dalla fase larvale a quella adulta (per es. in Insetti e Anfibi).

GRANDI MUTAMENTI IN CORSO

Cosa succede all’economia globale alle soglie del nuovo anno? Provo a cercare previsioni autorevoli ma non ne trovo. Trovo invece molti catastrofisti e molti “navigatori di lungo corso” che tendono ad affermare un po’ di tutto, appellandosi ai benchmark, ai capricci delle banche centrali e a quelli del presidente ucraino, per potere aver una scusa per ogni stagione. Perché?

La verità sembra essere che -in un mondo che oggi cambia più bruscamente e più imprevedibilmente che mai- non esistono certezze circa l’evoluzione possibile non soltanto dello sviluppo economico, ma anche dei mercati finanziari, dei livelli dei prezzi e dei fattori che scarseggeranno, tanto da lasciare spazio a grandi timori. In realtà tuttavia è possibile cercare di analizzare le grandi trasformazioni in corso, perché è molto probabile che da esse dipenderà la maggior parte degli sviluppi che prenderanno forma nel corso dei prossimi anni, a partire dal 2023.

Inutile dunque tentare di emettere semplici e sensazionali previsioni per i mesi a venire, proprio in virtù della complessità dei cambiamenti in corso. Se anche ci provassimo, i rischi di sbagliare sarebbero molto più elevati che in passato. Molto meglio provare ad esaminare i singoli fattori della metamorfosi economica in corso, per dedurne degli andamenti e, in ultima analisi, per farci una nostra idea di ciò che succederà nel prossimo futuro.

LA RECESSIONE CHE VERRÀ

Sicuramente le variabili in gioco sono innumerevoli, e questo giustifica il comportamento “attendista” dei più moderati. Giustifica anche i numerosissimi “market pundits” (“soloni” dei mercati) come Jamie Dimon o Nouriel Roubini, i quali sono quasi tutti concordi nel pronosticare grandi disastri per i mercati finanziari nell’anno a venire.

LA COMPAGNIA HOLDINGSecondo il primo tanto l’inflazione quanto possibili nuove tensioni geopolitiche scateneranno tensioni sul fronte dell’approvvigionamento energetico e una recessione. Conseguentemente le borse torneranno a scendere del 30% circa. Per quanto autorevole Dimon si aggiunge peraltro ad una lunga lista di persone che la pensano allo stesso modo, tant’è vero che qualcuno ha definito la recessione in arrivo come la più “preannunciata” della storia recente.

Ma se andiamo indietro nel tempo quasi tutte le altre recessioni sono alla fine arrivate contro ogni previsione, mentre quelle annunciate alla fine si sono dissolte nel nulla. Proprio per questo viene il dubbio che, quando tutti sembrano concordare per un crollo delle borse, non sia altrettanto scontato che ciò succeda davvero.

LE DIECI “D”

Secondo Roubini invece la questione è più complessa: il mondo che cambia porta con sé dieci fattori-chiave che impediranno quello che potremmo chiamare il “ritorno alla normalità”: Debito, Demografia, Deflazione, Devaluation (svalutazione delle monete ufficiali), Digitalizzazione, De-globalizzazione, Democracy Backlash (arretramento della democrazia nel mondo), Duopolio (tra Stati Uniti e Cina), Digital Warfare (guerra delle tecnologie), Disastri (pandemici, ambientali, finanziari).

In effetti i grandi cambiamenti in atto è probabile che ci consegneranno quasi per certo un futuro denso di novità che potremmo appunto definire come una “metamorfosi economica”. Sarà forse un futuro che potrà alla fine risultare anche migliore, ma che oggi porta con sé grandi timori e grandi interrogativi circa il benessere dell’umanità, oltre che circa l’identità dei possibili vincitori e delle possibili vittime di questi profondi cambiamenti. Da un certo punto di vista sono dunque comprensibili le “allerte” che vengono lanciate, anche se non sono certamente da prendere alla lettera.

Proviamo perciò innanzitutto ad approfondire in ordine più o meno sparso i principali fattori del cambiamento che oggi è possibile toccare con mano:

  • L’Inflazione:

Sino a poco più di un anno fa sembrava che il mondo stesse per avvitarsi in un processo profondamente deflattivo di riduzione dei costi di quasi tutte le materie prime e, di conseguenza, dei prezzi di prodotti e servizi. Poi quasi di colpo sono iniziate a scarseggiare tanto alcune materie prime quanto le cosiddette “risorse energetiche”, sferzando bruscamente l’economia e togliendo il terreno sotto i piedi ai consumatori di tutto il mondo. Per una moltitudine di nazioni si tratta all’incirca di una perdita del potere d’acquisto di circa il 10% medio che si traduce, guarda caso, in una riduzione generalizzata dei consumi che si pensa indurrà una recessione economica. È indubbio che il calo degli acquisti riduce la capacità delle imprese di trasferire “a valle” i maggiori costi sostenuti per produrre e dunque le prospettive di mantenere elevati margini di profitto.

E se le imprese venderanno meno e non faranno profitti allora proveranno a tagliare i costi e ridurranno assunzioni e investimenti, contribuendo ad una frenata generale dell’economia. Ma l’inflazione costringe anche i risparmiatori a vedere decurtato il valore del proprio denaro, o a prendere grandi rischi per evitarlo, dal momento che non è più pensabile mettere semplicemente a reddito i risparmi senza temere di ottenere dei rendimenti reali di fatto nulli o negativi. Da questo punto di vista i mercati azionari possono costituire una miglior difesa dall’inflazione ma sono al tempo stesso più volatili e dunque intrinsecamente più rischiosi.

