SARÀ L’INFLAZIONE A MUOVERE I MERCATI ?

Come va l’economia globale? Piuttosto bene si potrebbe affermare al momento, sebbene grandi minacce geopolitiche e relative all’inflazione dei prezzi siano in agguato sovvertendo il mondo che conoscevamo. Non potremmo infatti avanzare la stessa conclusione per le sorti della democrazia nel mondo né per la tutela dell’ambiente. Due elementi che continuano a rimanere indietro nell’agenda dei governi. Uno scenario complesso quello che si prospetta per il 2022 che dovrebbe però vedere ancora una volta ottimi profitti per le grandi multinazionali e ciò potrebbe significare che le borse continueranno ad avanzare, sempre che non arrivino nuovi cigni neri!

 

Se nell’ultima settimana la Federal Reserve Bank of America (FED) voleva spaventare i mercati, al momento si può dire che c’è riuscita benissimo, dopo aver pubblicato una serie di “appunti” (relativi alle discussioni tra i partecipanti al consiglio della banca centrale) che facevano chiaramente comprendere un atteggiamento di forte volontà per rialzare i tassi d’interesse. E visto che le borse (soprattutto quella americana, e soprattutto i grandi titoli tecnologici) viaggiavano intorno ai livelli massimi di sempre nonostante la prospettiva di rialzo dei tassi d’interesse, quella pubblicazione ha contribuito non poco all’immediato ridimensionamento delle valutazioni d’azienda implicite nelle quotazioni azionarie.

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Ecco qui una tabella, proposta da Milano Finanza dello scorso sabato, circa le performances a fine 2021 delle principali borse.

Niente male, vero? Anche senza considerare la crescita annua del 72% delle quotazioni del Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici), sono da incorniciare la crescita del 47% della borsa americana e quella di quasi il 34% della borsa cinese. Nonché quel quasi +19% dei maggiori titoli europei, con i listini di Tokio, Parigi e Berlino che hanno fatto meglio!

QUANTO SONO SOPRAVVALUTATE LE BORSE ?

Ovviamente dopo questi risultati spettacolari occorre anche andare a vedere quanto sono “sopravvalutate” le borse, con due “iconici” indici americani al riguardo. Innanzitutto quello di Warren Buffett:

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E poi quello di Robert Shiller, premio Nobel per l’economia nel 2013 e considerato uno dei padri della finanza comportamentale. Shiller ha concentrato i suoi studi sulla formazione delle bolle speculative arrivando a creare un proprio indice (il cosiddetto C.A.P.E. ratio) relativo alla sopravvalutazione dei titoli rispetto al loro rendimento, dopo averlo aggiustato rispetto all’andamento generale del mercato finanziario:

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È PROBABILE UNA ROTAZIONE DEGLI INVESTIMENTI AZIONARI

Come si può vedere, entrambi gli indici a fine 2021 sono intorno ai massimi storici, e questo nonostante un’inflazione galoppante, diversamente dagli anni precedenti, cioè con un incremento tendenziale dei prezzi al consumo che negli U.S.A. è già arrivato al 7% annuo. Dunque se ne può tranquillamente dedurre che le borse sono sopravvalutate!

Anche se più che alla media complessiva occorre guardare alla composizione degli indici azionari. Vediamo qui sotto com’è composto il principale indice della borsa americana:

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È dunque probabile che sia in corso una rotazione degli investimenti, se il listino americano è dominato dai grandi titoli tecnologici (quei il 30%) e se questi hanno sino ad oggi fortemente incrementato il valore della loro capitalizzazione dì borsa (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato).

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DA COSA DIPENDONO I RIBASSI ?

E, se vogliamo parlare dei ribassi dell’ultima settimana (siamo nell’ordine di qualche punto percentuale), dobbiamo tener conto di questa rotazione dei medesimi portafogli verso titoli più “difensivi” rispetto a quelli (principalmente i tecnologici) sospinti al rialzo fino all’ultimo giorno utile dell’anno appena chiuso anche perché godevano del favore dei piccoli risparmiatori. dei medesimi portafogli verso titoli più “difensivi” di quelli (principalmente i tecnologici) sospinti al rialzo fino all’ultimo giorno utile dell’anno appena chiuso.

