INFLAZIONE, COME NEGLI ANNI ‘70 ?

inflazione
All’arrivo dei vaccini quest’anno le economie di tutto il mondo hanno vissuto un momento di eccezionale ripresa economica, principalmente spinta dalla ripresa dei consumi e dalla necessità della gente di tornare ad una vita normale. Pochi mesi dopo il gran rimbalzo però c’è il rischio che il forte rincaro dei prezzi possa agire come una tassa occulta sui nuclei familiari spingendo l’andamento economico esattamente nella direzione opposta, verso cioè una contrazione. Anche i margini industriali sono sotto pressione perché spesso il forte rialzo dei costi non si riesce a trasferirlo sui prezzi di vendita. E le grandi multinazionali stanno rivedendo le loro filiere produttive localizzando gli acquisti e verticalizzando le produzioni.

 

È IL COSTO DELL’ENERGIA CHE PUÒ ACCENDERE LA MICCIA

In Europa la bolletta energetica (tutto compreso: dal riscaldamento agli elettrodomestici fino al costo dei carburanti per gli spostamenti) conta almeno per il 10% della spesa per consumi e le statistiche indicano che la crescita dei costi in questo ambito sta arrivando al 40% rispetto al periodo pandemico. Inutile aggiungere che essa rischia di trascinare verso l’alto i prezzi di buona parte degli altri beni di consumo, a partire dal cibo, fino a buona parte delle materie prime, danneggiando fortemente le filiere abituali di fornitura delle imprese manifatturiere.

Energy is expected to push up inflation

L’INDUSTRIA RIDUCE I VOLUMI PRODUTTIVI

L’aumento dei prezzi dei fattori e dei costi di produzione a sua volta sta spingendo le imprese (soprattutto le più grandi e più internazionalizzate) a rivedere fortemente la propria dipendenza dalle filiere “lunghe” cioè dal commercio internazionale, sia per la forte crescita dei prezzi di trasporto, che per la scarsa affidabilità che hanno mostrato in questi mesi di forte contrazione della disponibilità di componenti essenziali come ad esempio i semiconduttori. Anche perché oramai si teme che la scarsità delle forniture possa durare ancora per qualche annetto.

Backlogs soar at German carmakers

Le fabbriche asiatiche sono costipate di ordini ma la sensazione è quella che esse siano sempre meno interessate ad esportare ad occidente le proprie produzioni dal momento che la domanda locale è in crescita così come i prezzi di acquisto di materie prime e semilavorati. Se questo problema è valso durante l’estate quasi solo per l’industria automobilistica e quella aeronautica, già alla fine di Agosto esso si era esteso a buona parte del resto delle produzioni, generando rialzi dei costi di produzione che in molti casi le imprese non sono state in grado di riversare sui prezzi di vendita e soprattutto forti contrazioni nell’output produttivo.

COME NEGLI ANNI ‘70 ?

La scarsità dei beni che si riversano sul mercato è ovviamente sempre il primo fattore responsabile dei rialzi dei prezzi e, a guardare in prospettiva ciò che sta avvenendo, sembra proprio di essere tornati alla corsa all’accaparramento che si è vista all’inizio degli anni ‘70. E tutti sanno com’è finita: la spirale inflazionistica dei prezzi a due cifre che si è generata dopo un po’ di tempo in cui tutti pensavano che il rialzo fosse temporaneo ha sconvolto il mondo e ha creato problemi tanto ai mercati finanziari quanto ai cambi valute.

Consumer price index

Sebbene gli ultimi dati indichino qualche controtendenza negli Stati Uniti d’America, le cui imprese sono state anche le prime a soffrire di questi problemi, bisogna tener conto del fatto che il continente europeo è molto più esposto di quello americano alle importazioni dal sud-est asiatico ed è molto più dipendente dalle importazioni di quanto lo sia l’America.

IL PESSIMISMO AUMENTA TRA GLI INDUSTRIALI

Tanto che una recente pubblicazione di Bank of America indica tra i fattori di pessimismo per l’economia più l’inflazione che la ripresa della variante Delta del Covid-19. In America poi a scendere sono stati quasi solo i prezzi dei beni e servizi che hanno vissuto più intensamente la ripreso dopo la fine del lockdown, come i ristoranti e i biglietti aerei, ad esempio. I nuovi contagi dovuti alla variante delta hanno di nuovo calmierato quei consumi, ma gli altri prezzi hanno registrato un’ulteriore accelerazione, per cui è legittimo supporre che, quando l’attuale ultima ondata pandemica si sarà esaurita, l’inflazione riprenderà a crescere.