  • La Crescita dei Debiti:

A livello globale, i debiti del settore privato e pubblico in rapporto al Pil sono saliti dal 200% del 1999 al 350% del 2021. Il rapporto è ora del 420% tra le economie avanzate e del 330% in Cina. E ciò è avvenuto mentre le banche centrali stanno facendo retromarcia sull’enorme creazione di liquidità che ha sostenuto sino ad oggi questi debiti. Roubini argomenta poi che, se quel debito fosse stato impiegato negli investimenti produttivi la faccenda non sarebbe stata così grave. Gran parte di quel debito però è stata impiegata nella previdenza e assistenza sociale, cioè nel welfare, che notoriamente non è produttore di altro reddito, oltre che su poche infrastrutture spesso quasi inutili.

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L’azzeramento dei tassi d’interesse aveva lasciato sperare che quel debito crescente non fosse un vero problema, ma adesso che i tassi sono risaliti e debbono continuare a farlo, adesso che l’economia non cresce più, si rischia l’ insolvenza generalizzata, sebbene l’inflazione riduca al tempo stesso il valore reale del debito. Secondo Roubini questa incongruenza verrà amplificata dalle banche centrali e comporterà degli shock sui mercati dei capitali che si ripercuoteranno sulle borse e faranno sparire la speranza di un “atterraggio morbido” dopo anni di crescita economica.

  • Le Tensioni Geopolitiche:

Ovviamente oggi tutti parlano della guerra tra Ucraina (e la NATO che la sostiene) e la Russia. Ma la situazione geopolitica globale è peggiorata da tempo. Il mondo sta attraversando una serie di profondi e numerosi cambiamenti strutturali a causa dell’emergenza climatica e nelle relazioni tra popoli, nazioni, schieramenti e sinanco gruppi sociali, tali da renderlo in pochi anni letteralmente irriconoscibile. Uno degli effetti più deleteri delle nuove tensioni geopolitiche è sicuramente l’attuale caduta verticale del commercio globale. Ma anche il rincaro delle materie prime, la competizione tra le nazioni e dunque duplicazione della spesa per le ricerche scientifiche e tecnologiche

Ci sono molte ragioni profonde alla base delle numerose fratture che stanno emergendo tra i diversi blocchi di nazioni. Ignorarle sarebbe come voler chiudere entrambi gli occhi. Ma una cosa è certa: l’intera geografia industriale del mondo cambierà in pochi anni a causa di tali tensioni, con il rischio che la maggior parte delle risorse rivolte alla scienza e alla ricerca tecnologica possano essere deviate verso scopi militari, rallentando lo sviluppo tecnologico dell’umanità nel suo complesso.

  • I Disastri Ambientali

Negli ultimi anni soprattutto l’Occidente ha provato a imprimere una decisa svolta a tutte le attività umane che possono generare emissioni nocive o danni ambientali. Ma ciò ha contribuito a far lievitare il costo dell’energia e, in ultima analisi, a far crescere l’inflazione, che riduce la propensione agli investimenti infrastrutturali di cui il mondo ha bisogno affinché l’ambiente naturale possa risultare maggiormente protetto. Dunque la transizione ecologica non sarà semplice e non può avvenire troppo in fretta.

Al tempo stesso l’assommarsi delle emissioni nocive sta già provocando la “tropicalizzazione” del clima temperato la quale a sua volta genera (direttamente o indirettamente) una serie di disastri ambientali la cui portata è difficile stimare, ma che rischiano di lasciare un serio impatto (negativo) sulla crescita economica. Talvolta poi il riscaldamento globale comporta ondate di gelo senza precedenti, proprio perché saltano gli equilibri preesistenti.

Senza contare il fatto che i rischi di diffusione di virus letali non sono fermati con la vaccinazione contro il COVID19. L’umanità si è scoperta piuttosto indifesa al riguardo e i costi di una maggiore prevenzione e cura dalle malattie sono al momento quasi insostenibili.

  • La Demografia e l’invecchiamento della popolazione:

La popolazione mondiale continua a crescere non solo di numero, ma anche nei consumi e, di conseguenza, nelle emissioni nocive che questi ultimi generano. E già questo fatto pone molti interrogativi circa la sostenibilità ambientale della crescita demografica smisurata. C’è inoltre da chiedersi quali saranno le nuove tendenze e le nuove necessità. Ma c’è anche e soprattutto da interrogarsi circa un altro fattore alla base dei profondi cambiamenti che l’Occidente sta già registrando nel mercato del lavoro e che prima o poi si estenderanno anche al resto del mondo: l’invecchiamento progressivo della popolazione.


Una popolazione che invecchia muta abbastanza radicalmente il proprio paradigma dei consumi, è mediamente più benestante, desidera lavorare meno e in maniera meno faticosa, si sposta di meno e si adatta di meno ai cambiamenti, non accetta più determinate mansioni e richiede come si più elevati. Tutte cose che, a partire dagli Stati Uniti d’America, si stanno manifestando platealmente riducendo la domanda di posti di lavoro e dunque drogando il tasso di occupazione della popolazione, nonché alzando generalmente il costo del lavoro (cosa che può rappresentare uno stimolo alla propagazione dell’inflazione).

LE PROSPETTIVE DI RECESSIONE

Da più parti si sente perciò parlare di una forte probabilità di recessione per l’anno a venire. In parte, come già detto, ciò potrà dipendere dalla riduzione del potere d’acquisto che dovrebbe conseguire all’inflazione. Ma non basta: in realtà ciò che si è potuto vedere sino ad oggi è più che altro un rallentamento generalizzato della crescita economica, Insieme ad una riduzione in quantità (ma non in valore) dei consumi. Non ancora un crollo.

