LE VERE RAGIONI DELLE “GUERRE COMMERCIALI”

Nell’ultimo ventennio i commerci internazionali hanno evidenziato una trasformazione dovuta principalmente al processo di graduale ma pervasiva digitalizzazione del mondo. È tuttavia curioso notare che chi ne ha potuto profittare di più sono state le grandi imprese multinazionali Americane e Cinesi che hanno investito maggiormente per essere in testa nel processo di digitalizzazione e nell’efficienza della catena internazionale degli approvvigionamenti produttivi (la cosiddetta “supply chain”).

 

Le grandi corporation transnazionali contano oramai per l’80% degli scambi commerciali globali, per il 75% della ricerca e sviluppo (del settore privato) e per il 40% della crescita della produttività mondiale. La forte crescita dei profitti registrati dalle maggiori società quotate nel mondo si riferisce soprattutto al processo di progressiva digitalizzazione, non soltanto per lo sviluppo del commercio elettronico ma anche e principalmente nell’efficientamento della supply chain in quasi tutti i settori industriali.


LE MULTINAZIONALI RIESCONO A CONTROLLARE LA LORO “SUPPLY CHAIN” E A NON ESSERE COLPITE DAI DAZI

La maggioranza di queste multinazionali si trova in America e in Cina e molto spesso ciascuna di esse oltre ad avere sedi in tutto il mondo, ha anche stretto forti rapporti di collaborazione con aziende dell’altra superpotenza globale. La capacità di gestire la delocalizzazione, e di conseguenza di rendere più efficiente la supply chain e in generale di controllare meglio tutta la filiera produttiva-distributiva rappresenta dunque (e continuerà a rappresentare a lungo) un forte vantaggio per le imprese di maggiori dimensioni e maggiormente globalizzate, perché permette di supervisionare lo scenario competitivo internazionale e soprattutto di venire assai poco colpite dall’erezione delle nuove barriere commerciali, mantenendo un forte controllo sui costi di produzione.


IL SUCCESSO SENZA PRECEDENTI DEL COMMERCIO ELETTRONICO

La premessa è fondamentale prima di prendere atto della conseguenza più macroscopica della digitalizzazione dell’economia: lo sviluppo senza precedenti del commercio elettronico internazionale.


Gli scenari economici e geopolitici globali sembrano essersi totalmente modificati dopo che si è concretizzata la possibilità anche nei paesi più poveri del mondo di fare acquisiti online con un solo click dal proprio telefonino (o tablet/laptop).

LA MINACCIA CONCRETA DELL’E-COMMERCE DI RIUSCIRE AD ERODERE I PROFITTI DELLE GRANDI MULTINAZIONALI

Teoricamente nel medio termine lo sviluppo del commercio elettronico potrebbe riuscire ridurre decisamente i vantaggi attuali delle grandi società multinazionali. Grazie alla possibilità della vetrina di internet in un futuro assai prossimo qualsiasi piccola e media impresa basata nel più remoto dei paesi emergenti potrebbe sperare minacciare seriamente la più grande delle multinazionali ingaggiando una guerra di prezzi e/o di innovazioni di prodotto. Quelle stesse società multinazionali che attirano i migliori cervelli, che detengono il maggior potere finanziario e che sono oggi in grado di esercitare sui governi la maggiore influenza lobbistica. Difficile credere che possano restare a guardare…

Guarda caso nello stesso momento (il 2017) in cui si rendeva evidente che il commercio elettronico globale avrebbe potuto ridurre i loro margini di profitto e soppiantare la predominanza delle economie più avanzate, ecco vedere la luce l’ “invenzione” delle guerre commerciali, che sospinge in alto le tariffe doganali, fa crescere il peso delle “valute forti” e di fatto si oppone decisamente all’ampliarsi del libero scambio globale. La coincidenza è quantomeno sorprendente! Ed è un tema che fa riflettere perchè costituisce la prova che (dall’avanzata del commercio elettronico in un contesto di libero scambio internazionale) sono proprio le grandi corporations che potrebbero risultare i principali “perdenti”.

Alla lunga infatti, con la diffusa digitalizzazione, la crescita degli scambi internazionali e quella degli investimenti produttivi nei paesi emergenti, probabilmente assisteremo a un’evoluzione del commercio globale perché la digitalizzazione favorisce inoltre l’incredibile ascesa dell’automazione industriale. Questa riduce i vantaggi della delocalizzazione produttiva (il costo del lavoro conterà sempre meno)e viceversa spingerà le fabbriche (sempre più automatiche) a frazionarsi e, laddove possibile, a spostarsi in prossimità dei mercati serviti o dei distretti territoriali specializzati in determinati comparti produttivi, dove sarà più agevole reperire risorse umane super-specializzate in tecnologia. La creazione e la diffusione di know-how e di formazione professionale continueranno tra l’altro a esercitare un forte ruolo sui cambiamenti economici e commerciali e sulle politiche commerciali di ogni paese, ma sicuramente avvantaggeranno quelli che risulteranno più avanzati in tal senso. E chi sarebbero questi se non -ovviamente- America e Cina?


UN OSTACOLO INATTESO

Quel che si può notare invece è che oggi l’accresciuta frizione commerciale tra America e Cina sta creando un ostacolo apparentemente inatteso allo sviluppo del libero scambio globale di cui avrebbero beneficiato principalmente i paesi emergenti. America e Cina nell’ingaggiare quelle che i media definiscono “guerre commerciali” sono in realtà i due paesi che più stanno avvantaggiandosi delle barriere recentemente introdotte alle loro frontiere, servendole su un piatto d’argento alle loro maggiori imprese globali, a danno del resto del mondo e in particolare degli Europei (che in questo momento sono i più forti esportatori) e, ovviamente, dei Paesi Emergenti.

Le principali “corporation” delle due superpotenze globali appaiono inoltre sempre più interconnesse tra loro e anche per questo motivo sembrano molto attrezzate a limitare i danni che potrebbero derivare loro dagli incrementi delle tariffe doganali. La tesi qui sostenuta è che tanto le multinazionali americane quanto quelle cinesi avranno alla fine parecchio da guadagnare nel processo in corso di incremento delle tariffe commerciali, oltre che nello spartirsi di conseguenza le rispettive zone di influenza nell’ambito dei paesi emergenti loro satelliti.

 

Tra breve e lungo termine dunque si delinea un deciso dualismo: nell’immediato e dal lato produttivo, del know-how e dei diritti di proprietà intellettuale le grandi multinazionali occidentali sembrano le migliori candidate a trarre profitto dalle guerre commerciali in corso (a causa della loro capacità di produrre e approvvigionarsi tanto al di qua come al di là dell’Oceano Pacifico. Dall’altro lato, quello dei consumi e dei mercati di sbocco e soprattutto nel lungo periodo, i dazi e le limitazioni potrebbero danneggiare seriamente la crescita economica, in particolare quella dei paesi emergenti la cui forte dinamica demografica sospinge oggi i consumi globali. Questo ovviamente potrebbe danneggiare le prospettive di crescita dei profitti delle medesime multinazionali.

WHAT NEXT ? GLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE

Ma la retorica della politica non potrà proseguire all’infinito sulle note del protezionismo e ci si aspetta che, quale antidoto agli effetti depressivi delle guerre commerciali, essa possa partorire presto l’avvio di grandi progetti infrastrutturali, alcuni dei quali già avviati.

Il che rappresenterà ancora una volta un’ottima possibilità di fare buoni profitti per le grandi multinazionali di quei paesi (Cina e America) che prima degli altri potranno vararli, magari utilizzando risorse pubbliche o stampando altra moneta, visto che le guerre commerciali rafforzano le loro divise.

Il che non potrà che contribuire ad aumentare il divario tra la crescita economica delle due superpotenze e quella di tutto il resto del mondo. Se fosse vero sarebbe un piano diabolico, senza dubbio. Ma se a pensar male si fa peccato, tuttavia spesso ci si coglie!

Stefano di Tommaso




IN BORSA PER $100 MILIARDI XIAOMI, L’APPLE CINESE

Esiste una “nuova Cina” dove la realtà può ampiamente superare l’immaginazione, al limitare della rivoluzione maoista con le più ardite fantasie del capitalismo più sfrenato, il cui paradigma socio-economico è forse ancora più difficile da assimilare per noi occidentali del Vecchio Continente di quanto possa esserlo la California della Silicon Valley.

 

La prova del fatto che esiste questa iper-Cina è la fantasmagorica quotazione in borsa della cosiddetta “nuova Apple”, Xiaomi: la start-up tecnologica più celebre dell’ex-Celeste Impero. Partita nel 2010 e già da tempo divenuta “Unicorno” (come si dice nel gergo dei capitalisti di ventura quando una nuova società supera il valore di un miliardo di dollari), gli esperti che ne hanno curato lo sbarco sul listino della borsa dì Hong Kong ne hanno decretato il successo attribuendole una capitalizzazione della bellezza di 100 miliardi di dollari (si, avete letto bene) dopo che le aspettative per il bilancio di quest’anno la rivelano in perdita per oltre un miliardo di dollari, sebbene sia giunta in soli 7 anni a un fatturato di 18 miliardi.

FIGLIA DELLA NUOVA CINA : CAPITALISTA E SUPER-TECNOLOGICA

Dalle nostre parti sarebbe forse bastato che arrivasse a perdere soltanto un milione perché le bande gialle di precipitassero a sirene spiegate ai suoi cancelli ad arrestarne il titolare con l’accusa di bancarotta, magari nelle more di riscuotere qualche credito verso lo Stato e di esserne scagionato! Ma nella Cina sud-orientale dalle grandi metropoli del futuro, la cui società civile esprime questo nuovo paradigma iper-pluto-digitale no, non è bastato che Xiaomi arrivasse a perdere un miliardo per impedirne la quotazione in borsa delle sue azioni, facendone ricchi i soci della prima ora, e permettendole di raccogliere sul mercato oltre una decina di miliardi di dollari di nuove risorse, che saranno tutti reinvestiti per crescere e (forse un giorno) prosperare.

Super tecnologica, avanzatissima non soltanto per le monorotaie che sfrecciano alla velocità del suono sopra le sue nuove città, futuristica persino nei sistemi di pagamento con i telefoni cellulari e strapiena di quei dollari che i fondi di investimento di “venture capital” della Silicon Valley d’oltre-oceano le hanno messo in tasca per sviluppare nuove tecnologie e nuove imprese, in quella Cina del futuro divenuto realtà può oggi esistere ed esprimere forte valore la più estrema di tutte le aziende che hanno scelto di provare a percorrere nuove strade, persino quando esse incrociano quelle di colossi globali come Apple o Samsung con prodotti più competitivi.

Agli investitori che si chiedono se Xiaomi valga davvero 100 miliardi di dollari, il mercato finanziario sembra aver risposto subito: al momento dell’annuncio le azioni delle più dirette concorrenti di Xiaomi come ZTE e Lenovo sono crollate! Ad accompagnarla sul mercato finanziario come sponsors si annoverano peraltro i più grandi nomi della finanza mondiale come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, Deutsche Bank, JP Morgan Chase e altre 6 banche cinesi.

ALL’INSEGNA DELLA FANTASIA E DELL’UMILTA’

Nota anche con il marchio MI che contraddistingue i suoi prodotti di ottima qualità, venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati, Xiaomi è un’espressione cinese che sta a indicare l’umiltà del miglio (il cibo dei poveri di una volta) e che, nelle intenzioni di Lei Jun, il visionario fondatore che ha tratto la sua ispirazione imprenditoriale leggendo una biografia di Steve Jobs (il più noto tra i fondatori di Apple) avrebbe dovuto indicare lo spirito con il quale le nuove generazioni asiatiche avrebbero potuto inseguire il loro riscatto industriale. Quel che è successo poi è stato l’esatto opposto!

In Occidente fino ad oggi per le start-up di successo è prevalso un “modello di business” completamente diverso da quello di Xiaomi: estremamente focalizzate su una particolare tecnologia, con una proprietà molto diffusa e con un percorso evolutivo facilmente prevedibile e rassicurante.

Mentre la campionessa cinese di creazione di valore dopo Alibaba (che però si è quotata nel 2014, in un contesto di mercato molto più favorevole) sembra essere proprio tutto il contrario: controllata da un gruppo ristretto di azionisti, dalle iniziative deliberatamente imprevedibili e tentacolare nei suoi numerosissimi e diversissimi prodotti che uniscono design, tecnologia e fantasia, Xiaomi è riuscita a definire un nuovo modello di business che (al momento) non ha avuto bisogno di mostrare profitti e focalizzazione per risultare vincente.

Certo, in Occidente la mano pubblica eroga ben pochi sussidi alle nuove imprese che vogliono inseguire le loro fantasie, mentre nella Cina statalista di qualche anno fa, che doveva a tutti costi esprimere investimenti e piena occupazione per inseguire il primato della crescita economica e del progresso digitale, trovare le risorse iniziali per provarci è stato forse più facile.

E così quando si è trattato di incrementare le dimensioni aziendali Lei Jun ha preferito crearsi una rete di fornitori strategici terziarizzati, piuttosto che provare a investire direttamente nelle strutture, affinché anch’essi potessero godere del medesimo supporto statale e risparmiarsi i mal di testa della crescita interna.

DAI PRODOTTI AI SERVIZI ALL’ECOSISTEMA “MIUI”

Xiaomi oltre che aver prodotto negli ultimi sette anni oltre 190 milioni di telefoni cellulari, si è messa a fare proprio di tutto: dai computer portatili alle biciclette, agli aspirapolveri-robot che puliscono la casa, alle vaporiere per il riso, alle lampade intelligenti, ai giocattoli, fino ad erogare servizi finanziari. E il prossimo passo consiste nel fornire a tutti questi strumenti un‘interconnessione intelligente per tenerli sotto controllo e fare dell’insieme dei propri prodotti a marchio un “ecosistema” simile a quelli sviluppati dalle altre grandi aziende del settore tecnologico, come Apple, Sony, Samsung eccetera.

Anzi: è proprio dai servizi a valore aggiunto che la sua fedelissima base di clientela (giovane, motivata e rampante) è disposta a pagare a Xiaomi.
È dai suoi 9 milioni milioni di “fans” che partecipano in continuazione ai “forum MIUI” (MIUI è il nome del sistema operativo proprietario di Xiaomi, sebbene sia comunque basato su Android) contribuendo a fornire idee e soluzioni che arrivano per la maggior parte a Xiaomi i ricavi da servizi che rappresentano i maggiori margini di guadagno, i quali invece scarseggiano nella produzione di cellulari (sono stimati intorno ad un mero 1%) e degli altri oggetti da questa venduti, sui quali ha dichiarato che non marginerà mai più del 5%.

Come dire che Xiomi ha venduto fino ad oggi centinaia di milioni di prodotti senza guadagnarci affatto per poi arrivare a conquistare una fetta di mercato cui è stata capace di vendere servizi a valore aggiunto su internet. Una strategia paragonabile più a quella di Google che di Apple, sebbene possa essere percepita ancora più estrema e pericolosa (quando il boom delle tecnologie digitali dovesse mostrare segni di stanchezza).

IL PROPRIO VENTURE CAPITAL TECNOLOGICO

Xiaomi cavalca tuttavia con molta intelligenza l’onda favorevole di entusiasmo sulla quale essa poggia le sue fortune: sino ad oggi non solo ha venduto centinaia di milioni di prodotti ma soprattutto ha “esternalizzato” il suo ufficio Ricerca & Sviluppo “incubando” al proprio interno la nascita di 29 nuove aziende dotate di idee di prodotto brillanti e in qualche modo interconnesse alle proprie e, soprattutto, “sponsorizzando” altre 55 start-up le quali, evidentemente ancora più meritevoli di attenzioni e capitali, sono state finanziate da Xiaomi ma sono rimaste indipendenti!

Al di là dell’ottimo intento socio-economico la società ha fatto bene i suoi conti, ottenendo dall’iniziativa un flusso impetuoso di idee di prodotto che le ha permesso di contenere i costi interni e di cavalcare il suo successo.


Ma anche in questo l’ancora quarantenne Lei Jun -le cui fortune personali sono oggi valutate quasi 13 miliardi di dollari- ha voluto seguire il modello di Steve Jobs: non copiare la Apple bensì il suo fondatore, innovando continuamente e infrangendo ogni vecchia abitudine (ma anche procurandosi le risorse per farlo)!

Stefano di Tommaso




IL PASTICCIO DEL PRESIDENTE

Tutti ricordano l’incomprensibile diniego del Presidente della Repubblica al ruolo del professor Paolo Savona quale ministro dell’economia, ma pochi conoscono i veri retroscena che pare abbiano movimentato il dibattito sulla nascita del nuovo governo, definito dalla maggioranza delle testate estere “populista”.

 

Eppure dubbi posti dal Professore sull’attuale impostazione del sistema della Moneta Unica sono noti da più di un decennio e più o meno universalmente condivisi dalla maggioranza dei commentatori internazionali: non è l’Euro da mettere in discussione bensì gli accordi che vi sono dietro. Allora come risolvere questa apparente discrasia? Così come fu a suo tempo per l’instaurazione della Moneta Unica, anche per l’eventuale revisione dei meccanismi ad essa collegati, non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

LA PROPOSTA DEI MINIBOT

Nel nostro Paese poco si è parlato di un’iniziativa -quella del Minibot- che provava ad ovviare al fatto che la Pubblica Amministrazione, a causa dei suoi cospicui ritardi nei pagamenti al settore privato, deve mediamente ai cittadini e alle imprese oltre 130 miliardi di euro. Ipotizzare di “cartolarizzare” almeno per una metà (si parlava di 60 miliardi) questo credito della “gente” sembrava una buona idea e un modo per semplificarne la comprensione e l’accettazione era quello di farli emettere in titoli di piccolo taglio (da 100 a 25mila euro), di lasciarli privi di interessi e di permettere di usarli per pagare le tasse. Ma proprio su queste caratteristiche accessorie si è infranta l’iniziativa, che ha finito per allarmare i mercati finanziari ed essere associata alla figura di Paolo Savona.

Se essa infatti non si fosse connotata come emissione di moneta parallela nessuno avrebbe avuto da obiettare: chi ha crediti con la P.A. può ottenere in cambio dei titoli e cercare di smerciarli ad altri. Chi comprerà quei titoli sa che il pagatore ultimo è lo Stato (il cui debito totale verso il resto del mondo rimane il medesimo) mentre la liquidità per comprarli arriva dagli acquirenti, non dallo Stato, che dunque non emette moneta. Facile e indolore in apparenza, no?

SCANDALO!

E invece l’iniziativa, inserita nel “contratto” tra Lega e 5 Stelle, è stata letta come uno scandalo: se lo Stato scambia il suo debito verso coloro che devono ricevere i suoi pagamenti allora sta emettendo propria moneta al di fuori del circuito dell’Euro e dell’ègida della Banca Centrale Europea! Ma perché? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alla premessa : non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

Il fatto che il professor Savona sia da più di un decennio un fervido entusiasta della Blockchain (il meccanismo di crittografia che assicura le transazioni tra detentori di moneta elettronica come il Bitcoin) e il più volte minacciato abbandono dell’Euro da parte di coloro che lo volevano Ministro dell’Economia, che sono i medesimi a proporre i Minibot, hanno probabilmente fatto la differenza: l’Italia poteva approfittare dell’occasione per emettere i Minibot sotto forma di criptovaluta e, in questo modo, avviare un meccanismo di divisa valutaria parallela all’Euro e al di fuori dei sistemi di pagamento delle banche (che sarebbero state dunque penalizzate dal non esserne intermediarie).

MATTARELLA HA SUONATO INOPPORTUNAMENTE IL TAM-TAM

Ecco allora che il numero di coloro che hanno percepito puzza di bruciato in quell’iniziativa si è allargato a dismisura. Ed ecco che i mezzi d’informazione si sono attivati nel classificarla come un pericolo, mentre agli occhi della comunità europea le idee della Lega non sono mai apparse particolarmente favorevoli e la sua autorevolezza doveva necessariamente essere messa in discussione. Difficile invece commentare il ruolo del Presidente: come abbia potuto prestarsi a tenere sponda ad un teorema tutto da dimostrare è cosa che valuteranno i posteri. Ma già a pochi giorni di distanza da quanto è successo e alla luce del fatto che il governo Lega-5Stelle è nato ugualmente, appare chiaro come quello di Mattarella sia stato un clamoroso errore. (Nel grafico: l’impennata dello Spread)


È possibile che i minibot non arriveranno mai nelle tasche degli italiani, e tuttavia il loro semplice annuncio, con quell’inopportuno annuncio televisivo, ha avuto effetti esplosivi. Vista come una discussione sulla possibilità di lanciare una moneta sovrana parallela, la diatriba sui Minibot e quella su un mancato ministro dell’economia che oggi viene ingiustamente classificato come il capitano del partito No-Euro (ci ha scritto un libro per spiegarlo), ha aumentato il costo della fiducia riconosciuta al nostro Paese, e questo si è tradotto in un aumento dello spread nonché nell’accensione di grandi fanali di attenzione verso il nostro debito pubblico. A pochi mesi dalla chiusura dell’ombrello della BCE sulle emissioni di titoli di Stato e con il rischio di un abbassamento del rating il pasticcio è fatto.

LA CONFERMA DELL’ERRORE

La conferma dell’errore è poi arrivata quando, a governo fatto, si è visto che lo spread è ridisceso (a conferma del fatto che prima di biasimare una nuova coalizione, sarebbe meglio vederla all’opera) sebbene non sia più tornato al livello precedente. Il caso di Pandora si è oramai rotto e c’è da giurare che una serie di altri fulmini cadranno sulla credibilità del Bel Paese proprio mentre cercavamo un rilancio e a ridosso di un brusco rallentamento della nostra produzione industriale, che non può che allargare i dubbi di chi ci deve attribuire un rating. Quante manovre economiche serviranno a questo governo per riportarsi sulla credibilità che avrebbe potuto avere in partenza?


Ne valeva la pena? No, signor Presidente, a meno che il suo obiettivo non fosse opposto a quello da Lei dichiarato a reti unificate: di “salvaguardare i risparmi degli Italiani”!

Stefano di Tommaso




PERCHÉ SCRIVERE IL PIANO AZIENDALE

E’ possibile per un’imprenditore mettere a punto il suo piano industriale senza aver colto fino in fondo le vere dinamiche del mercato cui si rivolge? Probabilmente no. Ma è altrettanto vero che oggigiorno l’essere in grado di redigere un piano aziendale è divenuta una competenza essenziale per ogni genere di dialogo tra l’imprenditore e il resto del mondo.

POCA LETTERATURA RELATIVA ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

La ricerca scientifica in tema di gestione delle aziende tende a polarizzare la sua attenzione verso i due estremi della scala dimensionale:

– Da un lato gli studi su strategia e struttura aziendali, dedicati principalmente alle grandi imprese che possono dedicare tempo e risorse all’analisi di mercato, alla costruzione di solidi vantaggi competitivi, e alla ricerca dell’efficienza di costo,

– Dall’altro lato le analisi e i manuali relativi alle Start-Up, cioè alle iniziative imprenditoriali che stanno nascendo, che spesso si concentrano su come ottenere la finanza necessaria per lo sviluppo, come gestire il mercato potenziale (la cosiddetta “lead generation”) e su come procurarsi un network di sub-fornitori.

Poca attenzione è invece normalmente dedicata alle piccole e medie imprese relativamente alla pianificazione aziendale, anche perchè nel resto del mondo queste ultime restano tali per un periodo di tempo relativamente breve, dopodiché o crescono o spariscono, oppure vengono assorbite da altre.

IL PROBLEMA È FORMALIZZARE LE PROPRIE IDEE E PERCEZIONI

In realtà ogni imprenditore, in erba o ereditiere che sia, dovrebbe chiedersi come fare per riuscire a produrre efficientemente e poi vendere i propri prodotti. E per farlo dovrebbe riuscire a prendere le misure del proprio mercato potenziale e avere un “piano” per sostenere la concorrenza, ampliare i propri margini e creare valore.

E spesso è così: sono pochi gli sprovveduti o i super-fortunati che non se lo chiedono e che non se ne fanno un’idea precisa. Ma sono ancor meno coloro che riescono a formalizzare e mettere per iscritto le risposte nell’ambito di un Piano Aziendale che risponda agli standard internazionali e che permetta all’impresa di dialogare correttamente con il mercato dei capitali, capace di mostrare su quali basi razionali riposano le prospettive economiche e finanziarie delineate nel Piano.

COSA DOVREBBE CONTENERE IL PIANO AZIENDALE

Vediamo allora perchè spesso non c’è un Piano Aziendale correttamente impostato (o è insufficiente a chiarire le dinamiche aziendali) e quali informazioni essenziali esso dovrebbe contenere:

– Innanzitutto esiste un tema di mantenimento del riserbo sulle idee di business dell’imprenditore, che se pubblicate potrebbero facilmente esssere copiate dalla concorrenza e, dunque, annacquate nella loro validità

– In secondo luogo molte imprese piccole e medie sono oggi guidate da persone con scarsa “cultura manageriale” e dunque nascono dal genio commerciale o produttivo di uno o pochi individui, ma poi in assenza di strategia e struttura fanno fatica a organizzarsi ed espandersi

– Ma quel che più conta è la capacità di focalizzare e dimostrare il ”vantaggio competitivo” dell’impresa, la sua capacità cioè di fare quel che le altre non sanno fare o non fanno altrettanto efficientemente (un concetto evidentemente complesso cui torneremo più avanti)

– Altro elemento essenziale di qualunque piano è una corretta disamina della realtà di mercato, delle esigenze che un determinato prodotto o servizio vanno a coprire (paragonandolo a come la concorrenza copre le medesime esigenze) della sostenibilità del costo che esso comporta per il consumatore (paragonandolo a quello proposto dalla concorrenza) e dello stadio del ciclo di vita del settore industriale in cui si situa l’azienda (vedi immagine)

L’analisi di mercato e competitiva spesso sono essenziali per una corretta definizione della strategia, ancorché difficili realizzare, o comportano un investimento talvolta fuori della portata dell’imprenditore di piccole dimensioni. Ma risultano essenziali per la definizione delle ipotesi alla base del piano, con cui oggettivare i risultati prospettici

– Laddove risulti arduo trovare riferimenti oggettivi per l’analisi del mercato attuale e potenziale nonchè della strategia aziendale ecco che può rivestire un ruolo fondamentale la capacità dell’impresa di essere parte di una “catena del valore” più ampia, attraverso alleanze, consorzi, collaborazioni stabili e con catene di distribuzione.

– Uno dei messaggi più importanti che reca il Piano Aziendale al suo lettore riguarda poi il cosiddetto piano operativo, ovvero l’insieme di: organigramma attuale e prospettico, ruoli e le competenze distintive, investimenti necessari, metodi e tempistica di sviluppo/attuazione delle iniziative. La qualità di questa narrativa è prioritaria per importanza persino alla bontà dei risultati attesi

– Esistono di conseguenza due capitoli finali (e fondamentali) del Piano Aziendale che discendono dai contenuti “obbligatori” sopra riportati: la dinamica economico-finanziaria prospettica e quella della creazione di valore che ne consegue.

LA DINAMICA DEL VALORE D’IMPRESA

Il problema strategico più importante al mondo per ogni impresa normalmente è quello di sancire la sua “autorevolezza”: più essa sarà considerata credibile, ben reputata e solida, e più quell’impresa potrà praticare prezzi elevati, avere una clientela fedele, fornitori che le fanno credito sulla parola, facilità nel dialogo con la concorrenza e rispetto da parte di tutti gli “stake-holder” .

Il Piano Aziendale dunque deve innanzitutto mirare ad affermare l’autorevolezza dell’impresa, perchè il concetto è evidentemente alla base della sua capacità di creare valore. Vediamo come:

– Prima ancora infatti di giudicare i risultati economici attuali e prospettici dell’impresa, è essenziale comprendere con quali proposte e a quale clientela attuale/potenziale l’impresa si rivolge. Dunque l’impresa deve essere capace di affermare la validità della sua “value proposition” (concetto che risponde alla domanda: “perchè i clienti dovrebbero scegliere il suo prodotto/servizio?”)

