QUASI MEZZO MILIARDO DI DOLLARI PAGATO PER LA STARTUP DI DUE ITALOAMERICANI, DOCENTI AL M.I.T.

Emilio Frazzoli, professore di ingegneria aeronautica e astronautica al famosissimo Massachusetts Institute of Technology e un altro professore dello stesso Istituto, Carlo Iagnemma, a capo del gruppo di ricerca sulla robotica dell’automazione per il settore automotive, quattro anni fa avevano fondato Nu-Tonomy, la classica iniziativa di spin-off universitario quale startup tecnologica per raccogliere capitali e dedicarsi ai sistemi di software avanzato per la guida autonoma dei veicoli stradali in ambienti affollati e complessi.


All’inizio dello scorso anno l’iniziativa ebbe una certa notorietà per il lancio di un servizio sperimentale di taxi-robot a Singapore basati sulla Mitsubishi elettrica Miev, poi sulla Renault Zoe. L’esperienza -di grande successo- ha permesso loro di sottoscrivere accordi di collaborazione con Uber, Grab (la rivale di quest’ultima nel sud-est asiatico) e con la stessa Renault. Successivi accordi sono stati sottoscritti con Lyft per un servizio di Robo-Taxi a Boston, Massachusetts, dove ha sede la loro società.


Qualche giorno fa la svolta: Delphi Automotive, una multinazionale americana nata come spin-off della General Motors dei primi anni ‘90 e dedicato alla fabbricazione e ingegneria della componentistica dell’automobile, li ha comprati per quasi mezzo miliardo di dollari per rinnovare il lato tecnologico della propria offerta di prodotti.

Delphi ha dichiarato che l’iniziativa è volta ad accelerare l’introduzione sul mercato di sistemi per trasformare le auto in circolazione in sistemi completamente autonomi, con l’introduzione di nuovi talenti dell’ingegneria gia presenti in azienda (2 anni fa Delphi aveva già comprato un’azienda simile: Ottamatika, spin-off di un’altra Università, la,Carnegie Mellon) fondata da due professori di origine indiana, che prometteva di immettere sul mercato I propri sistemi già dal 2019.

L’intero settore è stato sconvolto, negli ultimi tempi da investimenti miliardari delle case automobilistiche finalizzati a permettere loro di raggiungere per prime il medesimo obiettivo di sfornare veicoli completamente autonomi: Ford aveva comprato Argo Artificial Intelligence, una startup molto simile ma in stadi meno maturi di sviluppo, mentre General Motors aveva pagato un miliardo per la Cruise Automation e Toyota, forse la più avanti nel processo di sviluppo, ha già registrato qualcosa come 1400 brevetti nel campo della guida autonoma avendo assunto, qualche tempo fa, un intera squadra di professori del medesimo Massachusetts Institute of Technology. Ma nessuna di queste operazioni può oscurare il vertice raggiunto qualche mese fa da Intel, che ha pagato oltre 15 miliardi di dollari Mobileye, una società israeliana (leggi il mio articolo di Marzo in proposito : http://giornaledellafinanza.it/2017/03/14/nuovo-rilancio-nella-corsa-alla-self-driving-car/)

Stefano di Tommaso




STRATEGIE E MARKETING PER LE PICCOLE AZIENDE

Le grandi macro tendenze (globalizzazione, digitalizzazione, diffusione dell’intelligenza artificiale, demografia e invecchiamento della popolazione…) senza dubbio influiscono più velocemente e più pesantemente di quanto si possa comunemente ritenere su qualsiasi attività d’impresa e ogni genere di azienda dovrebbe tenerne conto per aggiustare continuamente il tiro e chiedersi se I propri prodotti sono ancora competitivi e se, opportunamente reinventati e manipolati, hanno ancora spazio per crescere.
La necessità di rivedere la competitività e l’attrattivitá dei prodotti porta quasi sempre con se la conseguenza di dover rivedere radicalmente anche la strategia e la struttura della culla dove essi nascono e si realizzano: l’azienda. Ma fare strategia d’azienda è da sempre un’attività complessa e poco idonea al modo di pensare ed agire delle piccole e medie imprese. Di seguito vi propongo una breve “guida galattica per autostoppisti” per indirizzare anche I più piccoli imprenditori verso l’impostazione di una riflessione strategica di fondo.