Molti pronosticano -almeno per l’America- un “soft landing” che potrebbe dipendere anche da quanto sapientemente le banche centrali potranno accompagnare la progressiva riduzione del tasso di inflazione. Per l’Europa tuttavia la situazione potrebbe essere facilmente peggiore a causa della maggior dipendenza dalle forniture straniere. Contemporaneamente si sente però parlare di “accorciamento della durata dei cicli economici” e conseguente di una loro certa sovrapposizione. Il che non lascia chiarezza sull’interpretazione dei dati statistici.

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La verità ovviamente non la conosce nessuno, ma quello che sembra già sufficientemente certo è che si stanno registrando tanti e tali cambiamenti (finanziari, tecnologici, produttivi, nella distribuzione e nei consumi) a causa dei quali alcuni settori industriali fioriscono ed altri subiscono forti sconquassi, tanto che è difficile generalizzare delle tendenze dell’economia nel suo complesso. È dunque ragionevole ritenere che sia poco prevedibile l’andamento complessivo del prodotto interno lordo globale (e anche poco utile conoscerlo), a causa del moltiplicarsi dei fattori che ne determinano la crescita o la decrescita.

A LIVELLO MACROECONOMICO

Qualche tendenza di fondo è comunque possibile percepirla: il credito ad esempio sarà con ogni probabilità più caro un po’ per tutto il mondo, e a prescindere dall’andamento dei tassi di rifinanziamento praticati dalle banche centrali, quantomeno in funzione dei maggiori rischi percepiti dagli investitori. La gamma dei tassi d’interesse dunque si amplierà, facendo divenire poco vantaggiosi i finanziamenti di piccola entità e quelli a soggetti economici di piccola dimensione.

Un altro elemento che sembra emergere con chiarezza sarà il progressivo maggior costo degli investimenti infrastrutturali, a partire da quelli per le abitazioni, a causa delle più complesse normative da rispettare, ad esempio in termini di inquinamento, sicurezza statica, salubrità degli edifici. Facile dunque prevedere che crescerà corrispondentemente (o anche più che proporzionalmente) il costo dei fitti abitativi. Parallelamente anche il costo della vita in generale è possibile che subisca ulteriori impennate, perché il medesimo ragionamento si applicherà a interi quartieri o città, ove quelle che esprimeranno il maggior livello di investimenti saranno corrispondentemente anche le più care.

Se ciò sarà vero è altresì probabile che il costo del lavoro subirà una progressiva impennata, anche a prescindere dal “costo della vita”, proprio perché i lavoratori più specializzati (e meglio pagati) dovranno far fronte ad una maggior spesa “strutturale”. È al tempo stesso probabile che anche l’offerta di lavoro sarà sempre più frastagliata, in funzione della domanda e dell’offerta.

Non necessariamente tutto ciò potrà comportare uno scenario di elevata inflazione che si tramuterà in tassi d’interesse elevati. Anzi, se posso azzardare una previsione temeraria, è possibile che i rendimenti reali del reddito fisso (cioè al netto dell’inflazione) possano risultare molto limitati o addirittura negativi anche nei prossimi anni. Ma sicuramente l’inflazione non sparirà in una stagione.

A LIVELLO MICROECONOMICO

A livello dei singoli settori industriali ci sono indubbiamente tendenze che non muteranno troppo di direzione nei prossimi mesi, quali una certa tensione nei costi energetici, una certa scarsità di talune materie prime e semilavorati, la scarsità di risorse umane qualificate, la necessità di incrementare fortemente gli investimenti per poter risultare competitivi, seppure soltanto a livello “regionale”, eccetera, eccetera. Ma se questo potrà o meno comportare una riduzione dei profitti attesi è assai arduo da prevedere, tant’è che sino a oggi tutte le previsioni per un crollo dei profitti delle principali società quotate sono state smentite dai fatti.

Bisogna poi tenere conto del progressivo intervento delle nuove tecnologie, strutturalmente “deflattive”, grazie alle quali cioè sarà possibile contenere i costi di produzione. La capacità però di investire pesantemente per adottarle diverrà altresì un grosso fattore di discriminazione competitiva. Poche grandi industrie riusciranno a godere di quei benefici, portando progressivamente fuori mercato le altre. È facile perciò immaginare che il processo di concentrazione competitiva dei singoli settori industriali si incrementerà terribilmente, almeno per i prossimi anni.

A LIVELLO BORSISTICO

La metamorfosi in corso dello scenario economico generale produrrà forti conseguenze sui mercati borsistici? È probabile che saranno sempre meno regolamentati, per incentivare imprese e investitori a parteciparvi. In secondo luogo è altrettanto probabile che gli scambi si concentreranno sempre più in pochi centri finanziari globali, di fatto quasi completamente smaterializzati, dunque raggiungibili online da ogni parte del mondo. Queste tendenze comporteranno necessariamente maggiori rischi per gli investitori, che di conseguenza saranno sempre più intermediati da grandi gestori del risparmio.

Se ciò fosse vero sarebbe altresì probabile una progressiva riduzione del trading online da parte dei singoli risparmiatori, ma le statistiche per il momento sembrano indicare il contrario. Così come dovrebbe essere vero che il rialzo dei tassi d’interesse e dei rischi generali degli investimenti (guerre e disastri ambientali compresi) dovrebbero tendere a deprimere gli indici azionari, almeno nel breve periodo. Anche in questo caso tuttavia bisogna tenere conto del fatto che dall’Autunno sta succedendo l’esatto opposto, schiacciando i rendimenti attesi degli investitori e facendo lievitare i moltiplicatori di valore espressi dalle borse di tutto il mondo (in particolare quelle orientali).