Ma non solo: dobbiamo anche chiederci quanto, nella loro genesi, ha influito il fatto che, con l’arrivo del nuovo anno, le performances dei gestori di patrimoni del 2021 erano state oramai cristallizzate e dunque i portafogli azionari potevano essere alleggeriti?

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Difficile misurare le diverse componenti, ma è probabile che, nello scivolare complessivo delle quotazioni negli ultimi giorni, queste componenti c’erano! E se così fosse allora potremmo considerare i recenti ribassi quali semplici assestamenti anche perché i rincari dei prezzi delle materie prime si sono oggettivamente acquietati nelle ultime settimane, come si può vedere dal grafico sopra riportato, che fa ben sperare per l’inflazione futura.

LE BANCHE CENTRALI E LA POLITICA DELL’ORACOLO DI DELFI

A proposito poi della confusione generata dai controversi annunci delle banche centrali, il professor Masciandaro (Università Bocconi) dalle colonne de Il Sole 24 Ore tuona inesorabilmente definendo la strategia adottata negli ultimi mesi come: “la politica dell’oracolo di Delfi”(riferendosi ai controversi vaticinii della sacerdotessa Pizia che interrogava il dio Apollo).

Con comunicati sibillini e indicazioni altalenanti i banchieri centrali stanno probabilmente prendendo tempo, nella consapevolezza che meno si fanno comprendere e più spazio di manovra guadagnano, senza timore di venire smentiti dai fatti troppo presto. Ecco dunque che un giorno rassicurano i mercati, quello dopo li spaventano, con il risultato complessivo di incrementare la volatilità degli stessi, ma non di farli scendere davvero di livello.

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E comunque, dal momento che subito dopo la pubblicazione delle “minute” della FED i mercati sono scesi, John Authers riporta, nella sua newsletter dello scorso Sabato, un complesso elenco di variabili economiche per farci comprendere che oggi è ragionevole supporre che i mercati abbiano già incorporato nei livelli attuali le attese di un più deciso rialzo dei tassi d’interesse, come si può leggere qui accanto dalla comparazione tra ciò che il “consenso” di mercato si aspettava agli inizi di Settembre, di Novembre, di Dicembre e ciò che si attende adesso.

LE BORSE SONO PRONTE PER SEGNARE NUOVI RECORD?

Dunque le borse hanno già effettuato la loro correzione e sono pronte per ripartire a crescere? Forse è così, ma le sorti del quadro complessivo dei mercati finanziari non dipendono soltanto dall’atteggiamento delle banche centrali.

Con i progressi dell’economia globale e con gli ultimi rincari dell’energia (che, ricordiamocelo, è la più importante catena di trasmissione dell’inflazione dei prezzi) tale quadro si è complicato non poco e, se fino a qualche giorno fa avremmo potuto scommettere sulla persistenza del fattore “T.I.N.A.” (“there is no alternative” all’affidarsi all’investimento azionario per ottenere uno straccio di rendimento positivo) e dunque al progressivo ricomporsi della fiducia nelle borse, oggi altri fattori si affacciano all’orizzonte degli eventi…

LE TENSIONI GEOPOLITICHE POSSONO MINARE LA FIDUCIA

Innanzitutto quello geo-politico: la crisi dell’Afghanistan è probabilmente tutto tranne che una questione interna dovuta a quella sorta di “primavera araba” con la quale i media vorrebbero etichettare la vicenda. La Federazione Russa la vede come una vera e propria minaccia ai confini del proprio territorio da parte dei servizi segreti anglosassoni nei confronti del regime-cuscinetto di Nursultan Nazarbaief, così come avevano agito ai tempi della destabilizzazione del Nord Africa e dell’Ucraina (e stavolta per evitare di sottovalutarla ha già inviato cospicue truppe scelte).

L’occidente parla quasi soltanto della brutalità della repressione della rivolta stessa, pur ammettendo numerosissimi morti tra le forze dell’ordine del Paese. Pochi parlano del fatto che quasi la metà di tutto l’uranio estratto nel mondo venga proprio da lì (proprio mentre si torna a parlare del nucleare come nuova fonte di energia “pulita”). È inoltre piuttosto probabile perciò che, a seguito dell’appoggio dato dai Russi all’esercito locale, nuove sanzioni verranno inflitte alla Federazione Russa.

