LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI RIVELA MINOR OTTIMISMO DI QUANTO ESPRESSO DAGLI INDICI DI BORSA

Per chi si chiede come andrà l’economia globale nel 2018 c’è un modo semplice di provare a rispondere: provare a guardare dove si orientano le grandi case di investimento nel mondo. Non soltanto è utile conoscere il loro livello di fiducia, la quota investita in azioni rispetto a ciò che è investito in titoli a reddito fisso e a quale percentuale di cassa mantengono la loro liquidità, ma soprattutto è interessante conoscere la ripartizione dei loro portafogli per settori industriali, quanta quota parte è investita in titoli proc-ciclici e quanta in titoli anti-ciclici (cioè che crescono o che decrescono quando l’economia “tira”). Ebbene i dati più recenti, relativi allo “stance” di Febbraio differiscono molto da quelli di solo un mese prima:

REDDITO FISSO

come ci si poteva attendere dai corsi dei titoli obbligazionari (tutti in discesa) la quota di titoli a reddito fisso non è cresciuta nei portafogli istituzionali, ma non sembra nemmeno essere scesa, dal momento che l’attesa generale è quella di una fortissima correlazione tra gli andamenti di azioni e obbligazioni (oltre il 90%);

LIQUIDITÀ IN PORTAFOGLIO

ciò che dunque sale è invece la cassa netta detenuta (al di sopra delle medie storiche) sul totale del portafoglio di investimenti (segnale di cautela di fronte all’incertezza dei mercati) ma soprattutto aumenta l’intenzione dei gestori di portafogli di liquidare talune posizioni appena possibile sfruttando eventuali rimbalzi delle quotazioni. Evidentemente l’ipotesi alla base è che il mercato azionario è ancora troppo caro;

SETTORI INDUSTRIALI

un forte segnale di avversione al rischio è la rinnovata preferenza per comparti notoriamente “difensivi” quali la sanità, le telecomunicazioni, le “utilities” (acqua, energia, servizi pubblici ecc…) mentre solo un mese fa ad essere favoriti erano soprattutto I comparti “pro-ciclici” come la meccanica e l’elettronica e le nuove tecnologie. E’ evidente che la scelta riflette l’aspettativa generale di un rallentamento dell’economia, mentre le statistiche sino ad oggi sembrano indicare il contrario.

MERCATI

dietro-front anche per i mercati emergenti, sui quali fino al mese scorso molti gestori di portafogli avevano puntato, evidentemente perchè si teme che la liquidità del mercato -chiaramente in restrizione- possa affliggere prima le piazze più remote del globo. Questo normalmente è un segnale di aspettativa di rafforzamento del Dollaro (principale moneta estera di scambio per i paesi emergenti) mentre non è un buon segnale per l’euro, che riflette l’andamento dell’Europa, che annovera le principali nazioni esportatrici di costruzioni, impianti e tecnologie industriali, le quali evidentemente non beneficeranno della ridotta disponibilità di capitali nei paesi emergenti. Tuttavia non possiamo evitare di notare che invece sono mesi che il Dollaro continua a scendere e che questo fatto tutto sommato controbilancia la fuoriuscita dei capitali dai paesi emergenti.


IL “GURU” DI OMAHA

interessante curiosità viene dall’orientamento di portafoglio del più famoso di tutti I gestori di investimento azionario: il quasi novantenne Warren Buffett. La sua notoria avversione ai titoli finanziari e a quelli tecnologici viene ribaltata dai fatti: il bilancio di Berkshire Hathaway vede nell’ultimo trimestre 2017 un accrescimento significativo della partecipazione in Apple (tecnologia) e in banche come Wells Fargo, Bank of America, Bank of New York Mellon e US Bancorp. Altro settore dove ha effettuato una pesante scommessa è quello dell’agricoltura, incrementando negli ultimi mesi la quota di azioni già detenuta in Monsanto. In effetti è difficile dargli torto: Apple sta performando molto bene e risulta una delle società più solide e meglio gestite di Wall Street, la tendenza al rialzo dei tassi si sta confermando e ne risultano inevitabilmente favorite le banche che vedono crescere la loro forbice (tra tassi attivi e tassi passivi) e infine i prezzi delle principali derrate alimentari stanno crescendo e ciò favorisce i titoli del settore.