L’ANDAMENTO DELL’INDICE GLOBALE AZIONARIO MSCI

E’ altresì possibile che, come è successo per l’inflazione, anche per le borse alla fine arrivi il momento di “resa dei conti”. I mercati azionari tuttavia hanno mostrato negli ultimi anni non soltanto una tendenza generale al rialzo, ma anche una notevole resilienza alle crisi di fiducia, forse anche in funzione della grande liquidità in circolazione. Tutti dicono infatti che le cose potrebbero cambiare parecchio man mano che questa si ridurrà.

LA RIDOTTA CAPACITÀ DELLE BANCHE CENTRALI

Sono tuttavia un po’ scettico sulla capacità delle banche centrali di continuare a fare il bello e cattivo tempo sui mercati. Tanto per il fatto che risultano sempre in ritardo sui grandi cambiamenti in corso, quanto perché le armi a loro disposizione tendono strutturalmente a ridursi.

I bilanci delle banche centrali sono al momento ingolfati dall’aver acquistato così tanti titoli in passato che non si possono eliminare con un semplice tratto di penna. Questo impedirà loro di contrastare efficacemente la prossima recessione, soprattutto se questa sarà severa. Ma c’è un altro aspetto che va tenuto in considerazione: la progressiva riduzione della capacità di influire sull’economia attraverso le politiche monetarie. La progressiva perdita di valore delle cosiddette “fiat currencies” si traduce infatti in una minor efficacia delle manovre possibili.

Tende anche ridursi l’autonomia delle banche centrali dai rispettivi governi politici, anche in funzione delle progressive spaccature geopolitiche globali che impediscono loro una effettiva ”concertazione” degli interventi.

…E QUELLA DEI GOVERNI NAZIONALI

È relativamente probabile tuttavia che anche la politica arrivi a risultare meno capace di modificare il corso degli eventi rispetto a quanto è successo in passato, in funzione dei pesanti vincoli di bilancio che interferiscono con le volontà dei governi in carica e che impediscono loro di agire profondamente tramite politiche fiscali.

Non solo oggi nessun governo locale sembra oggi in grado di contrapporsi alle tendenze geopolitiche planetarie. Che vengono tracciate da poche élites globali. Ai governi nazionali restano però in carico i debiti, le spese per l’assistenza sociale e la raccolta di tasse e imposte. Dunque i vincoli esterni alle decisioni politiche sono parecchi e poche sono le leve che possono essere mosse. Ovviamente questo vale molto più per l’Occidente che per l’Oriente, dove le autorità pubbliche sembrano conservare molta più capacità di decisione.

CONCLUSIONI

È l’intero “sistema industriale globale” oggi a vedersi rivoluzionato, tanto per fattori ineluttabili quali la demografia e le nuove tecnologie, quanto per la scelta dei governi occidentali di far prevalere le leggi di mercato a quelle della politica. Ciò comporta sicuramente grandi dubbi sulla “tenuta” delle istituzioni occidentali (più che su quella delle istituzioni “orientali”) ma soprattutto comporta dubbi crescenti sulla sostenibilità economica del modello industriale oggi presente, che non può fare a meno di sostenere una finanza globale sempre meno sotto controllo e ancora non pronta a un’effettiva transizione dei sistemi di produzione e di consumo verso la sostenibilità ambientale e verso il pieno utilizzo di energie da fonti rinnovabili.

Ma questi dubbi non significano per certo sciagure e grandi crisi. Significano quasi sempre soltanto profondi cambiamenti, i quali sconvolgono l’ordine pre-esistente e possono generare sciagure, ma è relativamente improbabile che queste accadano. Ciò che è più probabile è inoltre che i cambiamenti generino altri cambiamenti, che bisognerà riuscire a prevedere e a cavalcare. E che molti effettivamente riusciranno a goderne, sebbene resti inevitabile che altri ne soffriranno.

Per tutti questi motivi è dunque relativamente probabile che il mondo occidentale in tutto questo possa vedere ridotta la propria ricchezza e che dunque debba affrontare una recessione sistemica. Che però non significherà necessariamente fame o malattie. Bensì un probabile freno agli eccessi attuali con benefici dal punto di vista ambientale e con maggiori stimoli verso una sostanziale rappacificazione dei rapporti tra le nazioni. Così come l’inflazione viene stemperata dal rallentamento dell’economia, così probabilmente anche un ridimensionamento dei listini azionari potrà comportare un loro riequilibrio rispetto a taluni eccessi visti di recente e un maggior spazio per i nuovi entranti (le “matricole” cioè le aziende che si quotano in borsa per la prima volta). E ciò non è affatto detto che possa essere un male per l’economia globale.

Stefano di Tommaso




LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




LA RUSSIA NON INVADERÀ L’UCRAINA

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Gli ultimi giorni sono stati di vera passione per i mercati finanziari di tutto il mondo, e non soltanto per loro: anche per i prezzi delle materie prime e conseguentemente, del petrolio e in generale dell’energia. Ovviamente la cosa non ha mancato di riflettersi sulle stime dell’inflazione, che aveva già determinato allarme in tutte le direzioni arrivando, a fine Gennaio, al 7,5% in America, ben oltre ogni stima precedente. Anche a prescindere dalla guerra…

 

L’origine dei rincari era inizialmente stata dovuta ad una scarsità di forniture di semiconduttori, componenti essenziali oggi per quasi qualunque produzione manifatturiera, ma poi sono intervenuti i rincari dei prezzi petroliferi. Oggi però il timore diffuso è che persino quel 7,5% possa restare soltanto un bel ricordo e che se il petrolio supererà i 100 dollari per barile, possa spingerla ancora più in alto, sulla scia delle tensioni geopolitiche.