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Dunque a seguito del fallito colpo di stato afghano è probabile che si creeranno nuove frizioni con l’Occidente, che potrebbero a loro volta alimentarne altre, dal momento che Cina, Turchia e altre repubbliche asiatiche hanno già proposto di schierarsi a favore della Russia e comunque non resteranno a guardare lo sviluppo degli eventi senza fare nulla. Soprattutto sul fronte dei prezzi dell’energia da petrolio e gas, che rischiano di rincarare ancora nonostante lo sforzo dichiarato di migrare più velocemente possibile verso forme di energie da fonti alternative.

Occorre ricordare al riguardo che l’America non è il primo esportatore di gas e petrolio, ma ne è sicuramente il primo produttore e ne è comunque un esportatore netto a dosi crescenti. Dunque le sue èlites potrebbero avere grande convenienza nel rialzo del costo dell’energia. Con l’eccezione della Federazione Russa il resto del mondo invece lo subirebbe, con conseguenze anche sui profitti degli operatori economici.

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Andrebbe tutto bene dunque, ma soltanto sino a quando l’eventuale persistenza dell’inflazione dovesse arrivare a minare la fiducia degli operatori economici, invertendo la discesa della disoccupazione (arrivata negli U.S.A. ai minimi storici, come si può leggere dal grafico) e iniziando a rallentare gli investimenti in efficienza produttiva. Questi fattori potrebbero ridurre le attese di profitto delle principali società quotate e determinare nuovi ribassi.

MA LA GOLDMAN SACHS È PIÙ CHE OTTIMISTA!

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Tuttavia, nonostante il fatto che la persistenza dell’inflazione, il rialzo dei tassi d’interesse e le tensioni internazionali siano tutti fattori che dovrebbero spingere alla prudenza, la banca d’affari americana Goldman Sachs non ha dubbi: non soltanto le nuove tecnologie continueranno a stupirci e a far guadagnare bene le grandi multinazionali, ma c’è ancora tanta liquidità in circolazione. Liquidità che al momento si rivolge alla speculazione su materie prime, metalli e immobili, ma che alla fine tornerà di nuovo a far incrementare l’investimento in titoli azionari, perché, appunto, a questi ultimi non c’è quasi alternativa in termini di rapporto rischio/rendimento.

Difficile dargli torto: la liquidità oggi in circolazione è davvero alta e, prima dì irrorare la crescita dei prezzi al consumo, essa si intrattiene sui mercati finanziari, dove però l’alternativa “reddito fisso” è davvero povera di attrattiva. E nelle sue previsioni non manca di elogiare le borse europee, meno sbilanciate sui titoli ipertecnologici e le cui performances sono state oggettivamente in calo per anni rispetto a quelle della borsa americana, e dove Goldman Sachs vede dunque le migliori opportunità, come si può dedurre dal grafico qui riportato da Bloomberg:

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Luci ed ombre insomma, come sempre all’inizio di ogni anno, ma forse con un pizzico di ottimismo, pur tenendo conto della volatilità aggiuntiva e del maggior rischio di fondo.

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Lo spettacolo però -come sempre- deve andare avanti. E probabilmente ci andrà. Soprattutto sul fronte delle tecnologie (che però sono investimenti ad elevatissimo rischio), ma anche sui titoli finanziari e sui titoli energetici, dovunque insomma ci sono da attendersi migliori performances per gli anni a venire.

Dunque al momento un pizzico di ottimismo non deve guastare il gusto agrodolce del mercato! Quantomeno la parte di amaro riguarderà i grandi sommovimenti che è lecito attendersi dalla rotazione dei portafogli e dall’incremento della volatilità complessiva. Ma è altrettanto probabile che i profitti aziendali continueranno a correre e, con loro, una messe assai interessante di dividendi !