MORALE

la corsa delle borse degli ultimi anni è stata accompagnata da un prolungamento del ciclo economico positivo ben oltre le più rosee aspettative che, anche per la sua lunga durata è riuscito a sincronizzare l’economia americana (il cui orologio va notoriamente avanti di mesi rispetto al resto del mondo) con quella europea e quella dei principali Paesi in via di sviluppo. Questa sincronia ha dato nuovo impulso alla crescita economica globale e, ovviamente, gli indici delle borse di tutto il mondo non hanno potuto che registrare l’ottimismo che si andava diffondendo. Oggi però i principali investitori, nonostante le buone notizie sul fronte dell’economia reale, ritengono ugualmente le borse sopravvalutate e orientano verso la prudenza la composizione dei loro investimenti, rivolgendosi verso titoli anticiclici e aumentando la quota di liquidità.

È interessante notare che questo non significa necessariamente che le borse scenderanno ma solo che tra gli investitori si diffonde maggior prudenza visto che possono permetterselo. I recenti lauti guadagni possono infatti far dimenticare loro il rischio di beneficiare meno delle prossime risalite. E, così come è già accaduto nell’ultimo anno e mezzo, questo fatto è positivo perché riduce la possibilità di eccessi speculativi e aiuta a dare stabilità al mercato azionario.

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso

 




I CONSUMI DEI MILLENNIALS RIVOLUZIONANO L’INDUSTRIA

LE NUOVE GENERAZIONI RIVOLUZIONANO I CONSUMI, L’INDUSTRIA E LA DISTRIBUZIONE. MEGLIO PER OGNI OPERATORE ECONOMICO E FINANZIARIO ATTREZZARSI PER TEMPO INTERPRETANDO LE NUOVE TENDENZE E CERCANDO DI CAVALCARLE

C’è un profilo di uomo nuovo che appare oggi sempre più distintamente all’orizzonte delle categorie sociologiche e comportamentali: quello dei “millennial”, cioè di quei ragazzi e ragazze che appartengono alle ultime generazioni, nate o cresciute a cavallo del nuovo millennio. In questi anni i millennial stanno terminando gli studi o si sono da poco avviati alla vita lavorativa, iniziano a costituire un insieme a sé di percettori di reddito e comunque si sono distinti da da tempo come nuova categoria di consumatori e, come forse non era così scontato immaginare fino all’altro ieri, condividono un sistema di valori, un insieme di preferenze e una serie di aspirazioni per il futuro che appaiono fortemente discordanti con quelle delle generazioni precedenti.

È dunque inevitabile che questo impatterà non poco sulle tendenze di fondo dell’industria, dei consumi e della distribuzione come è altrettanto inevitabile che ne rimarranno segnate molte altre tendenze, da quelle della moda, ai servizi, alla politica e alla cultura, con ovvie conseguenze sui settori dell’intrattenimento, dell’elettronica , del software e delle telecomunicazioni, come nell’ambito dei trasporti e dei beni di consumo durevole, sino agli investimenti finanziari.

UN’ONDA LUNGA NEI CONSUMI E NELLA DISTRIBUZIONE

Più che una vera e propria rivoluzione culturale -che per certi versi ne deriverà presto e inevitabilmente- il fenomeno legato alle differenti categorie comportamentali e aspirazionali dei millennial al momento si profila come un’onda lunga sul fronte dei consumi, uno tsunami silenzioso ma imponente, in grado di sradicare molta parte dell’attuale comparto manifatturiero, di rovesciare buona parte dei criteri del marketing e della pubblicità e di radere al suolo la quasi totalità dei precedenti sistemi di distribuzione e commercio. E se questo sarà il portato della silenziosa quanto travolgente sovversione in corso è forse bene che non la analizzino e se ne preoccupino soltanto i sociologi, i filosofi e gli artisti, ma anche e soprattutto gli economisti, i politici e gli imprenditori.