LA GEOPOLITICA SOSPINGE IL PREZZO DEL PETROLIO


Ovviamente non sono tutti d’accordo nel prevedere un’inflazione a doppia cifra, e c’è chi getta aqua sul fuoco continuando a far notare che le ragioni dell’inflazione sono quasi tutte passeggere, con la conseguenza che esse non potranno durare per sempre e che anche l’inflazione stessa alla fine dovrà ripiegare. Concordiamo in parte, ma occorre senza dubbio rammentare che alla base di quasi tutti questi rincari c’è anche un potenziale conflitto strategico nell’Europa dell’Est, dove la NATO vuole espandersi fino all’Ukraina e la Federazione Russa ha ovviamente fatto sapere che non continuerà a digerire senza fiatare ulteriori espansioni verso i propri confini di paesi che mostrano sempre più di allinearsi apoditticamente alle scelte americane.

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Si guardi su questo video, in proposito, il commento di Putin nel giorno della visita di Macron: https://www.youtube.com/watch?v=w7Unk2P8A-Y

Ricordiamoci infatti che da tempo, ma in particolare dal giorno dell’elevatissima adesione popolare al referendum in Crimea che ne sancì il ritorno alla Federazione Russa (staccandosi dall’Ucraina), l’America ha avviato -con la totale compartecipazione degli alleati europei- una serie infinita di sanzioni economiche contro la Russia, considerata dai media occidentali un “invasore”. Sanzioni che non ha poi mai dismesso e che hanno esacerbato i rapporti est-ovest, ivi compresi quelli con la Cina, rimasta molto critica sull’attendibilità delle dinamiche ufficialmente riportate e, anche per questo, oggi grande alleato della Russia.

L’escalation militare sta continuando in Ucraina, con l’arrivo di sempre maggiori forze occidentali, a supporto della repressione di un’eventuale invasione da parte delle forze armate della Federazione Russa, nonostante quest’ultima non abbia mai accennato a tale possibilità e anzi abbia un bel problema: quasi tutta la popolazione di lingua russa in Ucraina è oggi in stato di oggettiva difficoltà ed è sottoposta a legge marziale! Anche per questo quasi 300.000 di essi hanno lasciato tutto e varcato i confini chiedendo asilo alla Russia.

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Mosca ha soltanto fatto sapere che non tollererà un’ulteriore espansione della NATO verso i propri confini (cioè includendo l’Ucraina) e che -se l’Occidente volesse davvero la pace- si preoccuperebbe di rassicurare la Russia sull’infondatezza delle minacce alla propria sicurezza strategica e non cercherebbe invece di continuare a sostenere tentativi di colpi di stato ai propri confini, come ad esempio quello in Kazakhstan, quasi subito fallito.

LA RUSSIA NON VUOLE LA GUERRA, NÉ L’UCRAINA

Ma, magicamente, nonostante l’entrata dell’Ucraina nello spazio NATO sia praticamente già avvenuta da un pezzo (il paese ospita oggi infatti ingenti forze armate occidentali all’interno dei propri confini), la Russia non ha reagito, se non accrescendo la presenza delle proprie forze militari a ridosso dei confini meridionali e incrementando il coordinamento delle medesime con quelle cinesi. Perché non lo ha fatto? Perché un eventuale conflitto in Ucraina non potrebbe che divenire subito un conflitto globale, e anche fatalmente letale, a causa del potenziale nucleare degli armamenti. Ma anche perché le prime vittime di un tale conflitto sarebbero le popolazioni di lingua russa che risiedono all’interno dell’Ucraina.

Ricordiamoci che nessuna guerra importante è stata più combattuta dopo la 2^ guerra mondiale, proprio a causa della capacità di “dissuasione” degli arsenali nucleari. E la Russia ha fatto sapere chiaramente che, qualora le provocazioni dell’Occidente superassero una certa soglia, la sua risposta armata andrebbe direttamente ai “mandanti” (cioè a Washington e a Londra) e non soltanto agli alleati geograficamente più coinvolti (gli europei). E la strategia della dissuasione sino ad oggi ha funzionato.

Ma ciò che i media non dicono è che l’America in questa “campagna d’Ucraina” ha un obiettivo – oramai raggiunto – nel generare questa altissima tensione nei rapporti internazionali: quello di accrescere il valore monetario delle proprie risorse energetiche (è esportatrice netta di gas e petrolio). L’America ha inoltre in tal modo ristabilito la propria leadership politica sull’Occidente, che negli ultimi tempi era oggettivamente stata messa in discussione. Ma in questo ha fatto l’interesse anche della Russia, per lo stesso motivo.

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Anche a causa della strategia della tensione, si sono praticamente interrotte le forniture di gas russo all’Europa, pur in presenza di due nuovi importanti gasdotti appena realizzati: quelli cosiddetti “del Nord” che arrivano in Germania senza passare dall’Ucraina. Facendo largo all’arrivo delle navi americane che trasportano gas da petrolio liquefatto e permettendo così agli americani di vendere (cara) aglio”alleati” la loro produzione in eccesso. Ma se questo obiettivo vede anche nella Russia un importante beneficiario, perché mai l’escalation militare dovrebbe proseguire?

E infatti la nostra tesi è che ciò è improbabile che succeda, sebbene ci siano diverse possibili contromosse all’espansione occidentale in Ucraina, che la Russia potrebbe mettere in atto dal momento che dovrà trovare il modo di ripristinare la propria sicurezza strategica. Il risultato di tali mosse sarà un probabile prolungamento della tensione geopolitica, il cui unico limite è tuttavia l’alleato cinese, che ovviamente ha mal digerito l’accresciuto prezzo dell’energia e che cerca di non fomentare le possibilità che il mondo intero entri in guerra.

MA LA GUERRA FREDDA CONTINUERÀ, RISCALDANDO I PREZZI

Cosa se ne può dedurre, se non che la guerra fredda ha avuto sino ad oggi risvolti molto “caldi” sul fronte dell’inflazione che, alla fine, non potranno che risultare indesiderati alla stessa America, dove l’economia è meno ingessata che in Europa e dove i prezzi rischiano di salire troppo? Il partito “democratico” degli U.S.A. sta favorendo troppo le lobby di petrolio e gas e rischia così seriamente di perdere le elezioni di medio termine proprio a causa dell’inflazione, favorendo la potenziale riscossa dei Repubblicani.

Dunque o la presidenza degli Stati Uniti troverà modo di entrare seriamente nel conflitto armato (con qualche speranza di non infangarcisi troppo), ricompattando i consensi interni sulla base del nazionalismo strisciante, oppure alla fine troverà più utile allentare la tensione militare e far discendere il prezzo del petrolio a livelli più ragionevoli. Ed è questa la nostra tesi: il conflitto non scoppierà, nonostante le provocazioni occidentali (come quella del sottomarino in acque russe) perché non conviene a nessuno e perché i primi contrari a una devastante guerra sono gli stessi Ucraini sulla testa dei quali volerebbero i colpi di mortaio. Ma la tensione resterà alta ancora a lungo.

Il petrolio è dunque ragionevole ritenere che non scenderà troppo, anche perché c’è anche un altro fattore che probabilmente continuerà per un po’ a sostenerne le quotazioni: la limitazione dell’offerta, con una domanda che viceversa sino ad oggi ha mostrato di voler correre ancora a lungo. Dunque anche l’inflazione sembra arrivata per restare a lungo, ben più di quel che i banchieri centrali vorrebbero farci credere. E abbastanza per provocare uno scossone piuttosto violento sui mercati obbligazionari.

I TASSI SALIRANNO (POCO) …

Questo non significherà necessariamente un forte rialzo dei tassi d’interesse (perché le banche centrali getteranno probabilmente altra acqua sul fuoco), ma sicuramente porterà a cercare di controbilanciare i rendimenti reali negativi (dunque un po’ saliranno) e comunque genererà un ulteriore “de-basing” del potere d’acquisto delle principali divise monetarie, con l’eccezione di quelle considerate più sicure, come il Franco Svizzero. Per lo stesso motivo anche l’oro potrebbe riprendere quota (anche per il fatto che Russia e Cina continuano ad accumularlo), ma soprattutto resteranno probabilmente in alto le quotazioni dei principali listini azionari (i cui dividendi saranno sempre molto più appetibili delle cedole), mentre è possibile che saranno più danneggiate le borse periferiche e dei paesi emergenti.

… E L’ITALIA RIPRENDERÀ LE PRIVATIZZAZIONI

Lo scenario non è infine troppo favorevole a paesi come il nostro, a causa del fatto che la sostenibilità del nostro debito pubblico ne sarà minacciata. Ed è molto probabile che i timori sul rating nazionale verranno rintuzzati da un più deciso programma di privatizzazioni (gli immobili di proprietà pubblica, le principali infrastrutture ancora sotto il controllo statale sono ancora un boccone molto interessante per i grandi capitali). Era già una manovra nell’agenda di questo governo e non stupirà dunque il fatto che stavolta, dopo il probabile rialzo dello spread (a primavera la BCE interromperà il suo programma PEPP), possa venir messa in atto in grande stile! Che poi sia davvero così necessaria è tutt’altro discorso, sul quale invece ci permettiamo di dubitare…

Stefano di Tommaso




I COSTI DELLA GEOPOLITICA

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Gli economisti di tutto il mondo sembrano concordare: la ripresa nel corso del 2022 probabilmente continuerà, sebbene a un ritmo sicuramente meno forte di quello precedente. Se così avverrà si saranno rivelate esatte le previsioni stilate nel corso del 2021 in cui si preannunciava un rimbalzo deciso -dopo il crollo del 2020- nel corso dell’anno passato ed un prosieguo della ripresa fino ai livelli di output produttivo del 2019 nel corso del 2022. Le borse però temono dell’altro. E nel frattempo scendono.

 

LO SCENARIO GENERALE È PEGGIORE DI QUELLO PRE-PANDEMICO

Peccato infatti che le condizioni generali in cui prosegue la ripresa economica siano divenute molto diverse da quelle del 2019, i cui livelli di output si dovrebbe tornare a eguagliare. Quello era un anno in cui i tassi d’interesse risultavano sostanzialmente azzerati, come pure l’inflazione era ai minimi storici e la disoccupazione viaggiava verso livelli molto bassi persino in paesi periferici come il nostro. La ripresa del 2020-2021 perciò è arrivata insieme con una serie condizioni peggiorative che oggi fanno sussultare le borse e alimentano il forte timore che le contromisure che le banche centrali si apprestano a disporre a freno dell’inflazione possano cancellare anche quel poco che resta delle speranze di sviluppo.

I DANNI DELL’INFLAZIONE

L’inflazione è stata indubbiamente sottovalutata sino a ieri e oggi è divenuta il maggior cruccio di studiosi, operatori, governanti e banchieri, ma viene affrontata in modo tardivo. Il principale mezzo attraverso il quale essa sta arrivando a nuocere è senza dubbio il maggior costo di gas e petrolio, arrivato a moltiplicarsi (soprattutto quello del gas, che in Europa scarseggia anche per motivi strutturali) a livelli nemmeno immaginabili già soltanto un anno fa. L’inflazione è poi un mostro dalle molte appendici.

Essa può deprimere le aspettative di profitto delle imprese, mettendo a rischio i ritorni attesi dagli investimenti programmati e l’ampliamento conseguente dei posti di lavoro. Può distruggere il valore dei risparmi di una fetta sempre più grande dell’umanità che sono gli anziani e i pensionati, ma soprattutto può rilanciare il valore nominale dei tassi d’interesse e far traballare i soggetti più indebitati, a partire dai numerosissimi governi nazionali che hanno sino ad oggi contrastato la recessione da lockdown con sussidi presi a prestito dalle banche centrali.