Stefano di Tommaso




PERCHÉ CONTE STRIZZA L’OCCHIO A XI JIMPING

Xi Jinping arriverà a Roma con 70 capi d’industria il 21 marzo per siglare un «memorandum d’intesa» con il nostro Paese basato sullo sviluppo dell’interscambio commerciale ed energetico insieme ai Paesi che hanno già aderito alla Belt&Road Initiative (BRI, la cosiddetta “Via della Seta”), un progetto più vasto del Piano Marshall. Difficile restarne indifferenti se si esaminano le opportunità che ne discendono, magari soltanto perché l’Unione Europea si indigna. L’Italia -che si trova su una delle direttrici più importanti della Via della Seta- ha molto da guadagnare da un accordo sullo sviluppo commerciale, anche più di quanto ne abbia la Cina, che ovviamente trova in noi il ventre molle dell’Unione Europea e del sistema industriale occidentale per poi sperare di proseguirne la penetrazione. L’interesse italiano si estende però a molti fronti: dal contrasto al progressivo declino degli scambi con il nord-Africa, al garantirsi nuove strade per l‘approvvigiona-mento di materie prime, fino a tessere nuove alleanze internazionali per non dipendere totalmente dall’Europa.

 



LA DELEGAZIONE CINESE

Tanto per evitare che qualcuno pensi che scherza, il presidente cinese Xi arriva in Italia con esponenti di alcune tra le più potenti imprese cinesi al mondo: dal presidente e vicepresidente di China Communications Construction Company (116mila dipendenti), al vicepresidente esecutivo di China Railway Construction, che gestisce l’alta velocità Pechino-Shanghai, al capo di Power Construction, il più grande costruttore di impianti idroelettrici insieme a Gezhouba Engineering. E ancora: accompagnano la delegazione il presidente di Dongfang Electric, Zou Lei, il capo di Citic Construction, gigante degli investimenti statali, il presidente di China Export&Credit Insurance Corp. (assicurazioni) Song Shuguang, insieme con cinque suoi alti dirigenti (ha già assicurato 130 progetti di investimento lungo la via della seta per un totale di 510 miliardi di dollari) insieme molti altri capitani d’impresa con gli occhi a mandorla, tutti interessati a stringere protocolli d’intesa con partners nostrani.

LO SCENARIO DI FONDO

Per contrastare lo scontatissimo rallentamento in atto della crescita economica cinese, il suo governo non poteva nemmeno pensare di restare con le mani in mano senza prendere iniziative quando ancora una parte significativa della popolazione del Paese rasenta ancora la linea della mera sussistenza. È per questo che Xi Jimping -fin da cinque anni fa, quando si è insediato- medita un nuovo e diverso paradigma del proprio sviluppo economico, questa volta basato su una rete di alleanze internazionali e sullo sfruttamento del gigantesco mercato dei consumi nazionali, sui quali corrono inevitabilmente gli appetiti di tutti gli altri paesi esportatori della terra.

Con grande lungimiranza i pianificatori dell’economia cinese hanno immaginato la realizzazione di una rete infrastrutturale di strade, ferrovie, porti e aeroporti, onde favorire e guadagnare dall’incremento dell’interscambio cinese con il resto del mondo, oggi ancora tutto sommato ridotto rispetto alla media dei Paesi più sviluppati. L’iniziativa ha perciò due risvolti interessanti: da un lato rappresenta una grossa spesa infrastrutturale alla quale parteciperanno anche i Paesi stranieri che ne saranno partners ma che genera un grosso indotto soprattutto sulle imprese cinesi. Questa spesa promette interessanti ritorni economici di lunghissimo periodo, perciò è di per sè idonea a contribuire al traino lo sviluppo economico interno. Dall’altro lato la BRI agevola lo sviluppo cinese sotto un fronte diverso da quello meramente industriale: un Paese evoluto deve infatti anche dotarsi di logistica, trasporti e accordi commerciali che gli permettono di non limitarsi a esportare manufatti al minimo costo, nonché di controllare fortemente lo sviluppo delle importazioni, agendo sulla manopola regolatrice di quegli accordi, Paese per Paese. Una strategia di commercio estero non troppo diversa, perciò, da quella che vuole mettere in atto Donald Trump oltreoceano.

PERCHÉ LA CINA NON POTEVA PROSEGUIRE SENZA LA “BRI”

Il paradigma di sviluppo economico degli anni passati -sul quale fino ad oggi si è basata quella crescita economica- era invece una miscela abbastanza confusionaria di Joint Ventures con imprese cinesi sussidiate dallo Stato per veicolare gli investimenti esteri (principalmente in siti produttivi), scarsa o nulla tutela dei marchi e dei brevetti per gli stranieri venuti a fare business nell’ex celeste impero e molte (o troppe) facilitazioni finanziarie per supportarli ulteriormente.