European future gas prices are soaring

E LE TASSE POTREBBERO ADDIRITTURA SALIRE

Il problema è così grande che anche i governi di quasi tutto il mondo si stanno muovendo, nella consapevolezza del fatto che la situazione può peggiorare bruscamente con l’arrivo di un possibile inverno freddo. Si sta pensando a sgravi fiscali e alla possibilità di controbilanciare i timori diffusi con nuove misure fiscali espansive che, se da un lato possono favorire gli investimenti e contribuire a migliorare la fiducia delle imprese, dall’altro lato gettano ulteriori timori circa l’acuirsi dell’inflazione e circa il rischio che il prelievo fiscale possa incrementare ulteriormente nei prossimi mesi per effetto degli interventi governativi. E nel nostro Paese che già ha superato ogni record sarebbe una vera iattura!

European OECD Country Rankings

Il momento magico della ripresa economica sembra insomma essersi esaurito fin troppo velocemente, lasciando il campo alla sensazione che si sia innescato quest’anno il medesimo movimento infernale che ha portato -cinquant’anni fa- al primo importante shock petrolifero globale e all’incapacità da parte delle autorità monetarie, di arginare l’inflazione dilagante.

DI NUOVO TROPPO OTTIMISMO SUI MERCATI

Inutile dire quello che sappiamo già: che i mercati finanziari probabilmente anticiperanno tutto ciò con molto disordine sui listini delle borse e una spiccata ripresa della volatilità complessiva, nonché degli ovvi possibili rialzi dei tassi d’interesse. Correzioni in vista dunque? È assai probabile, sebbene il peggiorare delle condizioni economiche globali possa indurre le banche centrali a continuare a pompare liquidità sui mercati, quantomeno per acquistare titoli del debito pubblico. È su questa base che sino ad oggi c’è stato fin troppo ottimismo, come si può leggere dal grafico riportato:

bearishness

L’effetto di questi interventi però sino ad oggi ha tenuto alto il livello delle quotazioni borsistiche, ed è possibile che questa tendenza non sia affatto esaurita. È ciò che spinge alla prudenza i gestori dei patrimoni in questi giorni, nel timore di fare qualcosa che potrà rivelarsi stupido nel giro di poco tempo, andando a intaccare la bella performance sul valore dei portafogli, accumulata nei primi trimestri di quest’anno.

SCENDERANNO I MARGINI INDUSTRIALI ?

Ma è l’altro timore quello che può giocare un brutto scherzo alle borse: il rischio che i maggiori costi possano provocare una clamorosa riduzione nei margini di profitto delle imprese (sui quali si basano le valutazioni aziendali). Il grafico qui sotto riportato (pubblicato da Bank of America) mostra i risultati di un recente sondaggio tra i gestori di fondi di investimento, e parla fin troppo chiaramente.

Margins expected to worsen

E per quanto anche questo rischio del calo dei margini industriali e di conseguenza dei profitti netti attesi sia ancora prevalentemente percepito come temporaneo e passeggero, qualche riduzione della fiducia dei mercati può provocarla ugualmente, oltre a quella sensazione di amaro in bocca che lasciano le numerose analogie con quanto già avvenuto negli anni settanta, in cui ci vollero un paio d’anni per comprendere che la fiammata inflazionistica non era più da considerarsi “temporanea”.

Stefano di Tommaso




MAL D’EUROPA

E Una serie di annunci importanti stanno arrivando tra le aziende italiane, guarda caso subito dopo oppure a ridosso delle votazioni per il parlamento europeo. Mi riferisco al momento al secondo fallimento di Mercatone Uno e all’annuncio della fusione di Fiat con Renault (che in realtà è una cessione a termine) . Ma ci potrei scommettere che molti altri ne arriveranno a breve, fra i quali mi aspetto che prenda piede l’avvio ufficiale delle trattative per la fusione tra UniCredit e Commerzbank come pure l’ennesima ristrutturazione di Alitalia. Il fil rouge che li collega è in ciascun caso il licenziamento -più o meno forzoso- di parte del personale dipendente, a causa dell’esigenza delle imprese di ristrutturare il business e cercare maggior efficienza.

