NELL’OCCHIO DEL CICLONE

Ci sono segnali di ottimismo per i prezzi dell’energia, per l’inflazione e forse anche per i mercati finanziari. Cosa succede? Le tensioni internazionali sono destinate a scemare? Purtroppo l’analisi qui condotta porta in direzione opposta: il miglioramento della situazione sembra del tutto transitorio, come quando ci si trova “nell’occhio del ciclone”!

 

Con la pandemia prima, poi con l’inflazione dei prezzi e infine con lo scoppio della guerra in Ucraina, un vero e proprio ciclone sembra aver colpito l’Occidente e i suoi mercati finanziari, che sembravano inizialmente essersi mirabilmente ripresi fino alla fine del 2021 per poi ripiombare in discesa e, soprattutto, veder innalzare clamorosamente tassi di interesse e costi dei debiti pubblici.

In particolare la zona economica che ha subìto le peggiori conseguenze è senza dubbio l’Eurozona, l’area dei paesi che hanno adottato la moneta unica e la banca centrale europee, rinunciando a quelle nazionali. Non soltanto l’inflazione infatti sta erodendo i consumi privati e l’efficienza delle imprese industriali, ma anche le conseguenze della guerra in Ucraina si sono fatte sentire forte, in termini di scarsità e costo dell’energia, e di conseguenza nell’ondata di rincari che ne conseguiranno ulteriormente. La scarsità di gas naturale ha poi influito non poco sul costo dell’energia e peraltro rischia di limitare la capacità produttiva delle imprese situate nei territori più colpiti: quelli dell’Unione Europea.

QUALCOSA SEMBRA ESSERE CAMBIATO

Da metà estate però qualcosa sembrava essere cambiato: le borse erano tornate a salire e il costo del petrolio è man mano ridisceso, mentre le tensioni sul gas naturale sembrano in parte rientrate, nonostante il suo flusso di provenienza russa si sia quasi del tutto interrotto. (di seguito il prezzo del petrolio e il surplus di capacità produttiva)

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Da cosa dipende? E’ una conseguenza della recessione che sta colpendo l’Unione? In parte forse, ma essa non basta a spiegare il fenomeno complessivo, che si è accompagnato a stime di minor crescita dell’inflazione. Una moderazione complessiva di quegli elementi dirompenti che avevano fatto gridare all’allarme generale per l’autunno in arrivo, ha preso corpo. Ma quanto a ragione? Quanto ci possiamo contare per i prossimi mesi? (nel grafico qui riportato il prezzo della benzina in America)


Assai poco, a quanto sembra, e non soltanto per via del fatto che in America la crescita economica sembra proseguire e, con essa, la spirale dell’inflazione e degli incrementi dei tassi non può certo dirsi giunta al capolinea. Le banche centrali del resto del mondo infatti non possono non seguire la Federal Reserve Bank of America nell’incremento dei tassi d’interesse, pur rimanendo sostanzialmente impotenti alla prima delle conseguenze di questa situazione : il cambio del Dollaro contro quasi tutte le monete degli scambi internazionali continua a salire.

ALTRI NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

All’orizzonte poi si stagliano altri nuvoloni neri. Il rincaro di petrolio e gas infatti è stato senza dubbio una precisa conseguenza delle tensioni geopolitiche e del deciso schieramento pro-americano dell’Unione europea. Purtroppo tuttavia quelle tensioni geopolitiche non si sono mai ridotte negli ultimi tempi, anzi! Negli ultimi giorni il contrattacco dell’Ucraina fa pensare che il conflitto sia destinato a durare assai a lungo.

Non devono trarre in inganno il ribasso (relativo, peraltro) del costo del petrolio e di quello del gas, dal momento che per ottenere il primo ha sicuramente giovato quel milione di barili al giorno in più sul mercato derivanti dall’alleggerimento delle riserve strategiche americane (che però è destinato ad esaurirsi nel giro di un mese e mezzo al massimo, in coincidenza con le elezioni americane). Per il secondo più che altro i governi europei hanno cercato di ridurre gli effetti della speculazione e di controbilanciare la scarsità di gas con l’accumulo di importanti riserve per l’inverno, insieme ad una serie di misure destinate a limitarne i consumi. Ma se le tensioni di guerra risalgono come sembra, sono destinate ad apparire dei meri “pannicelli caldi”.