Non è un mistero per nessuno infatti che buona parte del prodotto interno lordo cinese sino ad oggi fosse basato su una componente percentualmente altissima (40%) di investimenti industriali, finanziati parzialmente dal sistema delle imprese pubbliche e da sussidi (al prezzo di importanti svalutazioni della divisa cinese) e per la restante parte, con crescenti quote di debito erogate da un sistema bancario soltanto parzialmente sotto il controllo centrale e perciò anche a forte rischio di collasso. La terza componente del finanziamento dello sviluppo industriale, quella dell’afflusso netto di capitali dall’estero, si è progressivamente ridotta al lumicino, anche per una certa saturazione del sistema industriale e per la progressiva ascesa dei minimi salariali.

I Cinesi vogliono perciò (a ragione) cambiare il proprio modello finanziario e di sostenibilità, anche sociale, dell’espansione economica di cui hanno bisogno, agendo il più possibile sulla geopolitica che corre lungo la Nuova Via della Seta (la BRI), inserendovi un membro dell’alleanza atlantica al centro del mediterraneo come è l’Italia, dotata di un sistema industriale con molto know-how e una finanza (relativamente ) evoluta. In più le imprese italiane porterebbe al gruppo di Paesi aderenti all’iniziativa Road&Belt i suoi standard occidentali di lavoro, contribuendo a migliorarne i sistemi.

Un recente rapporto di Euler Hermes conferma che sono già stati mobilitati investimenti per 400 miliardi di dollari in 5 anni e che è stimato un incremento di quasi 120 miliardi di dollari nel 2019 nell’interscambio tra la Cina e i Paesi coinvolti.

PERCHÉ ALL’ITALIA CONVIENE

Oggi in Cina vanno esportazioni italiane per un importo assai ridotto: circa 11 miliardi di euro, cioè il 2,8% del nostro totale, mentre quelle cinesi in Italia valgono più del doppio: oltre 27 miliardi di euro (ma per la Cina rappresentano solo l’1,3% delle esportazioni). Se l’accordo commerciale sarà equilibrato dunque all’Italia converrebbe molto svilupparlo, puntando al raddoppio del proprio export.

Senza considerare che le imprese italiane in vendita sono andate per la maggior parte in mano ai Francesi e ai Tedeschi, mentre il mercato dei capitali, principalmente anglosassone, è ancora poco sviluppato a Milano rispetto a Parigi e Francoforte. Se una politica di investimenti cinesi in Italia fosse parte di questo accordo, il nostro Paese avrebbe una leva in più per colmare il divario con il resto d’Europa. Oggi già più di 600 imprese italiane hanno come socio un partner cinese, per un totale di investimenti diretti in Italia di quasi 14 miliardi di euro negli ultimi vent’anni. Si va da casi eclatanti come la Pirelli fino a piccoli impiantisti e produttori meccanici. Gli enormi investimenti infrastrutturali che la BRI comporta vanno poi a nozze con la miriade di progettisti e costruttori italiani che potrebbero ritagliarsi una fetta della torta.

Inoltre la Cina si candida a divenire il partner principale negli scambi con l’Africa, un mercato di sbocco delle nostre esportazioni dal quale negli ultimi anni l’Italia è riuscita quasi a farsi buttare fuori (l’Egitto -oggi forse per noi il più importante partner africano- è già entrato a far parte della BRI). Infine gli altri Paesi che hanno già aderito alla BRI (la Georgia, l’Azerbaijan e il Kazakhstan) sono altrettanto interessanti per l’Italia quanto l’Egitto, ma soprattutto sono esportatori di derrate e materie prime che possono risultare strategici per l’Italia.

LE RESISTENZE DELL’UNIONE EUROPEA

Non potevano farsi attendere le rimostranze -per la massima parte interessate- degli altri Paesi dell’U.E. che vedono il sostegno dell’Italia alla BRI come una minaccia separatista alla politica di Bruxelles di negoziare unitariamente gli investimenti cinesi in Europa (di fatto come una parte del negoziato che sfuggirebbe al controllo della Commissione Europea).

La portavoce agli Affari Esteri della Commissione Maja Kocijancic ha dunque tuonato: “nè l’Unione nè alcuno degli Stati membri può raggiungere I suoi scopi con la Cina senza una piena unità”!