 

PRIMA ARRIVANO LE FUSIONI AZIENDALI

Proviamo a scendere nei dettagli: sino a ieri la famiglia Agnelli-Elkahn che controlla la Fiat-Chrisler non aveva mai confermato l’ipotesi di avvicinamento ad altri gruppi, in particolare francesi (era in predicato anche la Peugeot-Citroen) anche perché lo capiscono anche i bambini che -se il valore aziendale che FCA esprime sta quasi esclusivamente nella componente americana del gruppo- è chiaro che chiunque si avvicinerà lo farà per prendersi quest’ultima, pagando il fio allo stesso tempo di ridimensionare gli stabilimenti che stanno nel resto del mondo e in particolare quelli storici italiani. A maggior ragione se a farlo sono i francesi, noti campanilisti, i quali hanno probabilmente anche loro degli esuberi in patria.

Ai sindacati italiani non resterà che fare un po’ di baccano, mostrare “ugualmente” che s’indignano e s’impegnano (citando la canzone “Don Raffaè” scritta da Mauro Pagani per Fabrizio De Andrè) per poi gettare la spugna, dal momento che è altrettanto noto che l’alternativa alle ristrutturazioni d’azienda è la loro chiusura. Un’alternativa non praticabile per i sindacalisti.

POI ARRIVANO I TAGLI

Perché però tutto ciò arriva soltanto dopo le votazioni? Perché certi temi scottanti come quello dei licenziamenti in campagna elettorale era forse meglio per tutti lasciarli indietro, soprattutto per coloro che ancora tifano a tutta voce per l’attuale modello di Europa unita, che avevano perso sì già una volta le elezioni (e questa è la seconda) ma che possono vantare ancora il controllo da parte dei loro militanti di quasi tutte le istituzioni italiane e gli enti pubblici (ministeri compresi), nonché il controllo di buona parte degli organi di informazione e sinanco del Quirinale, istituzione che giocherebbe la parte del leone in caso di crisi di governo. Il ribaltone delle due votazioni recenti perciò non ha fino ad oggi modificato più di tanto l’assetto di potere reale nel Bel Paese.

UN’EUROPA SPACCATA IN DUE

E a livello europeo le cose non vanno troppo diversamente: la Germania ha visto i partiti dell’attuale compagine governativa (quella che esprime i membri della Commissione Europea) prendersi una sonora sberla mentre addirittura in Francia (sua storica alleata) dopo settimane di protesta dei “gilet gialli” il partito di governo è andato sotto e il fronte anti-globalista per eccellenza (quello della LePen) ha trionfato. Stessa storia per la Gran Bretagna, dove il partito che più ha desiderato l’uscita dall’Europa unita, quello di Boris Johnson ha stravinto ancora, lasciando al lumicino le residue speranze di un nuovo referendum per la Brexit. Ha stravinto anche Orban in Ungheria che ha detto da tempo a tutti -senza mezzi termini- cosa ne pensava di quest’Unione Europea.


Ciò nonostante le elezioni che si sono appena svolte non cambieranno di molto il governo della nuova Europa, dal momento che i partiti che ne esprimevano la maggioranza hanno ottenuto una lieve prevalenza su quelli che ne prefiguravano un orientamento di forte cambiamento. M questo non fa che complicare le cose, dal momento che un’Europa che non cambia risulterà forse peggiore di una ingovernabile.

MA IL RESTO DEL MONDO CORRE

Del resto a livello globale si vede chiaramente un mondo a due velocità: quella dei Paesi che sono riusciti ad esprimere più elasticità nelle riforme fiscali e per il lavoro (come Stati Uniti e Asia) e che crescono a un ritmo più consistente di quelli che non lo hanno fatto, esprimono una lieve inflazione dei prezzi e mostrano tassi di interesse regali lievemente positivi. L’Europa esprime invece una divisa comune in declino costante (è chiaro a tutti che stiamo andando verso la parità contro Dollaro) con tassi d’interesse (non solo reali) negativi e un rischio concreto di deflazione monetaria, che avrebbe l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura industriale scoraggiandone gli investimenti in innovazione e efficientamento.


LA DIGITALIZZAZIONE NON CI AIUTA

La crescente digitalizzazione poi rischia di sferrare il colpo di grazia all’industria tradizionale, favorendo i “vendor” dei prodotti tecnologici che oggi si vendono di più anche se essi si trovano all’altro capo del mondo, a scapito di quelli locali. D’altra parte l’Europa attuale investe poco sui giovani e sulle loro Start-up (in particolare l’Italia) e li lascia fuggire altrove, favorendo indirettamente l’invecchiamento della popolazione stanziale e dovendosi confrontare con l’insostenibilità della previdenza sociale. La risposta immigrazionista a questo problema poi lascia tutti con la bocca amara, perché chi arriva dall’Africa è assai poco attrezzato a sostenere il confronto tecnologico con l’elevata preparazione delle giovani generazioni asiatiche o anglosassoni. In una parola i giovani africani saranno (forse) una risorsa soltanto nel lungo termine!

I CAPITALI FUGGONO DAGLI SCONTRI POLITICI

Qualcuno si chiederà cosa c’entra quanto scritto sin’ora con il risultato delle elezioni europee ma la risposta è presto data: l’Unione Europea deve riuscire a cambiare e la sua vecchia classe dirigente se n’è invece guardata bene, tornando piuttosto a imporre temi di austerity e normative sempre più soffocanti. Così la nuova classe dirigente, che purtroppo rischia di essere troppo simile alla vecchia, temo continuerà acuendo lo scontro con gli Stati periferici (come il nostro) che sono i meno interessati a proseguire sulla vecchia strada e che guarda caso oggi esprimono più di altri il cambiamento negli orientamenti elettorali. Si preannuncia perciò una guerra di trincea destinata a durare a lungo, e che l’intero vecchio continente rischia di pagare caro, perdendo tempo prezioso nella corsa verso il rinnovamento.

I mercati finanziari annusano tutto questo e di conseguenza frenano sull’Europa, fuggendo verso altre destinazioni geografiche per allocare le loro ricchezze o verso i beni rifugio. Così anche le borse valori continentali (che esprimono soprattutto industria e banche, e ben poche aziende tecnologiche) arrancano di conseguenza. È vero che le industrie tradizionali possono risultare ottimi investimenti anticiclici in prossimità di un‘inversione del ciclo economico globale. Ma difficilmente esse arricchiranno chi ci investe: al massimo conserveranno il valore.

E IL GOVERNO RESTA UN’INCOGNITA

In Italia -teoricamente- il governo salta fuori rafforzato dai risultati delle consultazioni. E con l’elettorato che ha gli fornito una chiara indicazione di ciò che gradisce e di ciò che ha apprezzato meno. Ma di fatto il cambio dei rapporti di forza tra i due partiti di governo potrebbe determinare nuove frizioni nel Consiglio dei Ministri e la possibilità di una crisi politica resta concreta. Dunque nessuno è tranquillo e nessun imprenditore è davvero felice. A meno che l’accordo per proseguire sulla strada delle riforme partorisca nuove interessanti iniziative di stimolo all’economia e che queste ultime non vengano soffocate sul nascere dalla classe dirigente europea. Ma i “conservatori” restano in lieve maggioranza ed è difficile sperare in un loro ripensamento.

Staremo a vedere, col fiato sospeso!

Stefano di Tommaso




ECONOMIA ITALIANA: BUONE NUOVE

E chi l’avrebbe mai detto che nel 2019 il nostro Paese sarebbe divenuto la locomotiva industriale d’Europa? Eppure questo è ciò che emerge dai dati registrati dalle statistiche a gennaio e febbraio, con EuroStat che calcola la crescita della produzione industriale rispettivamente dell’1,9% e dello 0,8% mentre la Germania negli stessi mesi sarebbe scesa dello 0,8% a Gennaio per poi risalire dello 0,7% a Febbraio.

 



EURO TIRAMISÙ

Con questi numeri l’Italia trainerebbe l’aumento della produzione industriale europea con un contributo del 36% sul totale, seguita da: Francia (32%), Spagna (18%), Irlanda (17%) e Olanda (14%), mentre la Germania sarebbe stata la peggiore contributrice con il -21%, tenendo conto del peso di ogni stato sul prodotto totale dell’area Euro.



IN ITALIA L’AUTO CONTA SEMPRE MENO

C’è anche chi maligna (politicamente) facendo notare che il merito è per buona parte da ascriversi al ritardo del nostro Paese nel riprendersi dalla crisi dell’ultimo decennio, visto che dal 2007 la produzione industriale italiana risulta scesa del 17% mentre quella tedesca è cresciuta del 7%, ma le vere motivazioni della miglior performance della Penisola a Gennaio e Febbraio riguarda probabilmente la minor dipendenza dell’Italia dal settore automotive (produzione di veicoli e loro componenti e accessori), che nei medesimi due mesi da noi è sceso di quasi il 14% mentre in Germania molto di più (è circolata una stima che parla di -39%).


Ad oggi dunque la dinamica della produzione industriale del nostro Paese su base annuale raggiungerebbe nel 2019 un +0,9% (guarda caso lo stesso numero previsto per il Prodotto Interno Lordo (P.I.L.) dal ministero dell’economia prima che l’ennesima bordata della Commissione Europea gli chiedesse a gran voce di rivederlo allo 0,2% nel Documento di Economia e Finanza -DEF). Le previsioni di Barclays per il P.I.L. vede dopo un primo trimestre piatto, il +0,1% nel secondo trimestre e il +0,2% nel terzo e nel quarto. Stime che probabilmente verranno invece riviste decisamente al rialzo.

I MERCATI FINANZIARI NE TENGONO CONTO

Forse è anche per questo che l’andamento dello spreadtra i nostri BTP decennali e i Bund di pari durata è in miglioramento dall’inizio dell’anno:


Se non fosse che l’andamento del più importante indice di fiducia finanziario viene ampiamente sostenuto dal forte impegno profuso dalla Banca Centrale Europea nell’immettere forte liquidità nel sistema, come si può vedere dal seguente grafico riassuntivo:


Secondo Prometeia il primo trimestre 2019 si chiuderebbe con la crescita della produzione industriale dell’1,5% sul trimestre precedente, mentre Il secondo trimestre vedrebbe un misero +0,1% . Secondo l’Istat l’andamento tendenziale annuo rispetto a febbraio 2018 mostra un buon risultato per i beni di consumo (+4,7% su base annua) e dei beni strumentali (+1,5% sull’anno). Le migliori variazioni tendenziali riguardano l’industria tessile (abbigliamento, pelli e accessori +11,7%), i prodotti farmaceutici(+5,3%) nonché elettronica, ottica, elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (nel complesso +4,4%). Scende la produzione di prodotti petroliferi e di carbone (-13,9%), quella del legno, della carta e degli stampati (-5,4%) la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-2,8%).

RECESSIONE IMPROBABILE, MA LA FRANCIA CI HA SUPERATO

Si rende perciò assai improbabile la temuta entrata in recessione del nostro Paese e soprattutto si vede in generale una decisa concordanza andamentale con i dati espressi dagli altri membri dell’Unione Europea, in particolare dalla Francia, al medesimo tempo il nostro peggior rivale politico e industriale ma anche il più simile a noi. A questo proposito vale la pena di citare il sorpasso della Francia sull’Italia per quanto riguarda la produzione industriale, come risulterebbe da una prima statistica fatta circolare nei giorni scorsi da EuroStat (a sinistra il valore della produzione e a destra quello delle vendite):


Ma in realtà quel sorpasso è avvenuto da tempo, quando buona parte delle produzioni industriali di punta del nostro Paese sono state acquisite proprio da aziende francesi, dalla Parmalat alla Loro Piana, da Bulgari a Brioni e via dicendo. La produzione industriale dell’Italia è chiaramente discesa oggi al terzo posto tra le manifatture europee, più esattamente è meno della metà di quella della Germania e circa il 10% al di sotto di quella della Francia.

Stefano di Tommaso

 




LA DERIVA DELL’AUTOMOTIVE

Se c’è un settore industriale che va veramente male nel mondo è quello dell’industria automobilistica. A scriverlo non è soltanto il sottoscritto ma anche l’intero mainstream globale (la “cupola” delle testate giornalistiche e televisive che prevale nella pubblica informazione). Non soltanto perché il settore è rimasto troppo a lungo ancorato alle tecnologie tradizionali e oggi deve recuperare più velocemente possibile il divario accumulato, ma anche e soprattutto perché -nel frattempo- le vendite ristagnano e le manutenzioni programmate non sempre vengono effettuate, anche a causa di un eccesso di regolamentazione stradale e cittadina (in tutto il mondo) che di fatto ne scoraggia l’utilizzo.

 

NON È PIÙ TEMPO DI NICCHIE

La certificazione della disfatta l’ha firmata negli ultimi mesi la Germania, capace di realizzare ottime vetture e di organizzarsi egregiamente di conseguenza, ma impossibilitata ad arginare la deriva in corso. Ovviamente esistono importanti eccezioni a tale deriva, a partire dai segmenti del lusso e della tradizione (come ad esempio la Ferrari, i cui conti non sono mai stati così buoni), ma per gli osservatori è solo questione di tempo e poi anche le nicchie più profittevoli e prestigiose del mercato dovranno confrontarsi con il mondo che cambia. È noto a tutti che persino la Ferrari sta sfornando le prime auto elettriche.

Le magre aspettative dell’industria automobilistica tradizionale inoltre si confrontano con più di un dilemma pratico: “conviene” buttarsi pesantemente nelle innovazioni tecnologiche ai colossi del settore che rischiano di non recuperare mai gli investimenti necessari (a causa della penuria di vendite), oppure conviene prima concentrare il settore in poche, fortissime mani, per poi trovare (nel tempo) una vera convenienza nell’investirci sopra pesantemente? Ma anche così facendo, chi garantirà i colossi del settore del fatto che essi non saranno minacciati da nuovi entranti sul mercato, privi dei costi e dei pesi occupazionali degli operatori “incumbent” (già esistenti)?

IL DOMINIO DELLE “INCUMBENT”

Si potrebbe rispondere “è il capitalismo, bello mio”, ma in questo caso è un po’ come per il settore bancario: le normative riguardanti la sicurezza, le conseguenti certificazioni e le tematiche politiche e sindacali che vi sono dietro appaiono così complesse che -di fatto- ci sono molti modi per scoraggiare l’ingresso sul mercato dei nuovi entranti, sebbene il loro arrivo non farebbe che l’interesse dei consumatori. E così fino ad oggi è successo, con il risultato però di danneggiare fortemente l’intero settore industriale, oggi incapace di trovare al suo interno nuovo dinamismo se non guardandosi addosso e cercando di tessere alleanze e matrimoni per razionalizzare i costi, chiudendo uno stabilimento dopo l’altro nel mondo (molti dei quali nei paesi emergenti), per accorciare la filiera.

Ma i recenti sviluppi del mercato hanno dimostrato che è soprattutto alle innovazioni che la clientela guarda, privilegiando nuove tipologie di trasporto, nuove tecnologie di guida e nuove modalità di possesso degli autoveicoli, ben al di là della tematica dei costi, che si confrontano soprattutto con l’orizzonte di ammortamento dei veicoli (e che perciò divengono meno rilevanti quando tale orizzonte si allontana nel tempo).

IL DILEMMA EUROPEO

È questa una deriva dove divengono assoluti protagonisti gli operatori dove i mercati di sbocco ristagnano meno e dove l’innovazione è stata perseguita con maggiore assiduità: quelli asiatici ovviamente, Cina e Giappone in testa. Ai colossi euro-americani (come Fiat-Chrysler, Daimler Benz, General Motors eccetera) non resta che cercare di “tenere botta” sui mercati domestici, anche con un più attento controllo della filiera distributiva, ma la demografia gioca chiaramente a loro sfavore: i grandi numeri sono altrove.

Ecco allora che, soprattutto in Europa, culla natale dell’industria automobilistica e oggi quella con i più seri problemi di sovraproduzione di vetture tradizionali, ma anche sede delle più importanti società che producono componentistica di alta qualità per tutto il mondo, il settore si frammenta verticalmente (la Fiat vende Magneti Marelli, a un gruppo giapponese peraltro) e i ”brand” tradizionali cercano alleanze di ogni genere per uscire dalla trappola mortale.

PERCHÉ IL MATRIMONIO FCA-PSA S’AVREBBE DA FARE

E’ in questo contesto che apparebbe una facile previsione il possibile matrimonio tra FCA e PSA (Peugeot Citroen) che porterebbe più forza in Europa ad un operatore che oramai non riesce più a fare grandi numeri in Africa e Medio Oriente come faceva in passato e la forte presenza americana del gruppo Chrysler-Jeep che oramai per FCA conta per oltre il 90% dei profitti. La previsione sarebbe facile se non fosse altrettanto chiaro a tutti che non basta più il limitarsi unire le forze per riuscire ad essere competitivi se il prodotto sfornato è obsoleto. Ed è proprio per questo che i due grandi ci stanno riflettendo a lungo. Forse anche troppo a lungo…

Stefano di Tommaso