Che non si tratti -solamente- di uno dei mille volti della digitalizzazione dell’economia, della sua transizione verso il commercio elettronico, la condivisione in rete delle informazioni e la diffusione globale della conoscenza di una nuova lingua universale come l’inglese (tutti fenomeni assolutamente reali e dirompenti ma che appartengono invece alla generazione precedente) lo testimoniano alcuni cambiamenti di costume che ci apprestiamo ad esaminare con attenzione per cercare di delineare meglio ciò che sembra possa accadere all’economia del nuovo millennio.

COME CAMBIANO I GUSTI E LE ABITUDINI

L’Abbigliamento per esempio. Lo si è iniziato a notare con la ripresa economica che, avviata oltre oceano alla fine dello scorso decennio, arriviamo a toccare con mano sul fronte dei consumi solo negli ultimi dieci-venti mesi nel vecchio continente. Nonostante la spesa per consumi si riprenda, il settore dell’ “apparel” (che nell’accezione più comune comprende oltre agli articoli del tessile/moda in senso stretto anche gli accessori, i gadgets ornamentali e le dotazioni destinate all’esercizio fisico o al corredo d’abbigliamento ad uso lavorativo) sembra addirit8andare in senso opposto: verso il baratro.

I gusti e la cura della persona nelle nuove generazioni sembrano semplificarsi, limitarsi, tendere insomma all’essenziale, deprimendo le vendite ed esaltando l’essenzialità, il riciclo e l’omologazione dei prodotti che essi tendono ad acquistare. In poche parole è come se l’intero comparto dell’abbigliamento avesse perduto il suo fascino agli occhi delle nuove generazioni.

Le conseguenze economiche di una tale tendenza sono ovviamente dirompenti, soprattutto per Paesi e sistemi economici come il nostro, che tendono a contare non poco su questo comparto e sul design che lo anima. Quanto questo fenomeno di costume possa in ultima analisi farsi anch’esso risalire alle conseguenze ultime della digitalizzazione e della globalizzazione è arduo dire. E poi esula da questa indagine. Ma il dato di fatto rimane: se i consumi di questo settore crollano, interi sistemi-paese ne sono minacciati.

I numeri parlano chiaro soprattutto negli Stati Uniti d’America, che usualmente anticipano sempre le tendenze del resto del mondo: L’abbigliamento nel 2016 ha costituito soltanto il 3,6% del totale della spesa del consumatore medio americano, contro il 5,1% pagato per l’intrattenimento, l’8,5% per la salute e il 12,6% per il cibo.  Accorpando diversamente i dati viene fuori che la spesa per “esperienze” (dove comprendiamo viaggi, ristoranti e altre attività tipicamente di gruppo) ha raggiunto invece il 18% del totale mentre la sola spesa per le “tecnologie” (ivi compresi gli abbonamenti alle tv online e ai servizi online) supera il 3% (cioè quasi quanto l’intero comparto abbigliamento, accessori e calzature). E visto che parliamo della spesa del consumatore medio americano dobbiamo considerare ancora il basso impatto su quella media delle tendenze emergenti, legate alle preferenze delle nuove generazioni (ancora più dirompenti).

Ma legato al declino delle vendite nell’abbigliamento e negli accessori di moda e di costume vi sono quelli ancora più vistosi del commercio e della distribuzione tradizionale. Una vera ecatombe di negozi che chiudono, grandi magazzini e centri commercio che si ristrutturano (lasciando sempre più spazio al gioco, all’intrattenimento e alla cura della persona) grossisti e distributori internazionali che lasciano il loro spazio di mercato alle nuove forme di consumo online e alle grandi (e dilaganti) organizzazioni/società multinazionali che si occupano sempre più direttamente della vita, dei consumi, della sanità e delle assicurazioni del loro personale (soprattutto quello meglio retribuito).