Le ha fatto eco però il ministro degli Esteri cinese Wang Yi: “l’Italia è un Paese indipendente e auspichiamo che possiate attenervi alla decisione presa in maniera indipendente”. Come dire: quando fa comodo all’Unione siete tutt’uno e quando no ci considerano una scheggia impazzita. Come ci insegna il Qohelet: “niente di nuovo sotto il sole”…

Stefano di Tommaso




GUERRE COMMERCIALI IMMAGINARIE

Ho appena letto l’articolo di Martin Wolf sul Financial Times di ieri (“TRUMP DICHIARA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA”) nel quale afferma che il Governo Americano è alternativamente matto o sfrontato nel richiedere alla Cina “concrete e verificabili azioni” per raggiungere risultati nelle seguenti direzioni (traduzione testuale):
•Ridurre lo squilibrio commerciale tra i due paesi di 100 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi e di altri 100 miliardi nei successivi 12 mesi

•Eliminare i sussidi di stato che distorcono la concorrenza delle imprese cinesi con quelle americane e conducono ad un eccesso di capacità produttiva delle prime

•Rafforzare la tutela in Cina della proprietà intellettuale straniera

•Eliminare l’obbligo delle imprese straniere di trasferire tecnologia alle imprese cinesi per ottenere il permesso di procedere a joint-ventures in Cina

•Cessare i cyber-attacchi alle imprese americane, il loro spionaggio, la contraffazione dei loro prodotti e la pirateria sui loro diritti

•Rispettare le leggi americane sul controllo delle esportazioni

•Ritirare la richiesta al WTO di imporre tasse sulla proprietà intellettuale straniera

•Cessare azioni di ulteriore rivalsa in risposta alle iniziative degli USA volte al riequilibrio dei rapporti commerciali e alla tutela della loro sicurezza militare

•Bilanciare in pari misura le restrizioni e le tariffe imposte agli scambi commerciali USA-CINA

•Permettere controlli sanitari e sulle condizioni umane di lavoro nelle imprese cinesi che vogliono esportare alimentari in USA.

Al di là della mia incondizionata condanna ai giornalisti ed intellettuali che ritengono di potersi permettere toni così dispregiativi delle istituzioni di paesi terzi che vantano governi davvero eletti democraticamente, ditemi Voi se le richieste di Trump, benché maledettamente dirette ed esplicite e dunque contrarie ai bizantinismi della diplomazia, possano risultare “ridicole” o “impossibili” !

 


A me viene da pensare il contrario e da rivolgere un applauso a chi ha avuto il coraggio di sfidare lo “status quo” e denunciare le disparità di trattamento che sembravano divenute normali sotto le precedenti amministrazioni governative americane.

Ma è chiaro che nel fare ciò, per qualche ineffabile motivo, il presidente americano ha contro l’intero establishment della stampa internazionale.

Il bello è che lo stesso autore sulla medesima testata afferma al termine dell’articolo che in effetti la Cina dovrebbe riconoscere di essere divenuta una superpotenza economica e militare e dovrebbe finalmente accettare i principi del diritto internazionale e quelli del libero commercio aprendosi ad una discussione franca e multilaterale sul commercio internazionale. Ma secondo il medesimo autore non dovrebbe essere l’America da sola e per prima che getta il sasso nello stagno bensì una commissione congiunta con l’Europa e il Giappone. Come dire che l’urgenza non esiste.

Difficile aggiungere commenti a quanto riportato senza rischiare di essere di parte. Basta solo leggere con autonomo giudizio quanto scritto dal medesimo defraudatore delle dignità altrui.

(le immagini riportate sono tratte dal medesimo articolo)

Stefano di Tommaso




IL PARTITO DELLA GUERRA

Dopo l’attacco alla Siria da parte delle forze congiunte di America Gran Bretagna e Francia, qualcosa di importante è cambiato -e in peggio- sullo scacchiere della geo-politica. Qualcuno parla di nuova guerra fredda, ma anche i tempi sono cambiati.