Se è attraverso la bolletta energetica che l’inflazione sembra più che mai arrivata per restare e, anzi, per gonfiare i prezzi ancor più di quanto abbiamo sperimentato al carrello del supermercato sino ad oggi, allora probabilmente gli scenari più oscuri sulle sorti della nostra economia guadagnano il loro diritto di cronaca. A partire dal fatto che la “crescita sincronizzata” che si era vista negli ultimi anni nelle varie zone geografiche del globo oggi rischia di scomparire per sempre.

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LA CRESCITA “SINCRONIZZATA” È SPARITA

L’Asia infatti ha subìto minori danni dalla pandemia e risulta sufficientemente lontana dalle tensioni geopolitiche dell’Europa orientale. La sua crescita infatti sembra tornata poderosa e i governi centrali mostrano minore incertezza di quelli occidentali.

L’America invece ha subìto danni ingenti nelle proprie filiere di approvvigionamento delle fabbriche e nel numero di morti nella popolazione (soprattutto quella più indigente), ma può innanzitutto contare su un’assoluta auto-sufficienza energetica e inoltre ha la capacità di incrementare il proprio debito pubblico senza il timore non vederlo coperto dalla banca centrale. Ma è anche il Paese che sta reagendo più velocemente all’inflazione, onde poter rimettersi in ordine prima di altri.

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L’Europa invece non soltanto rischia di pagare un elevato prezzo economico per la sua unione politica a metà, ma è anche l’area geografica che rischia di subìre le peggiori conseguenze nello scontro frontale che sta per prendere piede tra Oriente e Occidente ai confini della Federazione Russa con l’interruzione della fornitura di metà di tutto il gas che importa. Ed è anche la regione la cui Banca Centrale (la BCE) stava sperando di tirare dritto il più a lungo possibile con la politica dì tassi bassi onde non vedere frantumata l’Unione nella spirale dei debiti pubblici più elevati del mondo.

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SE LA FEDERAL RESERVE SI FA PRENDERE DAL PANICO…

Inutile dire che, se la Federal Reserve Bank of America (FED) dovesse accelerare la stretta dei tassi d’interesse già preannunciata sarà sufficiente il gioco delle aspettative (pur senza che si scateni alcun conflitto armato, che auspicabilmente nemmeno stavolta prenderà corpo) per mandare in crisi l’approccio da colomba della BCE, rilanciando le aspettative inflazionistiche e, probabilmente, rilanciando ancora una volta i prezzi di gas e petrolio, che tutto sommato fanno comodo agli americani che ne sono esportatori netti.

L’euro-zona, già esposta più di altre zone geografiche alle possibili conseguenze dì un conflitto armato ai suoi confini, rischia cioè oggi di entrare in un limbo fatto di “stag-flazione” (cioè stagnazione più inflazione) dove potrebbe rimanere sepolta molto a lungo se le proprie imprese dovessero mettere in pausa i propri programmi di investimento e se i propri governi dovessero traballare nella volontà dì spendere molto altro denaro nell’ampliamento delle proprie infrastrutture, tecnologiche, architettoniche e strategiche.

Il rischio geo-politico insomma, oggi soltanto marginalmente ”prezzato” dai mercati finanziari, potrebbe far esplodere soprattutto in Europa le tensioni speculative e i timori sulla tenuta dei giganteschi debiti pubblici accumulati sino ad oggi e ulteriormente esasperati dalla necessità di contrastare la deriva pandemica.

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…È L’EUROPA CHE RISCHIA DI FARNE LE SPESE

Se tale rischio dovesse iniziare a prendere forma concreta tra l’altro si materializzerebbe la possibilità che le quotazioni delle borse europee si sgonfino e che la liquidità evapori dai mercati finanziari e dal sistema creditizio del Vecchio Continente per prendere la volta dell’Asia (dove ci si attende maggior stabilità politica) e dell’America (che arriverebbe a offrire più elevati rendimenti).

Ovviamente (e grazie a Dio) non vi è alcuna certezza che la FED si lasci prendere dal panico accelerando il proprio programma di contrasto all’inflazione, né nella possibilità dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche con la Russia, con il conseguente probabile ulteriore rincaro delle materie prime. I timori del possibile maggior costo del denaro e dell’energia non sono perciò del tutto fondati, ma è comunque il gioco delle aspettative ciò che può far saltare il banco.

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Se la NATO accumula infatti truppe e munizioni in Ucraina (cioè ai confini della Federazione Russa e in un territorio dove un terzo della popolazione è di lingua ed etnia russa, cioè diversa da quella imperante ucraìna e questo terzo della popolazione è sotto continui attacchi provenienti addirittura dalle forze governative) è logico che anche la Russia rafforzi le sue posizioni ai propri confini e che valuti ogni possibile scenario, anche soltanto in soccorso di quelle popolazioni. E man mano che l’ammassamento prosegue, i rischi di qualche incidente tattico aumentano e, con esso, le probabilità della guerra.

Dunque è plausibile ancorché al momento sia anche improbabile, che si scateni la cosiddetta tempesta perfetta. E la sua possibilità è più che sufficiente ad accrescere le pressioni speculative che puntano a ulteriori rincari dei combustibili di derivazione fossile. Gli analisti se lo attendono e, come corollario, anche i prezzi di molte altre materie prime potrebbero seguirli.

IL COSTO DELL’INCERTEZZA POLITICA

La crisi diplomatica e l’imperversare dell’inflazione portano quindi con loro ulteriore incertezza politica a tutti i livelli, a partire dai rapporti secolari tra America e Cina, fino alle sempre più frequenti manifestazioni di piazza in Occidente, che nascono spontanee per contrastare la soppressione delle libertà individuali che è seguita alle misure di prevenzione dai contagi. E l’incertezza politica ha sicuramente un costo: quello della necessità da parte dei governi in carica di tenere elevate le loro politiche di welfare (cioè di assistenza socio-sanitaria) che a loro volta alimentano i deficit pubblici e i timori di nuovi shock di fiducia sui mercati finanziari.

La possibilità di una nuova frantumazione delle filiere internazionali di fornitura di manufatti provenienti dal blocco asiatico danneggerebbe infatti i consumatori occidentali, ma ancor più le imprese, che si vedrebbero costrette a creare nuove fabbriche in Occidente e, nel frattempo, a subire maggiori costi di produzione, che inevitabilmente si rifletteranno anche a valle, sui mercati di sbocco.Ma il costo di gran lunga più elevato relativo al propagarsi dell’incertezza risiede nella possibilità che essa arresti quella tanto attesa “normalizzazione” che il mondo si aspettava con l’esaurirsi della pandemia, dalla ripresa dei viaggi e -soprattutto- dalla piena ripresa del commercio mondiale (si veda il grafico qui sotto riportato relativo al commercio mondiale).

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La considerazione che prevale dunque è quella che stavolta, a dispetto delle rosee previsioni diffuse sino a ieri, sulle prospettive economiche europee, sia proprio il vecchio continente quello che potrà partire le peggiori conseguenze derivanti dalle tensioni geopolitiche alle proprie porte e dalla possibilità che le risorse energetiche arrivino a scarseggiare, rilanciandone il prezzo.

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Quanto è concreto questo rischio? Difficile dirlo, dal momento che le variabili geopolitiche non seguono una traiettoria lineare né sono figlie soltanto delle conseguenze razionali. Spesso prendono pieghe inaspettate, tanto in senso positivo quanto negativo. Bisogna dunque riuscire a gettare il cuore al di là dell’ostacolo e prefigurare anche scenari decisamente più positivi, nei quali le tensioni inflazionistiche arrivino presto a scendere di concerto con quelle geopolitiche, e permettano alle banche centrali atteggiamenti più accomodanti, ancora oggi ultra-necessari per procedere nell’ampliamento delle infrastrutture che il progresso economico richiede a gran voce!

MA -INFLAZIONE O NO- I TASSI SALIRANNO UGUALMENTE

Ma persino in tal caso (inflazione domata e tensioni attutite) la forte volatilità dei mercati finanziari potrebbe permanere ai livelli attuali, tanto per effetto della grande liquidità in circolazione che, in caso di scenari più positivi che si rifletterebbero in una crescita economica globale più accentuata, quanto per il sommarsi ad essa anche di una maggior velocità di circolazione della moneta. Lo scenario più positivo dunque vedrebbe comunque un rischio di surriscaldamento dell’economia che porterebbe comunque a far crescere i tassi di interesse, pur in presenza di una riduzione dei rischi di inflazione dei prezzi.

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Cosa che fa pensare che i rialzi dei tassi attesi (circa un punto percentuale, spalmato in circa un anno di tempo, secondo la FED) arriveranno comunque, e che si propagheranno più che probabilmente anche al resto del mondo, anche qualora le tensioni si placassero e la Banca Centrale Europea potesse riuscire a mantenere un assetto rilassato. Anzi la BCE farebbe sicuramente bene a restare cauta nel virare in direzione di maggior rigore. Non soltanto per venire incontro alle esigenze dei paesi periferici come il nostro, dove le tensioni sulla tenuta dei debiti pubblici potrebbero farsi più pressanti, ma anche per permettere alle proprie banche di proseguire ad erogare finanziamenti, che altrimenti scarseggeranno.

Ma -comunque andrà- l’effetto finale in Europa non dovrebbe essere molto diverso: è probabile che i tassi di sconto delle banche centrali si manterranno indietro rispetto all’innalzamento quasi certo della curva dei tassi d’interesse, con il rischio (ovvero l’opportunità, per Paesi come il nostro) che la Divisa Unica torni a svalutarsi rispetto al resto del mondo. Questo significherà un nuovo apprezzamento del Dollaro, o quantomeno una sua maggior forza di fondo, cosa che porta ad escludere nel medio termine (entro l’anno, dunque) il tanto ventilato rimbalzo verso il basso del biglietto verde.

E LE BORSE TRABALLERANNO, MA NON CROLLERANNO

In conclusione tanto le tensioni geopolitiche (con il conseguente rischio che l’inflazione si consolidi verso l’alto), quanto la probabile risalita dei tassi d’interesse, come pure la possibilità che il Dollaro torni ad apprezzarsi, fanno pensare nel medio termine a scarse performances delle borse mondiali, i listini delle quali peraltro si sono ridimensionati sino ad oggi quasi solo per l’incidenza negativa della discesa dei titoli più speculativi e dove i moltiplicatori del reddito erano ascesi a livelli eccessivi.

Ma la situazione attuale di tassi di interesse reali negativi, di elevata liquidità (con la possibilità che essa permanga a lungo in circolazione nonostante i proclami delle Banche Centrali) e anzi gli si sommi anche l’effetto dell’accelerazione della velocità di circolazione della moneta, sono tutti fattori che fanno ritenere sia relativamente improbabile un crollo delle borse, pur in presenza di un incremento delle tensioni internazionali.

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A meno di importanti conflitti armati dunque, lo scenario condiviso dalla maggioranza degli osservatori non prevede alcun crollo delle borse. Ma una maggior volatilità invece sì, a partire dalla giornata odierna. Ed è sempre più difficile discernere tra i due fenomeni senza perdere la bussola di una navigazione sicura.

Stefano di Tommaso