 

Molto spesso quando si parla di strategie aziendali il pensiero vola subito a ciò che fa il dirigente tipico delle grandi multinazionali: esamina moltitudini di dati e analisi di mercato per cogliere delle indicazioni tendenziali, le confronta con le possibilità dell’impresa di adeguarsi e creare o modificare la propria offerta, analizza I dati gestionali per valutare le possibili manovre e individuarne I costi e le economie di scala, per poi procedere con la definizione di piani operativi da sottoporre al consiglio di amministrazione o a qualche comitato esecutivo.

Tutta roba inarrivabile per la piccola e media impresa che spesso si pone sí il problema di guardare più in là del proprio naso, ma non ha alcuno degli strumenti appena citati: non ha studi di mercato (anche perché costano), non ha laboratori di ricerca e sviluppo né sistemi di elaborazione dei dati industriali o gestionali che permettano di evincere delle tendenze, non ha mai fatto piani e programmi formalizzati e non ha nemmeno un consiglio di amministrazione o un comitato di dirigenti che si riunisce periodicamente.

Eppure esistono modi più semplici per affrontare ugualmente l’argomento della verifica della posizione strategica dell’impresa, del modello di business e della soddisfazione della sua clientela, quantomeno allo scopo di comprendere quali elementi della formula imprenditoriale generano davvero valore nell’attività caratteristica di produzione e vendita di beni e servizi alla clientela.

IL PRIMO PASSO

Il primo punto da chiedersi nel cercare di mettere a fuoco le questioni fondamentali che anche un piccolissimo imprenditore dovrebbe porsi, riguarda la più importante delle domande: cosa vuole il mio cliente e come può soddisfare le sue richieste in alternativa a ciò che gli propone la mia impresa?

I clienti acquistano I miei prodotti perché vi percepiscono un valore. Comprendere quali sono gli acquirenti dei miei prodotti e come si differenziano da quelli della concorrenza, quali caratteristiche geografiche, sociali e quali aspettative di servizio esso hanno risulta fondamentale per comprendere quale valore essi trovano nella mia impresa e nei miei prodotti.

La questione è la più semplice cui si possa pensare nel cercare di asserire una formulazione strategica al riguardo della propria impresa, ma anche la più fondamentale. Rispondervi correttamente significa comprendere meglio possibile tanto I bisogni fondamentali della mia clientela quanto riuscire a interpretare correttamente l’arena competitiva e di conseguenza I punti di forza della mia offerta rispetto a quelli dei miei concorrenti.

Ogni imprenditore che segue attivamente la gestione della propria azienda conosce, oltre ogni ragionevole dubbio, le caratteristiche della concorrenza e il panorama di prezzi e proposte che risultano succedanei o complementari alle proprie. Tuttavia è attraverso la comparazione di tali nozioni con quelle della segmentazione della clientela e dell’articolazione delle sue esigenze e l’approfondimento del livello di loro soddisfazione che un imprenditore può iniziare a mettere a fuoco il primo passo della propria analisi strategica. E più riesce ad articolare le risposte a tali domande, a tali comparazioni e alla verifica dei risultati, più egli riesce a porre le basi per un corretto inquadramento di ciò che ne può conseguire in termini di strategia e struttura.

IL SECONDO STADIO

Il secondo passo è quello della messa a fuoco delle caratteristiche della propria offerta rispetto a quelle della concorrenza e rispetto a ciò che supponiamo che il cliente desidererebbe. Per quanto piccola e destrutturata possa risultare la mia azienda io posso sempre riuscire a descrivere nel modo più accurato le caratteristiche della mia offerta, dei miei prodotti, dei servizi che vi risultano collegati e del livello di prezzo nella quale li posiziono rispetto alla concorrenza. La risposta a tale questione comporta anch’essa una formalizzazione del mio posizionamento ma, nella misura in cui riesco a comparare la mia offerta con le alternative a disposizione del mio cliente e con il livello di soddisfazione che vi è collegato posso iniziare ad affermare un concetto fondamentale nella definizione della mia strategia: la mia “Value proposition” (il valore della mia proposta).

Il concetto di value proposition e di come si può pensare di migliorarla risulterà a breve di fondamentale spessore per indicare uno dei punti essenziali di qualunque formula strategica: l’analisi dei miei punti di forza e di debolezza, attraverso i quali riuscirò a delineare il mio vantaggio competitivo. Quando se ne parla non si pensa soltanto al motivo per il quale si può ricaricare un margine sul costo dei fattori di produzione, ma all’intera sfera dei valori percepiti dalla clientela che fanno sì che essa sia disposta a riconoscermi un adeguato valore e dunque a pagarne il prezzo.

Il valore “consegnato” alla clientela promana da ogni angolo dell’organizzazione aziendale: dal suo posizionamento geografico e commerciale al suo marchio e alla competenza che essa esprime, fino alla durevolezza della soddisfazione della propria clientela, alla difficoltà di rimpiazzarne prodotti e servizi, alla velocità di adeguamento della propria offerta alle variazioni delle esigenze di mercato, e contemporaneamente alla sicurezza, eticità e validità intrinseca della propria offerta.

Quel valore fornito insieme a prodotti e servizi dipende spesso anche dalla capacità delle persone-chiave dell’organizzazione aziendale, che possono andare dallo storico commesso di bottega all’ingegnere dei sistemi di manutenzione, dalla storicità delle figure commerciali di riferimento ad un’aggressiva campagna di comunicazione. È spesso un insieme di fattori ma è importante individuarli quantomeno per non rimuoverli inavvertitamente.

IL TERZO E PIÙ DIFFICILE PASSAGGIO

Seguendo le considerazioni sopra riportate abbiamo visto che ragionamento strategico risulta di vitale importanza per ogni genere di impresa e può esplicarsi talvolta anche solo con considerazioni qualitative e generiche, quindi persino in assenza di dati gestionali e verifiche di mercato. Spesso tuttavia il successo pratico che può derivare dal mettere in pratica le considerazioni sopra riportate dipende anche da un altro essenziale fattore : la capacità dell’impresa di erigere valide barriere all’entrata della concorrenza.

Ogni impresa ha elementi di unicità e delle caratteristiche particolari, che si riflettono tanto nel fascino che essa può promanare quanto nella qualità dei suoi prodotti e servizi, nel livello di qualità dei medesimi. Ma se quegli elementi sono facilmente riproducibili dalla concorrenza, se gli investimenti necessari a qualcun altro per avere successo nell’aggredire il mio mercato sono bassi, se ci sono validi sostituti dei miei prodotti e servizi allora io devo fare qualcosa per incrementare l’unicità della mia proposta, la dipendenza della mia clientela, la difficoltà di essere facilmente sostituibile.

Il tema è di grande importanza perché oggigiorno l’arena competitiva evolve così velocemente che non è letteralmente possibile fare programmi e investimenti se non si riesce a configurare un orizzonte temporale sufficiente nel quale I nostri prodotti possono avere successo per trovare un ritorno adeguato agli sforzi e ai denari impiegati.

A volte non si tratta perciò di mere tattiche per poter mantenere prezzi elevati in presenza di validi ed economici sostituti, o di arguzie di breve termine per riuscire a mantenere artificialmente degli spazi di mercato che in realtà non esistono più. Qualsiasi organizzazione aziendale deve riuscire a dotarsi di una propria unicità e di un suo “fascino” implicito che può permetterle di esprimere valore nel tempo. Se non ci riesce, anche laddove la velocità di rinnovamento del mercato non sia alta, c’è ugualmente il rischio che quest’ultimo evapori perché magari è il personale che trova facile spostarsi altrove o perché non si riesce a finanziare il rinnovamento.

La costruzione di valide barriere all’entrata della concorrenza quasi mai è solo questione di quattrini. Molto spesso è il risultato di una strategia vincente e di un ragionamento strategico integrato, ma quasi sempre è un fattore vitale. Anche laddove esse non sembrano essenziali, riuscire a erigere difese strategiche risulta essenziale per avere un orizzonte temporale adeguato a limitare I danni di un attacco esterno, di un esodo interno o di un brutale rimpiazzo dovuto a tecnologie innovative o a concorrenza sleale. Ci sono mille ragioni per le quali la concorrenza può farci dei danni, ma se si sono riuscite a costruire valide “barriere all’entrata” si avrà probabilmente il tempo di reagire o di ridimensionare utilmente l’azienda.

IL “TICKET MINIMO” DEL BUSINESS

A volte fanno parte di tale ragionamento le necessarie dimensioni minime aziendali per poter chiudere il cerchio di una idonea proposizione di valore alla clientela. Capita che se sono troppo piccolo non riesco ad esprimermi e nemmeno riescono ad esprimere valore, con la mia organizzazione, I miei prodotti. Se non riesco ad avere una diffusione capillare della distribuzione, se non riesco ad esprimere autorevolezza, se non riesco a fare adeguati investimenti, se non riesco a trovare efficienza nella produzione, allora tutti gli altri ragionamenti rischiano di passare in secondo piano perché sono privo di alcune leve fondamentali per riuscire a sostenere la competizione.

Il ragionamento è di assoluta ovvietà e, pur tuttavia, molte imprese italiane ricadono in tale fattispecie di mancanza di adeguate dimensioni aziendali. Per motivi storici, familiari o di difficoltà di trovare risorse adeguate alla crescita. In quei casi ove si riscontra l’impossibilità di raggiungere le dimensioni minime aziendali per poter mettere in campo una strategia, allora l’urgenza è quella di individuare un network di collaborazioni, una rete di imprese, un possibile acquirente del business o I necessari capitali per la crescita. In molti casi gli imprenditori decidono di vendere per questi motivi, o perché si intravedono all’orizzonte le necessità di spostare la competizione su scala globale, o anche solo perché la distribuzione è diventata inefficace se non si investe di più.

Molte imprese (anche decisamente grandi) che si rivolgono alle banche d’affari per trovare risposta alle loro problematiche strategiche arrivano a dare loro un doppio mandato : da un lato per la quotazione in borsa (o il reperimento di capitali per altra strada) e dall’altro per la vendita del business (il cosiddetto “dual tracking”).

Ma anche I ragionamenti relativi alla misurazione delle dimensioni minime aziendali necessarie non sono poi così ovvi. Esistono ed esisteranno sempre delle strategie di “nicchia”. Esistono ed esisteranno sempre degli ambiti speciali, delle situazioni particolari e delle nuove esigenze che possono essere soddisfatte con vecchi prodotti. Anzi: è proprio in questi casi che trionfa il pensiero strategico e che può persino arrivare a superare il problema dimensionale. E’ per questo che è così importante!

Stefano di Tommaso




LE BORSE DIVENTERANNO PIÙ SELETTIVE SULLA BASE DEI PROFITTI INDUSTRIALI

Il dibattito sulle iper valutazioni delle imprese, che emana dallo struggimento degli operatori delle borse valori alle prese con il più enigmatico di tutti i lunghi cicli borsistici di rialzo degli ultimi decenni, si concentra oggi sulla possibilità che, nonostante i corsi azionari abbiano superato di slancio tutti i massimi storici precedenti, in realtà i profitti delle imprese possano in futuro risultare in grado di correre ancora più in alto, giustificando dunque nel tempo ciò che oggi sembra eccessivo.

Da tempo chi scrive sostiene un’ardua tesi:gli investitori sono da troppo tempo alla ricerca di valide alternative alle scelte di asset allocation praticate sino ad oggi perché i corsi azionari attuali arrivino a sgonfiarsi in un baleno. Sebbene sinora i fatti sembrano aver dato ragione a questo assunto, se vogliamo evitare di cadere nel ridicolo con affermazioni fideistiche non possiamo che cercare delle risposte a una domanda di fondo: quali e quante imprese stanno effettivamente moltiplicando la loro redditività? Non tutte evidentemente!

Ovviamente non si può prescindere dai presupposti fondamentali che stanno pilotando da oramai otto anni la corsa al rialzo dei valori mobiliari:

  • i tassi straordinariamente bassi ma contemporaneamente la bassissima inflazione rilevata,
  • la grande liquidità disponibile sui mercati che è seguìta alle politiche monetarie espansive,
  • la “congestione dei risparmi” di un’intera generazione di “baby boomers” che si approssima alla pensione e che riversa sui mercati una domanda eccessiva di carta finanziaria,
  • l’ampiezza delle oscillazioni negative precedenti,
  • la grande ripresa economica globale in corso,
  • l’aspettativa che i profitti delle imprese continuino a moltiplicarsi.

Sebbene l’argomento dei profitti aziendali non sia l’unico a tenere alte le quotazioni borsistiche, forse esso dal punto di vista microeconomico merita qualche ulteriore approfondimento perché il dibattito in questione ha effettivamente preso corpo a seguito di un’impennata degli utili delle grandi corporation quotate a Wall Street e tutti si chiedono se, conseguentemente, c’è da attendersi la stessa impennata anche per le altre imprese nel mondo, fino alle più piccole e alle meno globalizzate (ad esempio le PMI dei paesi emergenti) e, a maggior ragione, fino a quelle meno tecnologiche.

LE SUPER VALUTAZIONI DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

La corsa della tecnologia sembra infatti avere molto a che vedere con le iper valutazioni espresse da Wall Street: sono soprattutto i grandi colossi tecnologici e i dominatori di internet quelli che hanno pesantemente alzato la media delle valutazioni. Le quotazioni borsistiche di questi ultimi viaggiano a multipli di prezzo che superano le duecento volte gli utili. La famosa media del pollo di Trilussa è sempre in agguato dunque è ciò che può giustificarsi nel caso di quei colossi globali potrebbe non essere valido per le imprese periferiche e meno tecnologiche.

I mercati finanziari infatti, se nei prossimi giorni non esprimeranno addirittura una più o meno pesante correzione, quantomeno è probabile che proveranno a ragionare sull’ennesima “rotazione” dei portafogli azionari, allo scopo di selezionare meglio le proprie scelte e, auspicabilmente, di provare a diversificare il più possibile i rischi sistemici del possedere assset finanziari che sembrano a tutti troppo “cari”.

Ma ricordiamoci che sono molti molti mesi che i grandi investitori (e sinanco i banchieri centrali) ci ripetono la stessa solfa: l’eccesso di ottimismo che si registra nelle borse porterà presto ad una loro discesa e, dal momento che quel “presto” non arriva mai, da queste colonne nei mesi scorsi abbiamo più volte ironizzato sul tema con analogie letterarie come “Aspettando Godot” o “Il Deserto dei Tartari”! Il punto è che nessun ciclo borsistico può durare in eterno e nessun gestore di portafogli di investimento può permettersi di non chiedersi cosa succederà dopo che quello attuale si sarà esaurito.

Al riguardo c’è chi afferma con certezza che chi investe a questi livelli otterrà scarsi risultati in futuro, chi esprime una fede indiscriminata verso la crescita economica globale che supporta le valutazioni estreme dei mercati, e chi continua a scavare sul fronte della giustificazione razionale delle valutazioni elevate, per trovare non solo risposte al quesito fondamentale sopra descritto (cosa succederà “dopo”) ma anche per riuscire individuare nuove strategie di investimento o nuove ragioni per “ruotare” ancora una volta i portafogli titoli.

I SETTORI PIÙ INTERESSANTI E QUELLI MENO

Scendiamo perciò nel dettaglio dei principali settori economici:

1. Le maggiori imprese supertecnologiche (come Tesla, ad esempio) scontano nelle loro valutazioni la capacità di raggiungere risultati clamorosi in grado di ridefinire il mercato della mobilità personale e quello degli accumulatori di energia di nuova generazione. Quanto tale fiducia sia ben riposta è difficile dirlo, ma resta l’ineluttabilità del fatto che qelle imprese sembrano destinati a cambiare più radicalmente e più velocemente del previsto i loro mercati di sbocco. Casomai i dubbi degli investitori riguardano la presunzione di relativa inerzia dei produttori tradizionali di autoveicoli e sistemi di energia (tutte da dimostrare) e la presunzione di forte capacità organizzativa e industriale da parte di imprese come quella del tetragono Elon Musk di riuscire a realizzare le quantità richieste dal mercato nei tempi annunciati. Qualora le risposte a tali dubbi siano positive, quanto spazio di mercato resterebbe allora alle altre imprese che si sono buttate all’inseguimento dei leader globali? La mia personale convinzione è che non tutti gli operatori super tecnologici riusciranno infatti a tramutare le loro mirabolanti innovazioni in forti profitti e, in un mondo sempre più globalizzato, i leader mondiali di mercato sono dunque quelli più probabilmente in grado di riuscire a raccogliere i maggiori frutti della loro “brand awareness”. Perciò quanto sopra può valere tranquillamente anche per Amazon, per Google, Apple e Tencent e può dunque fornire un deciso supporto razionale alle astronomiche valutazioni di borsa che essi esprimono;

2. Le imprese invece che fondano sì i loro punti di forza sulla rete internet, ma scommettono soprattutto sulla loro capacità di moltiplicare la clientela e i profitti grazie alla mera digitalizzazione e al business che ne consegue di sostituzione delle attività tradizionali (ad esempio gli operatori dell’entertainment come Netflix quali valide alternative a quelli come Sky di Rupert Murdoch), secondo la mia umile opinione rischiano grosso: non è così scontato che i loro predecessori non saranno in grado di rinnovarsi velocemente!

3. Lo stesso può valere per i nuovi colossi del commercio elettronico come Alibaba e Zalando, che rischiano di incontrare decisi ostacoli nel loro processo di cambiamento delle abitudini della gente al riguardo della distribuzione commerciale perché l’umanità è molto conservativa se il possibile rinnovamento delle abitudini della gente non porta anche dei radicali miglioramenti nella vita quotidiana. In molti casi perciò è ragionevole porre qualche dubbio su talune mirabolanti valutazioni di titoli come Netflix laddove esse non siano congiunte a vantaggi radicali nella vita di tutti i giorni.

4. Un ragionamento invece a favore delle supervalutazioni che oggi il mercato esprime può riguardare i leaders globali nei mercati del lusso e del lifestyle, come ad esempio Ferrari o LVMH, che storicamente si sono sempre mostrati in grado di saper raccogliere la sfida del rinnovamento ma che poggiano le loro pretese di mercato su una loro potentissima “brand awareness”. Per essi l’avanzata delle economie emergenti e lo sviluppo demografico e sociale dell’umanità sono fonte probabile di ulteriori soddisfazioni rispetto ai rispettivi “follower” di mercato e per quanto pazzi possano risultare i prezzi da essi praticati, è possibile che i loro ampi margini restino sostenibili.

5. Al contrario per molte delle grandi imprese che oggi risultano leader nei settori B2B (business to business) ci sono seri dubbi circa la sostenibilità di elevate valutazioni di mercato perché ogni minima novità di mercato potrebbe propagarsi, negli ambiti professionali, alla velocità della luce.

6. Ciò può valere per le compagnie aeree, per colossi informatici come la IBM, per i giganti dell’industria di base come Thyssen o General Electric, o sinanco per i grandi (e innovativi) produttori di sistemi informatici come SAP o Oracle e persino come i grandi produttori di beni di largo consumo come Hewlett-Packard o Samsung la cui offerta commerciale non risulti tuttavia “iconica”, a prescindere da quanto capaci siano di cavalcare le innovazioni. In molti di quei settori la concorrenza dei nuovi astri nascenti provenienti dal sud est asiatico o la possibilità che nuove proposte a valore aggiunto provengano da soggetti completamente nuovi rischia di porre dei limiti alla corsa nel tempo dei loro profitti.

I CRITERI DI SELEZIONE DEI SETTORI INDUSTRIALI

La vera discriminante nell’analisi delle effettive capacità di moltiplicazione dei profitti prospettici non sembra perciò l’eccesso di valutazioni ai prezzi attuali delle maggiori imprese quotate, quanto la loro capacità di mantenere la testa della competizione nel loro settore industriale con i margini economici che ne conseguono (vedi Apple), la loro capacità di esprimere un’effettiva brand awareness globale, e soprattutto la possibilità che la loro capacità di fare business in maniera del tutto nuova possa riuscire ad estendersi a sempre nuove categorie di prodotto (vedi Amazon) mentre al contempo su quelle meglio presidiate vengono lentamente alzate barriere all’entrata dei nuovi competitors.

Al contrario in buona parte dei settori industriali rivolti al B2B e in quelli meno protetti da nicchie di mercato e situazioni fortemente localizzate nemmeno le imprese maggiori potranno mantenere il passo con le attuali valutazioni e la possibile avanzata della de-regolamentazione globale potrebbe mettere in discussione molte aziende leader industriali dei nostri giorni. Le stesse argomentazioni non lasciano purtroppo molto spazio alle supervalutazioni che le borse praticano di molte imprese troppo localizzate o troppo piccole, che dovranno affrontare difficoltà ulteriori nel reperire le risorse per la crescita dei propri profitti. Temo anzi che i fattori di sconto nei prezzi di tali imprese dovranno accrescersi.

I veri rischi degli investitori perciò non risiedono nell’ampiezza dei moltiplicatori di prezzo pagati oggi in borsa, bensì nella rispondenza di tali valutazioni alla loro capacità propulsiva a livello globale e nel cavalcare le grandi ondate di modificazione delle abitudini della gente.

Se queste considerazioni significano che in media i valori azionari sino ad oggi espressi dalle borse potranno proseguire la loro corsa o dovranno necessariamente ridursi in futuro, è materia che qui lasciamo alle personali valutazioni di ciascun lettore. È mia personale convinzione che in assenza di forti scossoni geopolitici o relativi a grandi catastrofi invece i mercati finanziari possano proseguire la loro navigazione relativamente indisturbati, ma che saranno necessariamente costretti a proseguire nel processo di selezione dei migliori asset, così come potranno beneficiare ancora a lungo della relativa calma che regna sui titoli a reddito fisso.

I fattori fondamentali all’opera oggi per tenere bassi i tassi di interesse è possibile che non verranno rimossi nel prossimo futuro. Per prevedere quello più remoto invece ci stiamo ancora attrezzando…

Stefano di Tommaso

 




IL VENTURE CAPITAL CORRE IN AMERICA E EUROPA MA NON IN ITALIA

Il 2016 è stato in buon anno in Europa per la raccolta di capitali finalizzati a supportare le start-up innovative: sei miliardi e mezzo di euro. Uno in più del 2015. E il 2017 si preannuncia ancora migliore. L’anno scorso il 44% di quei capitali è stato investito in “information&communication technology”, mentre il 27% è andato in aziende che si occupano di sanità e biotecnologie.

Per comprendere l’importanza strategica degli investimenti rivolti alle innovazioni tecnologiche, ricordiamoci che in tutto il mondo buona parte delle tecnologie che oggi sono parte integrante della nostra vita quotidiana sono in realtà state introdotte da sconosciuti e spesso giovanissimi imprenditori che non lavorano per gli uffici di ricerca e sviluppo delle grandi multinazionali, per mille e un motivo.

E ricordiamoci anche che buona parte di tutte le innovazioni che hanno generato venti o trent’anni fa i colossi che oggi valgono di più a Wall Street (tenendo conto del fatto che ciascuno di essi capitalizza in Borsa quanto il Prodotto Interno Lordo della Gran Bretagna) sono nate in un garage grazie ai cosiddetti “family&friends” e a qualche lungimirante capitalista di ventura.

Se l’America oggi mantiene una leadership tecnologica rispetto al resto del mondo pur con una popolazione inferiore a quella di molti altri Paesi è solo grazie alle sue università (private) e al moltiplicarsi di quegli sparuti lungimiranti investitori di ventura iniziali che hanno scommesso su alcuni giovani promettenti.

 

Questo dovrebbe far riflettere quando si parla di politica economica, di futuro dei giovani e di creare occupazione: questa non si crea per decreto e non si supporta (solo) puntellando le fabbriche del passato oggi in crisi. L’occupazione del futuro -com’è ovvio- sarà generata dalle aziende del futuro.

Eppure in Italia nessuno ne parla e nessuno è disposto ad ammettere che se tutte le volte che un giovane ha un progetto ambizioso questi deve fuggire all’estero per realizzarlo o per non morire soffocato da un eccesso di burocrazia, tassazione e rivendicazioni sindacali, ne avremo poche nel nostro Paese di aziende del futuro, all’altezza dell’evoluzione tecnologica in corso.

Nel nostro Paese già il 93% dei capitali raccolti dalle imprese (spesso tradizionali) quotate in Borsa viene sottoscritto dall’estero, figuriamoci i capitali di ventura! Persino in Europa un decimo di quei 6 miliardi e mezzo raccolti l’anno scorso dal Venture Capital proviene dall’America. E la sola Francia si prepara ad essere uno dei principali incubatori di startup del pianeta. Dopo gli Stati Uniti d’America l’Europa è il secondo ecosistema delle innovazioni, in gran fermento di risorse umane e capitali.

In Italia invece i dati ISTAT parlano di una nazione che spende il 77% della spesa pubblica per gli anziani sopra i 65 anni, mentre il 20% dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studia ancora, non ha e non cerca un lavoro. E il 2,8% per cento della spesa pubblica se ne va in “pensioni di reversibilità”, cioè alle vedove dei pensionati defunti mentre siamo l’ultimo Paese dell’Unione Europea per investimenti in capitale di rischio.

Ma non solo abbiamo politiche economiche sbagliate a dir poco che favoriscono l’esportazione di cervelli e l’immigrazione di braccianti e delinquenti. Se abbiamo il 93% degli investitori in aziende quotate (buona parte delle quali sono banche e società immobiliari) è anche perché il nostro è un contesto economico che rappresenta il bengodi delle rendite di posizione! Rendite le cui dinamiche sono agli antipodi rispetto alla logica di chi investe capitale di rischio!

In Europa sono 13 i fondi di investimento in “venture capital” che hanno raccolto più di €100 milioni. Da noi la più importante operazione di venture capital è stata appena lanciata (dunque non ha ancora raccolto nulla) ed è il fondo dal valore di 100 milioni di euro annunciato da Cariplo Factory e dedicato a growITup, la piattaforma di Open Innovation creata in partnership con Microsoft e rivolto a tutte le startup digitali italiane.

Un ottimo segnale di cambiamento. Ma prima di recuperare tutto il terreno perduto la strada per il Bel Paese si preannuncia molto lunga!
E nel frattempo saremo destinati a crescere e ad assumere molto meno degli altri Paesi sviluppati.
L’esatto opposto di ciò che sarebbe coerente con la nostra vocazione benefica che ci spinge a restare il Paese principe nell’accoglienza degli extracomunitari e nella tolleranza dell’immigrazione clandestina!

 

Stefano di Tommaso