 

LA PROVOCAZIONE

Che sia vero o meno che il governo siriano volesse un attacco alla popolazione con armi chimico-biologiche a Duma (ed è fortemente discutibile che lo sia) oramai non è più così importante: quel che conta è che l’attacco alleato (piuttosto pesante e apparentemente assai inutile) è stato sferrato ugualmente, sfidando le ire di una Federazione Russa che aveva fatto sapere senza mezzi termini che difenderà il suo partner siriano addirittura colpendo le basi da cui sono partiti i missili.

E come se ciò non bastasse il governo americano ha deciso di infliggere alla Russia nuove sanzioni commerciali, che tra l’altro è vero che nuocciono soprattutto ai suoi alleati europei, ma alla lunga portano un danno non solo alla Russia, bensì anche a tutto l’Occidente, perché la obbligano a sostituire con i paesi del continente asiatico

i suoi partner commerciali europei. Non per niente la Germania si è voluta tenere fuori dall’iniziativa militare, ma è rimasta ugualmente colpita dalle sanzioni commerciali.

SPINGERE LA RUSSIA TRA LE BRACCIA DELLA CINA

Sembra al momento improbabile che la Russia reagirà alla tenaglia militare-commerciale. Se lo facesse trascinerebbe il mondo verso un forte rischio di terza guerra mondiale, ma questo non significa che non terrà conto dell’accaduto nelle sue alleanze internazionali (con la Cina, in particolare, oramai giudicata interlocutore altamente più affidabile dell’Occidente) e non è detto che gli attuali rapporti di forza (basati sulla supremazia della macchina militare della NATO), non possano presto arrivare a cambiare.

Spingere la politica estera della Russia ad abbracciare quella della Cina (riconosciuta dagli studiosi di relazioni internazionali come il vero problema dell’Occidente nel lungo termine) potrebbe sembrare una cosa semplicemente stupida, ma probabilmente è invece voluta ed anche assai folle, perché il rischio di spiazzamento dell’Occidente negli interscambi commerciali tra la nazione più ricca al mondo di risorse naturali e quella più popolosa e più dinamica nelle nuove tecnologie è elevato. L’unica vera contropartita di tale follia può essere l’allargamento delle occasioni per far nascere nuovi focolai di guerra.

Quel che sembra rispuntare vincente dalle ceneri della diplomazia in questi giorni è infatti il cosiddetto “partito della guerra”, cioè quella coalizione trasversale e ben occultata ai media di ogni parte del mondo costituita di produttori di armi, mercanti ed esportatori di materie prime, finanzieri d’assalto e lobbisti politici, uniti dal fatto che otterrebbero tutti dei grandi profitti dalla deflagrazione di nuovi conflitti e dalle spese straordinarie di cui essi necessiterebbero.

TRUMP È UN OSTACOLO

Nella stessa direzione va probabilmente l’attacco frontale al presidente Trump, reo di non essersi messo (completamente) a disposizione del partito della guerra, pur avendo ordinato egli stesso l’attacco siriano. Che i poteri forti vicini alla fondazione Clinton volessero farlo fuori è noto, ma è più probabile che l’interminabile processo giudiziario denominato “Russiagate” non abbia come obiettivo quello di dimostrare il suo connubio con Putin (impossibile, altrimenti le prove dopo un anno e mezzo sarebbero già saltate fuori), bensì quello più sottile di deterioramento della sua immagine sui media, per riuscire costringerlo -nel dubbio- a guerreggiare con quest’ultimo, anche per dimostrare la sua estraneità alle accuse.

Trump non è stupido e si rende perfettamente conto del pericolo di un conflitto allargato (a partire dagli effetti al rialzo che potrebbe avere sul prezzo del petrolio) e del fatto che ci sono dietro le quinte forti interessi economici in tal senso, ma resta tutto da vedere cosa possa farci per ostacolarne la possibilità.

Non per niente sulla vicenda della Corea del Nord Trump ha appena fortemente voluto e alla fine ottenuto una vittoria significativa proprio nel dialogo con la Cina (da sempre l’alleato occulto di Kim Yong Un), ed ha anche invitato Putin a sedersi ad un tavolo comune per evitare l’escalation militare.

Ma conciliare lo spirito patriottico (che ha sempre più necessità di dimostrare) con l’esigenza di ridurre le tensioni internazionali è un esercizio notoriamente assai difficile. E non è detto che gli porterà consenso aggiuntivo tra i suoi elettori alla prossima tornata…

Stefano di Tommaso