– Una volta chiarita la capacità dell’impresa di “offrire valore” alla clientela (per la qualità ed efficienza dei propri prodotti/servizi), si può arrivare a definire il suddetto “vantaggio competitivo” dell’impresa (cioè la capacità di differenziarsi dalla concorrenza e quella di mantenere questo vantaggio nel tempo)

– Infine la capacità di sostenere nel tempo un vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza rappresenta la “prova” della possibilità per l’impresa di ottenere e mantenere i margini di guadagno sulla propria attività, elemento essenziale per la credibilità dei numeri prospettici che vengono di conseguenza sviluppati nella sezione economico-finanziaria del Piano Industriale.

Troppo spesso invece il Piano Aziendale affronta quasi esclusivamente il tema dello sviluppo economico-finanziario senza riuscire a spiegare su quali basi questo può reggersi!

Nel disegno qui sotto riportato si può trovare una sintesi dei concetti sopra espressi:

DAI RISULTATI ECONOMICI ALLA CREAZIONE DI VALORE

Una volta sancita con abbondanza di riscontri oggettivi (di mercato, di know-how e di efficienza) la capacità dell’impresa di riuscire a sostenere nel tempo una buona marginalità economica, il passaggio successivo è allora quello di partire dai conti economici prospettici messi a punto in precedenza, per andare a stimare i relativi stati patrimoniali di ciascun anno futuro.

L’impatto delle principali movimentazioni del conto economico sulle poste patrimoniali dell’esercizio precedente è ciò che permette di stimare l’evoluzione da un anno all’altro dello stato patrimoniale prospettico e, di conseguenza di costruire bilanci preventivi completi dei rendiconti finanziari, definiti come tabelle di confronto tra lo stato patrimoniale di un anno precedente con quello successivo.

L’analisi dei margini d’impresa (ed eventualmente il loro confronto con quelli della concorrenza), la stima della cassa che si genera nell’esercizio (visibile all’ultima riga del rendiconto finanziario) ed eventualmente altre analisi più complesse sulla variabilità stimata della redditività (il cosiddetto “beta”) attraverso l’applicazione della teoria del Capital Asset Pricing Model, porta a poter definire un valore d’impresa per ciascun anno di attività futura e, di conseguenza, a stimare per differenza la capacità della medesima impresa di creare valore nel tempo per i suoi azionisti.

Il concetto di misura della creazione di valore è molto aleatorio, perchè dipende fortemente anche da dinamiche spesso al di fuori del controllo di una determinata impresa (quantomeno nel breve periodo), quali l’andamento dei mercati finanziari e quello dell’appetibilità del settore industriale in cui essa opera (e dunque dei multipli di valore ad esso attribuiti).
Ma è comunque una delle indicazioni principali che discendono dal Piano Aziendale, di forte aiuto nell’ottenere credito e capitali per gli investimenti, nell’attirare le migliori risorse umane e nel comunicare capacità e solidità all’ambiente complessivo che circonda l’impresa.

L’ESTENSIONE DEL CONCETTO DI COMUNICAZIONE AZIENDALE

La capacità dell’impresa di asserire la propria capacità di creare valore è in fondo la quintessenza della trasparenza dell’impresa stessa nei confronti di tutti i suoi stakeholder e attesta fortemente la possibilità di orientare la propria comunicazione, intesa come capacità di dialogare autorevolmente con il mercato del credito, con quello dei capitali e con tutti coloro che devono poter contare sulla solidità dell’impresa per aver voglia di collaborare, o devono assicurare il credito di fornitura o devono assicurarsi della stabilità nel tempo della partnership con quell’impresa .

Riuscire a scrivere un Piano Aziendale permette dunque di fare comunicazione finanziaria proattiva e scevra da slogan e messaggi promozionali, di comunicare la solidità, la correttezza e l’attenzione alle variabili che davvero contano della strategia d’impresa, nonché di poter disporre di una base cui ancorare gli incentivi per I collaboratori, legati non più ai soli risultati economici, bensì al concetto più allargato di creazione di valore.

Va da sè che senza neanche redigere un Piano Aziendale, fare tutto ciò risulta molto più difficoltoso!

Stefano di Tommaso