Quello che si vede ad occhio nudo nella maggiore informalità dell’abbigliamento anche sul posto di lavoro si esprime in una vera e propria rivoluzione delle catene di negozi: crescono quelle in formato GDO (grande distribuzione organizzata) orientate al risparmio e all‘essenziale e si riducono quelle frequentate dal consumatore medio, i multimarca e persino il lusso. Presto la cravatta sarà un ricordo delle generazioni passate ma persino l’abbigliamento di scopo (tute da lavoro, divise, accessori di sicurezza ecc…) si comprime insieme al numero di persone occupate nell’industria manifatturiera (sempre più automatizzata), nell’agricoltura e nell’artigianato.

Ma anche nell’intrattenimento (musica, cinema, discoteche, club, ristoranti ecc…) è in atto una rivoluzione silenziosa e dilagante. Si sa che i millennial sono persone piuttosto schive, poco amanti dell‘ ostentazione e dei fenomeni da baraccone, dei ristoranti e del lusso esteriore (cerimonie di battesimo, compleanno, matrimonio e funerale comprese). I loro archetipi,si chiamano Mark Zuckerberg (Facebook), Jeff Bezos (Amazon), o se vogliamo proprio parlare di “mummie” redivive allora prendiamo il fondatore di Virgin, Richard Branson.

I millennial fanno relativamente poca attività fisica ma mangiano cibo integrale e biologico e assumono poco alcool, parlano le lingue straniere e il linguaggio delle macchine / della tecnologia ma sembrano amare la sobrietà, l’intimità, gli spazi funzionali e ordinati, i ritrovi segreti, i viaggi e gli appuntamenti all’altro capo del mondo, i messaggi in codice e i simboli, soprattutto quando sottemdono a una combinazione di culture, popoli, spiritualità e salute mentale.

COME CAMBIANO GLI INVESTIMENTI E LE PREFERENZE

Difficilmente comprano automobili e case (piuttosto le affittano per brevi periodi) mentre spendono fiumi di risorse in tecnologie di ogni genere e investono i loro denari sui mercati finanziari. Detestano però le banche tradizionali, i titoli a reddito fisso e la medicina tradizionale. Sembrano (ma è presto per dirlo) voler dedicare molto più tempo alla cura della salute, alla prevenzione dall’invecchiamento e si preparano a una cultura più consapevole e universale, ma anche più “tribale”, con la riscoperta delle antiche tradizioni di famiglia e il gusto per la ricerca delle proprie origini.

Cercano consigli online, trovano ogni genere di pubblicazioni e notizie gratis sulla rete e comunicano (per iscritto) come matti tra loro ma parlano meno e disertano le folle. Ma dopo che hanno trovato la loro aspirazione sembrano più fedeli alle loro idee, più orientati al lungo termine (anche perché si attendono in media una vita ultracentenaria) e in generale più favorevoli ad investire per l’utilizzo delle nuove tecnologie.

Difficile racchiudere nelle poche parole di un articolo tutto quello che ne potrà conseguire in termini di consumi, di infrastrutture, di investimenti e di tendenze sociali ma una cosa è certa: il futuro che sembra delinearsi sarà quantomai dirompente per quasi tutti i business tradizionali, per i beni di lusso, i locali notturni e le professioni liberali, i beni di consumo durevole e l’edilizia. Difficile anche presumere quali settori sembrano “tirare” maggiormente, perché il fenomeno è piuttosto recente. Ma se va avanti così è agevole pronosticare il successo di coloro che condurranno ricerche di mercato: ce ne sarà bisogno praticamente per chiunque!

Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso