IL CICLO ECONOMICO SI INDEBOLISCE

Una rondine, si dice, non fa primavera. Il calendario però, per quanto possa non corrispondere esattamente al tempo meteorologico, alla fine non è mai smentito. Parallelamente, è sempre un esercizio difficile tradurre in previsioni univoche i segnali che arrivano dai vari quadranti del cruscotto dell’economista, però due fattori possono aiutare in tal senso: il calendario, che ci dice che il ciclo economico sta durando fin troppo rispetto a quelli che lo hanno preceduto, e il fatto che le rondini in circolazione (i segnali di allarme) iniziano a moltiplicarsi.

 

Eppure l’ottimismo che emana dal recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale sullo stato di salute dell’economia mondiale non può essere del tutto ignorato. Sono passati soltanto due anni da quando la crescita del prodotto interno lordo dei paesi emergenti (e di quelli più malmessi, come il nostro) ha finalmente iniziato a sincronizzarsi con quella delle economie più sviluppate. Questa congiuntura ha generato una delle maggiori espansioni dell’economia globale che si ricordi da un decennio a questa parte (circa il 4% nel 2017, a seconda che la si calcoli in dollari o in altra valuta) e, sebbene per molti versi sia in attenuazione, il fenomeno è ancora in atto.


Addirittura l’anno in corso potrebbe riservare ancora sorprese positive dal momento che il commercio internazionale, nonostante le tariffe e le minaccealla pace nel mondo, sta ancora crescendo. Tuttavia diversi elementi ci dicono inequivocabilmente che il clima economico generale è sta mutando in peggio. Nel grafico che segue si vede come la flessione della crescita del prodotto interno lordo, misurata per trimestri, è più accentuata in America e in Giappone, ma c’è anche per l’Europa:


Nel mese di Aprile inoltre le divise monetarie battute da diverse economie emergenti hanno subito importanti svalutazioni nei confronti del Dollaro (che si è apprezzato un po’ ovunque): il rublo della Federazione Russa è sceso di circa il 10%, il Real brasiliano di quasi il 6%, il Rand del Sud Africa di oltre il 5% e il Peso messicano del 3%. Di seguito una panoramica del cambio contro Dollaro di Euro, Yen, Sterlina e Dollaro Canadese:


Nello scorso mese di Aprile l’inflazione -pur sempre assai moderata- sembra aver superato il 2% negli Stati Uniti d’America, dove non passa giorno che la Federal Reserve non ne verifichi il livello per decidere sulla risalita dei tassi di interesse. In Europa l’inflazione è in media decisamente più bassa, ma bisogna ricordare che gli stimoli monetari europei, oltre che ancora in essere, sono anche molto più recenti. Dunque è più indietro anche il ciclo del credito.

Proprio dalla zona geografica che ha adottato l’Euro quale divisa unica tuttavia arrivano i segnali più preoccupanti di rallentamento dello sviluppo, e questo mentre è ancora in pieno corso il programma di Quantitative Easing (l’immissione di liquidità sui mercati finanziari attraverso acquisti di titoli di stato sul mercato aperto) della Banca centrale europea.

Perciò, se potrebbe essere presto per affermare che nella prima parte dell’anno la crescita economica europea sia rallentata per fattori non momentanei, il quadro diviene invece più preoccupante osservando gli indicatori di fiducia come l’IFO degli operatori economici tedeschi, sceso per la quinta mensilità consecutiva e giunto a 102.1 punti ad Aprile dai 103.3 punti di Marzo. Analoghe discese degli indici di fiducia si sono registrate in Francia e Italia.


Quel che sembra venire meno in questi giorni da parte degli operatori economici è dunque la speranza che lo sviluppo degli investimenti e la crescita dei consumi continuino anche oltre gli orizzonti dell’attuale politica di stimoli monetari (che potrebbero terminare presto), mentre l’incertezza politica dell’Unione non demorde e le vendite al dettaglio non brillano.

Di seguito alcuni indicatori: il primo che misura il livello di “sorprese” nella pubblicazione dei dati statistici per l’ Euro-Zona, raffrontato all’andamento della moneta unica (discesa meno che proporzionalmente)


Il secondo invece mostra come si sono evolute -mese per mese- le principali “preoccupazioni” da parte degli operatori economici europei:


Come si può vedere, lo scorso Aprile la principale preoccupazione che si è registrata riguarda il timore di un “fallimento“ della politica europea di stimolo monetario nel riuscire a dare slancio agli investimenti e dunque nel riaccendere i motori fisiologici dello sviluppo.

Se questo è il panorama dei paesi OCSE tuttavia bisogna pur tenere presente che l’economia asiatica (Giappone escluso) macina invece molte più vittorie ed è la maggior causa della risalita del prezzo del petrolio. Ciò fa ancora ben sperare per le esportazioni dell’Occidente e di conseguenza ancora per l’evoluzione positiva dei profitti aziendali (fattore positivo per le borse, soprattutto quelle europee). Ma è difficile prevedere cosa può accadere alle borse, per una molteplicità di fattori: il QE europeo innanzitutto, che ancora immette liquidità al ritmo di €30 miliardi al mese e, oltre a finanziare le borse continentali, continua -insieme a quello della Banca Centrale Giapponese- a controbilanciare la riduzione della liquidità (“Taper Tantrum”) operata dalla Federal Reserve americana. La forte generazione di cassa delle grandi imprese multinazionali inoltre, e lo smisurato avanzo commerciale cinese, buona parte della cui liquidità viene reinvestita sul mercato americano, contribuiscono a sostenere il Dollaro.


Ciò nonostante (come si vede dal grafico) è dall’inizio del 2018 che la borsa americana ha fortemente incrementato la sua volatilità e, mediamente, ha vissuto un ridimensionamento delle sue quotazioni. Se questo è il clima generale, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere man mano che i tassi di interesse continueranno a salire e che la Banca Centrale Europea inizierà a ridurre i suoi acquisti di titoli. Per contrastare le vendite sarà difficile che basteranno la crescita dei profitti e una nuova stagione di “buy-back” (acquisto di azioni proprie) da parte delle maggiori corporations.

Se perciò non è ancora arrivato il momento di parlare dell’arrivo di una vera e propria recessione (almeno fino a fine anno e fino a quando l’economia dei paesi asiatici correrà così forte) è sicuramente arrivato il tempo di parepararsi con attenzione alla graduale inversione del ciclo economico. Nel grafico finale si può vedere il rallentamento generalizzato della crescita economica per ciascun trimestre, fino al 31 Marzo di America, Francia, Gran Bretagna e Spagna:§


Stefano di Tommaso




AMAZON FA SOLDI CON IL WEB (E NON CON L’E-COMMERCE)

Dopo tutto il polverone sollevato dallo scandalo Facebook sui cosiddetti titoli “tecnologici” (i cui ricavi appaiono fortemente legati all’uso di internet), sembrava segnato il destino delle spropositate valutazioni che il mercato finanziario ha loro sinora attribuito. E invece no. Amazon mostra da inizio 2018 un progresso superiore al 30%!

 


Mostrando i suoi risultati trimestrali infatti Amazon ha battuto ogni aspettativa degli analisti rivelando numeri mai così buoni in precedenza e progressi tali da riuscire a rafforzare del 7% la sua capitalizzazione già elevatissima. Ma anche il fatto che il 10% del suo fatturato e buona parte dei suoi margini provengono dai servizi di rete e dalla pubblicità su Internet.

Per intenderci sul concetto di valutazione elevatissima del titolo, ricordiamoci che Amazon capitalizza in borsa oltre 4 volte il suo fatturato, oltre 26 volte il suo patrimonio netto e oltre 240 volte i suoi profitti, mentre brucia cassa netta tendenziale per circa 12 miliardi di dollari (3 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre). Non esattamente quella che si dice una valutazione prudenziale!

Tutti i giornali riportano oggi i numeri roboanti di Amazon e pertanto vorrei evitare di annoiare i miei lettori facendolo anch’io: di seguito ho raccolto solo un paio delle diapositive che sono state proiettate alla presentazione, nelle quali si vede sì quasi un raddoppio nel reddito operativo, ma anche un flusso di cassa netto che, in funzione della crescita roboante di capitale circolante e investimenti, si è rivelato invece incrementalmente negativo a partire da metà 2017 sino ad oggi.

 

 

Eppure si deve ammettere che la gestione del colosso mondiale del commercio elettronico si è rivelata oculata, che ha battuto ogni attesa degli analisti -in particolare riguardo al numero di iscritti ai suoi servizi “Amazon Prime”: ben 100 milioni di individui, quasi due volte la popolazione italiana- e soprattutto per due elementi che hanno ricollegato più decisamente al rapporto con internet la vera natura del suo business:

  1. Amazon è riuscita ad incrementare a oltre 8 miliardi di dollari annui suoi introiti pubblicitari tendenziali del 2018, quella stessa categoria di entrate che ha letteralmente crocifisso le sue cugine più strette, come Google e Facebook, finite sotto inchiesta per uso improprio delle informazioni personali raccolte dai loro utenti. Questi introiti costituiscono il 4% circa del fatturato e sono più che raddoppiati rispetto allo scorso anno;
  2. Il 5 e mezzo per cento del suo fatturato e ben tre quarti del reddito operativo provengono dagli incassi per i servizi di rete (“Amazon Web Services”) e non dal commercio elettronico!


In pratica Amazon trae quasi il 10% dei suoi ricavi e forse quattro quinti del suo reddito operativo (il dettaglio non mi è noto) da attività di rete non troppo diverse da quelle di Netflix, Google, Facebook e Microsoft.

Il concetto è importante per cogliere la vera natura di Amazon ed è confermato dal confronto tra I multipli di mercato di Amazon e quelli degli altri operatori, tanto nel commercio quanto nei servizi di rete:Come si vede quasi tutti gli altri operatori attivi nella distribuzione di prodotti mostrano moltiplicatori pari a un decimo di quelli di Amazon e Netflix. Cioè questi ultimi sono ancora una volta basati sulle più rosee aspettative. Se si cercava una prova del fatto che il mercato è ancora sopravvalutato eccone trovate due. Evidentemente la liquidità in circolazione è ancora tanta…

Stefano di Tommaso 




IL CARO-PETROLIO PUÒ TRAINARE L’INFLAZIONE

Mentre le economie più avanzate del mondo (e in particolare in America e Asia) ancora gongolano nel godersi i benéfici effetti di uno dei più lunghi e meglio sincronizzati cicli economici positivi di tutta la storia economica (tassi di interesse ancora bassi, profitti industriali alle stelle, commercio internazionale in ascesa, investimenti infrastrutturali di ogni genere allo studio…) i prezzi delle materie prime vanno alle stelle (in special modo petrolio e gas) perché risentono della maggior domanda mondiale.

 

Non c’è molto da stupirsene se non fosse che l’anomalía era stata casomai la loro mancata crescita sino a ieri.

Il fatto è che la ripresa economica in corso non è neanch’essa priva di stranezze, dal momento che la ripresa è stata registrata nelle statistiche ma, per molti motivi (vedi un mio precedente articolo : “amazzonizzazione dell’economia”) non ha generato un’effettiva maggior capacità di spesa degli individui, e non solo nella periferia Europea dove noi viviamo, bensì un po’ dappertutto, a partire dall’America di Donald Trump (che si preoccupa di riportare entro i confini il denaro delle multinazionali perché investano a casa loro e qualche briciola di quel denaro arrivi anche agli operai del mid-west e alle piccole imprese), fino ai paesi del sud-est asiatico che pullula di fervore e sembra essere il crogiolo dell’umanità dei prossimi decenni.

Inoltre la prospettiva di ulteriori tensioni commerciali (se non vere e proprie guerre delle tariffe doganali) ha inoltre aiutato la ripresa dei costi (e quindi anche dei prezzi) di talune materie prime, dando ulteriore fiato ai timori di fiammate inflazionistiche che, tuttavia, fino a ieri non si erano ancora manifestate. Sono in molti a ritenere che nei prossimi giorni il prezzo del barile possa raggiungere la soglia psicologica degli 80 dollari.


L’INFLAZIONE DEI PREZZI E IL PERICOLO DI TASSI TROPPO ALTI

Dopo tanto tuonare però, la pioggia sembra finalmente essere arrivata, e con la risalita dei prezzi di petrolio e materie prime (che aiuta a esportare la ripresa economica ai paesi emergenti, loro grandi produttori), i primi effetti della crescita dell’occupazione, dei salari e dei consumi, cominciano a fare capolino, quali :
– L’incremento dei costi energetici
– L’inflazione di buona parte degli altri prezzi che ne deriva
– Il rialzo dei tassi di interesse che deriva dalle attese di inflazione
– I rinnovati timori per i forti debiti, pubblici e privati che dovranno pagare maggiori interessi.


Chiaramente infatti un’eventuale forte fiammata inflazionistica rilancerebbe l’attenzione sull’importante stock di debito che il mondo intero si porta appresso dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008. Qualora il costo di quel debito dovesse crescere oltremisura l’intero ecosistema economico internazionale si troverebbe a fronteggiare un bel problema!

Tutto scontato e previsto, se non fosse che questi effetti creano pericoli per la tenuta delle quotazioni dei mercati finanziari e che quest’ultima, con la crescente finanziarizzazione dell’economia, non è più un optional, come si è visto dopo i disastri del 2008 !

LA NECESSITÀ DI STABILITÀ DEI MERCATI FINANZIARI

La stabilità dei mercati finanziari è divenuta sempre più importante mano mano che i cittadini del mondo intero hanno scoperto la pressante necessità di questi ultimi tanto per far filtrare le risorse monetarie alle imprese più meritevoli, quanto (e soprattutto) come riserva di valore oramai essenziale per andare a sostituire le sempre più esigue risorse dei welfare nazionali destinate a infrastrutture, previdenza sociale, sanità e sicurezza.

La crescente “privatizzazione” della maggior parte delle funzioni che in passato erano assolte dalle pubbliche amministrazioni rende dunque quantomai necessaria non soltanto la stabilità dei prezzi (inflazione) ma addirittura anche quella dei mercati finanziari ! Il mondo cioè può permettersi sempre meno che l’arrivo di una seppur periodica e limitata recessione economica arrivi anche a generare forti cadute delle borse o forti impennate dei tassi di interesse.

LA PROBABILE RESILIENZA DI FONDO

Fortunatamente tuttavia, alla necessità generale che ciò non accada si affianca, più o meno inspiegabilmente, la sua scarsa probabilità complessiva. L’inflazione può arrivare cioè, magari trainata proprio dalla crescita di domanda di materie prime ed energia, e le borse possono affrontare un periodo di moderata correzione al ribasso per scontare una risalita dei rendimenti di mercato, ma nessuno si aspetta davvero l’apocalisse né che essa permanga stabilmente!


Ovviamente se lo scenario dei mercati finanziari dovesse procedere in questa prospettiva molta ricchezza rimarrebbe più o meno nelle casse delle banche, spesso liquida e quasi inutilizzata, e questo altrettanto ovviamente non è un bene, ma la verità è che se il petrci sono molti fattori correttivi che in caso di emergenza si metterebbero all’opera (primo fra tutti il monitoraggio da parte delle banche centrali, ma anche le importanti riserve di petrolio sino ad oggi non sfruttate, i produttori americani che fanno “fracking” pronti ad immettere sul mercato forti quantità a questi prezzi, eccetera) per ristabilire l’equilibrio sui mercati.


Stefano di Tommaso




AMAZZONIZZAZIONE DELL’ECONOMIA?

Siamo giunti alla fine del super-ciclo economico positivo decennale (2008-2018, sebbene in Europa ci si sia giunti per motivi politici soltanto cinque-sei anni più tardi) che ha spinto per altrettanto tempo le borse all’insù verso massimi storici senza precedenti, oppure ci sono altre forze che spingono verso una “normalizzazione” dell’economia che tutto sommato la consolida e la rende capace di non avvitarsi in una spirale inflazionistica (che inevitabilmente aprirebbe le porte ad una fase di recessione globale)?

 

Non potendo prevedere il futuro, la domanda non ha ovvie o scontate risposte, ma uno strumento per interpretare gli accadimenti di queste settimane potrebbe sintetizzarsi in una parola (o più probabilmente un vero e proprio concetto) che torna periodicamente a risuonare, pur senza alcuna certezza, nelle orecchie di molti economisti: l’ “amazzonizzazione” dell’economia.

L’IMMAGINE ESTERNA DI AMAZON, QUALE LEADER PIGLIA-TUTTO DEL COMMERCIO ELETTRONICO INCORPORA LE NUOVE TENDENZE GLOBALI

È noto che Amazon, leader mondiale del commercio elettronico, incorpora nell’immaginario collettivo l’idea stessa di effetto pratico della globalizzazione dei consumi risultante nella rottura al ribasso dei prezzi al dettaglio, dell’effetto disinflattivo che esso ha e nel cambiamento profondo della relazione tra domanda e offerta sul mercato del lavoro (che ovviamente provoca una contrazione dei salari).

Fino all’altro ieri infatti la maggior domanda di lavoro che sta materializzandosi a partire dal 2017 e che in molti casi si traduce in una crescita reale dei salari, avrebbe più o meno immediatamente provocato un’innalzamento corrispondente dei consumi e si sarebbe quindi potuto osservare il noto effetto inflattivo che consegue alla riduzione della disoccupazione, osservato dagli economisti on la cosiddetta “Curva di Phillips”.

IL ROVESCIAMENTO DELLA CURVA DI PHILLIPS

Tra il 2017 e il 2018 però, almeno negli Stati Uniti d’America (che spesso sono solo i precursori delle tendenze economiche globali) si è invece dovuto prendere atto del venire meno di quella forte relazione tra mercato del lavoro, consumi, prezzi e inflazione, che sembrava elementare e dunque anche inequivocabile (nel grafico qui sotto riportato, da leggersi da destra verso sinistra, l’inclinazione della curva sembra infatti rovesciata).

Per tentare di rispondere alla domanda sopra indicata, proviamo perciò a porcene un’altra: ma se per effetto della ripresa economica e della crescita globale dei redditi la disoccupazione scende un po’ ovunque nel mondo e se più o meno di conseguenza anche i salari crescono, per quale diavolo di ragione questo non si riflette nell’aumento dei consumi e, di conseguenza, nella crescita dei prezzi al dettaglio?

L’ESPLOSIONE DEL COMMERCIO ELETTRONICO

A una tale domanda si prestano centinaia di risposte possibili che spaziano dall’effetto di normalizzazione dei prezzi dovuto all’aumento del commercio internazionale e all’entrata sul mercato di merci provenienti dai paesi emergenti alla maggior efficienza produttiva dettata dalla digitalizzazione fino alla minor incidenza del consumo energetico.

Ma il punto è che l’individuare risposte corrette a questa domanda ci può rivelare le sorti dell’inflazione attesa e, di conseguenza probabilmente, quelle dei tassi di interesse, nominali e reali. E queste a sua volta sono tutt’altro che irrilevante ai fini degli andamenti dei mercati borsistici.

In altre parole se riusciamo a comprendere i meccanismi di inceppamento nella trasmissione della maggior domanda di beni e servizi ai prezzi dei medesimi (inflazione)possiamo trovare una chiave di risposta alla questione di tutte le altre questioni: il ciclo economico in corso sta esaurendosi oppure è magicamente destinato a prolungarsi, magari indefinitamente?

LE BORSE CONTINUERANNO A SCENDERE?

In una sorta di gioco all’auto-realizzazione delle aspettative, molti investitori hanno di recente diminuito i titoli azionari sul totale dei loro investimenti. Questo, insieme ad un processo di normale rotazione dei portafogli e insieme alle notizie allarmanti che sono state strombazzate dai media di tutto il mondo circa i pericoli di una guerra commerciale, hanno amplificato la volatilità delle borse e ridotto i loro livelli si o ad azzerare la crescita che avevano compiuto nel primo trimestre 2018.

Ma non possiamo chiederci come sta andando l’economia reale osservando i mercati finanziari. Sarebbe come indovinare la strada guardando dallo specchietto retrovisore: la cosa funziona soltanto se il veicolo va a marcia indietro (cioè in caso di recessione). Perché altrimenti non si può fare previsioni a partire dall’ultima derivata (le borse) ignorando le variabili fondamentali che possono muoverla.

E per tornare alle variabili fondamentali, la stagione della dichiarazione degli utili aziendali (e quindi dei dividendi) che sta per aprirsi sembra indicare tutt’altra direzione (estremamente positiva) rispetto alla presunta conclusione del ciclo economico espansivo. Così se questo è l’ennesimo fattore di confusione per interpretare l’andamento delle quotazioni delle borse, esso d’altro canto fornisce anche solide ragioni perché il processo di conversione dei redditi aziendali in investimenti, consumi e risparmio, possa agire in direzione dell’ulteriore crescita economica, anche per gli anni a venire, allontanando lo spettro della recessione.


LA MANCATA CRESCITA DELL’INFLAZIONE

Ma più di ogni altro fattore sono i rendimenti nominali quelli che (seppur pesantemente manovrati dalle banche centrali) esprimono il vero stato di salute dell’economia.

E al momento non possiamo che prendere atto che, pur risaliti di qualche frazione di punto (e nonostante gli sforzi di “forward guidance” della banca centrale americana), su scala globale i loro livelli sono vicini ai minimi di sempre, così come quello dell’inflazione.

Le statistiche infatti spesso non indicano il vero andamento dell’economia reale.

I consumi cambiano e la spesa della gente non si rivolge più come prima ai negozi fisici, ai beni voluttuari, all‘arredo o all’abbigliamento e ai suoi accessori, dal momento che l’abbigliamento formale non è più di moda e le abitazioni diventano minimaliste. Molte altre categorie di beni e servizi sono invece entrate prepotentemente a rubare loro la priorità, a partire dal benessere fisico e mentale (che in passato veniva in qualche modo pagato dallo stato), alla cura della persona, alla formazione continua, all’elettronica e all’informatica domestica, ai servizi online. Tutte spese divenute quasi “necessarie”, soprattutto con una famiglia a carico, che hanno trasformato il concetto di necessità e hanno di fatto ridotto la quota di extra-reddito disponibile per i consumi voluttuari.

I COSTUMI CAMBIANO E LE IMPRESE DEVONO ADEGUARSI

I grandi operatori di internet come Amazon, Facebook, Netflix e Google lo hanno capito benissimo e per primi, e “coccolano” il loro cliente con ogni genere di proposta, frutta e verdura a domicilio comprese (con consegna immediata) a prezzi nemmeno immaginabili dagli altri, complici il mercato dei capitali (che sussidia generosamente le loro perdite) e il basso livello di manodopera richiesto da quei servizi.

Sul fronte dell’occupazione questa tendenza porta a incrementare il numero di persone che lavorano sulla consegna di pacchi e pacchetti, a far crescere l’investimento informatico che ci sta dietro e l’occupazione conseguente, a incrementare l’acquisto di beni e servizi provenienti dall’altro capo del mondo e a ridurre le segreterie e le posizioni apicali in azienda dal momento che tutto si automatizza.

Anche la pubblica amministrazione tende a ridurre il proprio personale e a fare acquisti solo in rete, mentre e le piccole aziende che fornivano servizi specializzati a quelle grandi oggi trovano insidia nella concorrenza online degli stessi servizi.

Ma il fenomeno dell’espansione del commercio elettronico a ogni settore dell’economia non sembra fermarsi solo a questo. Se lo paragoniamo alla rivoluzione che è derivata dal l’avvento della grande distribuzione organizzata (GDO), il bello deve ancora venire !

Il fenomeno americano che ha preceduto Amazon infatti si chiama Walmart e sulla rivoluzione industriale che l’avvento di quest’ultima ha generato sono stati versati fiumi di inchiostro (soprattutto in America, ovviamente, ma in Europa ci sono stati fenomeni paragonabili come IKEA, ad esempio). L’impatto sulle sorti delle piccole e medie imprese è stato devastante ma in qualche caso anche estremamente positivo.

Stefano di Tommaso