LE TENSIONI SUI PREZZI INDUCONO LA RECESSIONE

Morale: la tensione sui prezzi delle materie prime non è detto che non riprenda nei prossimi mesi, dal momento che la loro domanda scende piuttosto poco (più che altro scende in Europa, ma non in Oriente né in America) mentre i rischi di una nuova guerra mondiale tra Oriente ed Occidente restano elevati. L’unico vero fattore di moderazione risulta dal fatto che, nel complesso, complice anche la riduzione di scambi tra l’Occidente e la Cina, la crescita economica globale sta continuando a ridursi, (in Europa poi è già al di sotto dello zero).

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Ecco perché riteniamo sia possibile parlare di “occhio del ciclone”, cioè di quel momento di relativa calma che arriva quando ci si trova al centro di una grande perturbazione metereologica in movimento, prima che la violenza della medesima riprenda altrettanto fortemente mentre passa avanti. Anche lo shock energetico che sta subendo l’Europa sembra destinato a non finire tanto presto, e contribuisce a innalzare il costo dell’energia globale e, conseguentemente, anche quello dei prodotti di moltissime industrie che ne consumano abbastanza.

Questo, insieme al fatto che, a un certo punto della storia, l’inflazione inizia ad auto-alimentarsi, spinge a far pensare che le tensioni, sui prezzi e dunque sui mercati, non possano che tornare a crescere perché la spesa pubblica crescerà, tanto a causa dei maggiori interessi sui debiti governativi, quanto (soprattutto) per i sussidi che dovranno essere dispensati e per gli armamenti.

GLI ERRORI DELLE BANCHE CENTRALI E DEI GOVERNI

La politica monetaria è passata dall’essere estremamente espansiva a progressivamente restrittiva, costringendo le imprese a trasferire sui prezzi al dettaglio gli aumenti dei costi subìti e limitando la loro possibilità di investire per efficientare la produzione. Una politica monetaria restrittiva poi incide alla lunga anche sulla riduzione del valore degli investimenti finanziari, e contribuisce a ridurre la fiducia degli imprenditori avvicinando il momento in cui la recessione può allargarsi al resto del mondo.

La politica fiscale dei paesi occidentali viceversa è passata dall’essere prudente e orientata alla generazione di migliori incentivi per la transizione energetica a fortemente espansiva. Ma con la consapevolezza che le forti elargizioni alla popolazione non solo non riescono a lasciare invariati i consumi della popolazione (che continuano a scendere perché scende il reddito medio reale disponibile)ma in più alimentano inevitabilmente la domanda di beni e dunque l’inflazione (soprattutto in America) e spingono anche all’instabilità dei mercati finanziari, perché per molte nazioni occidentali sarà sempre più difficile incrementare l’offerta di titoli pubblici a reddito fisso.

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In una parola, l’inflazione sta divenendo strutturale, (nel grafico sopra riportato il CPI l’indice europeo dei prezzi al consumo per abitazioni e servizi di pubblica utilità) così come era successo a metà degli anni ‘70, solo molto più velocemente che allora. La progressiva monetizzazione del debito pubblico peraltro aggiunge instabilità al mercato dei cambi valuta e alimenta, indirettamente, l’inflazione, generando una corsa verso i beni-rifugio quali gli immobili innanzitutto, che però saranno evidentemente più tartassati che in precedenza. (di seguito un confronto dei tassi d’inflazione al consumo rilevata dagli istituti di statistica, dei principali paesi d’Europa).

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NEL BREVE TERMINE PREVALE L’OTTIMISMO

Come la mettiamo quindi con le previsioni di ripresa dei listini azionari e, addirittura, con le speranze di retromarcia sui tassi d’interesse da parte delle banche centrali? Nel breve termine è possibile che esse siano relativamente fondate anche a causa del fatto che la liquidità in circolazione resta abbondante e l’investimento azionario resta senza dubbio preferibile a quello del reddito fisso. Le borse sono spesso totalmente scollegate dall’economia reale e, oltretutto, l’autunno vede importanti appuntamenti elettorali in occidente che spingono a pensare che il “mainstream” diffonderà soprattutto buone e rassicuranti notizie.

Ma oltre l’orizzonte massimo di due-tre o quattro mesi al massimo lo scenario non appare affatto rassicurante. Deve davvero succedere qualcosa di eclatante perché il mondo non cada di nuovo in recessione nel 2023 e i mercati finanziari non ne risentano. I venti di guerra dovrebbero placarsi davvero e il commercio internazionale tornare a crescere. Prima o poi sicuramente succederà ma, al momento, è difficile vedere uno spiraglio di sereno sopra le nubi che si addensano.

Stefano di Tommaso




LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




QUOTARSI IN BORSA NEL 2022

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Guerra, inflazione, possibile recessione stanno tenendo emittenti e investitori più lontani dai listini provocandone forti ribassi che hanno influito pesantemente sulla riduzione, nel corso del 2022, del numero delle Initial Public Offerings (IPO). Ma non le ha cancellate del tutto, anche perché la tendenza di fondo è quella di un incremento del loro numero. Sempre più imprese intendono raccogliere capitali nei mercati regolamentati e, per farlo, avviano un percorso di preparazione che può durare anni. Quando risultano pronte per l’IPO, ma arrivano periodi come questo, spesso non lo cancellano tutto bensì si limitano a rinviarlo. Il che è un bene per listini come quello italiano, dove il numero di società quotate è ancora limitatissimo.

 

LE BORSE SCENDONO…

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A Wall Street (di gran lunga la borsa più importante del mondo, spesso anticipatrice di tutte le altre) l’ultima settimana si è chiusa con un ribasso che non si vedeva dall’inizio di gennaio. La causa di questo violento ribasso è legata all’indice dei prezzi al consumo USA di maggio, che ha raggiunto il livello più alto dal 1981. Il dato ha mostrato un aumento dell’8,6% su base annua e del 6% se si escludono i prezzi di cibo ed energia. Gli economisti intervistati da Dow Jones si aspettavano un aumento su base annua dell’8,3% per l’indice principale e del 5,9% per l’indice core. Il grafico qui riportato mostra l’andamento di Wall Street dall’inizio dell’anno: un calo da 4800 punti a 3900 in soli sei mesi!

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Anche gli altri mercati borsistici hanno vissuto molto male la tempesta scatenata dalle banche centrali. L’indice europeo Stoxx 600 per esempio, perde da inizio anno quasi il 14%.

I dati sull’inflazione americana hanno anche riacceso i timori di una recessione. La fiducia dei consumatori americani è scesa violentemente. La lettura preliminare di giugno dell’indice di fiducia ha toccato un minimo storico: è diminuita del 14% rispetto a maggio, proseguendo la tendenza al ribasso dell’ultimo anno e raggiungendo il valore più basso registrato nella sua storia, paragonabile al minimo raggiunto nel mezzo della recessione del 1980. E in effetti grafici come questo mostrano una decisa probabilità che sia in arrivo una nuova recessione globale!

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…MA POI DI SOLITO RISALGONO…

Tuttavia, come si può intuire dal grafico sotto riportato, i corsi azionari hanno una loro ciclicità durante l’anno solare (scendono nella prima parte e salgono nella seconda) e forse anche stavolta, dopo i pesanti ribassi (linea blu) potrebbe esserci una fase di relativa traslazione laterale, seguita da un rimbalzo a partire dal mese di Luglio (i numeri dell’asse delle ascisse sono quelli delle settimane dell’anno), così com’è successo mediamente negli ultimi trent’anni (linea rossa).

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Certo le vendite in borsa riducono la liquidità disponibile, materia prima essenziale per alimentare il fenomeno dei collocamenti azionari delle matricole di borsa: i cosiddetti Initial Public Offerings (IPO).

LE IPO IN OCCIDENTE OGGI SONO UN DECIMO CHE NEL 2021…

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Il valore delle IPO tra USA e Europa quest’anno è sotto del 90% rispetto allo scorso anno. La raccolta di fondi nei primi 5 mesi del 2022 delle matricole al listino principale delle Borse è scesa a 17,9 miliardi di dollari con 157 IPO contro le 628 dei primi 5 mesi del 2021 e 192 miliardi di dollari raccolti. Il problema però non è soltanto occidentale: a livello globale è andata altrettanto male, con 596 IPO contro le 1237 dell’anno precedente e 81 miliardi di dollari raccolti nei primi 5 mesi, contro i 283 del 2021: cioè un calo del 71%. Certo, in questi numeri si può leggere un calo più vistoso dei mercati euro-americani rispetto a quelli asiatici, ma bisogna aspettare la seconda parte dell’anno per tracciare un quadro affidabile, dal momento che molte IPO sono state soltanto rimandate e potrebbero vedersi da Settembre.

Il comparto delle SPAC ha anch’esso visto una notevole riduzione dei numeri: a Wall Street erano state 613 le matricole con una raccolta di 162 miliardi di dollari, mentre nei primi 5 mesi dell’anno sono state soltanto 19 ma tutte di grandi dimensioni.

…MA IN MOLTI CASI SONO SOLTANTO RINVIATE A TEMPI MIGLIORI

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Cosa succede quindi: sono le imprese non vogliono più quotarsi o è il mercato che non è favorevole ad accoglierle? Il punto focale sembra quello della scarsa liquidità. Guerra, inflazione, possibile recessione stanno tenendo emittenti e investitori più lontani dai listini: magari in autunno potrebbe rivedersi un certo ritorno delle quotazioni, soprattutto in Italia dove resta molto elevato il numero di aziende che non sono quotate e che oggi potrebbero fare tale scelta.

La diminuita probabilità di successo del collocamento azionario rende oggettivamente più sfidante il lavoro di molti mesi che le candidate matricole devono svolgere per poter risultare idonee alla quotazione. Ma lo sbarco sul listino azionario è un’operazione complessa che viene preparata in tempi lunghi (soprattutto dal punto di vista della pianificazione strategica) e comunque che si può realizzare in non meno di un semestre. Dunque è possibile che molte società stiano pensando da tempo a tale scelta e che oggi stiano soltanto rimandando l’operazione a tempi migliori.

OGGI “VANNO” SOLTANTO LE ENERGIE VERDI

Sicuramente poi è un tema di settori industriali: in questo periodo di forti tensioni sul mercato dell’energia è evidente che questo è l’unico comparto non intaccato dai ribassi. E infatti buona parte delle candidate alla quotazione nei prossimi mesi sono proprio aziende del settore, a partire dalla De Nora, che fabbrica elettrodi per ottenere idrogeno, o dalla Plenitude, che vende al dettaglio l’energia rinnovabile prodotta dall’ENI. Come si può dedurre dalla tipologia delle maggiori candidate italiane, non soltanto il settore privilegiato per le IPO è quello dell’energia, ma anche e soprattutto se questa è “verde”! Ma restano sullo sfondo l’intelligenza artificiale, la robotica e la cura della persona. Tutti campi sui quali sarà più probabile raccogliere capitali in borsa.

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Nessuno può negare l’urgenza per gli investitori professionali di accumulare titoli con forti caratteristiche ESG (environmental, social and governance). Ma restano appetibili anche le società che operano nelle biotecnologie, nell’aerospaziale e nelle altre tecnologie “verdi” o che aiutano a risparmiare, perché si ritiene che potranno sostenere più di altre i loro margini di profitto con la prossima recessione. Un settore in piena ripresa poi è quello dell’ “outdoor”, a partire da biciclette e trekking, perché considerato pro-ambiente e privo di ricadute inquinanti. Non a caso un’altra candidata alla quotazione alla Borsa italiana è la storica Selle Royal (accessori per biciclette di alta gamma).

Qualche punto di domanda invece attiene (per il momento) alle imprese del settore alimentare perché, pur appartenendo a un comparto per definizione anticiclico, esse hanno subìto enormi rialzi nei costi delle materie prime lacerando di conseguenza negli scorsi mesi i conti economici, senza che sia così scontata la loro capacità di rialzare corrispondentemente i prezzi di vendita.

MA QUANDO ARRIVA LA RECESSIONE BISOGNA INVESTIRE

La borsa però è anche sinonimo del mercato dei capitali e qui si apre un tema ben più ampio: quali imprese hanno davvero saputo cogliere tutte le opportunità di creare valore per i propri azionisti anche senza ricorrere a maggiori investimenti e capitali di terzi? La risposta molto spesso è: “molto poche”. In tantissimi altri casi le imprese sono affette da scarsa capacità di guadagno perché non hanno investito abbastanza, scegliendo spesso di restare “famigliari” e magari poco aperte all’internazionalizzazione. Sebbene non siano soltanto i capitali investiti a poter garantire migliori performances (molto spesso un problema è anche la qualità delle risorse umane di vertice) è inutile dire che in molti casi la scelta di restare piccoli è perdente.

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Proprio perché viviamo in un mondo caratterizzato da una sempre maggiore velocità dei cambiamenti le imprese devono trovare la capacità di reagire, molto spesso investendo pesantemente, quantomeno per cogliere tre obiettivi strategici fondamentali :

  • poter comunicare adeguatamente sulle piattaforme digitali, potenziare la notorietà del marchio, ottenere potenti stimoli di ritorno dal dialogo con la clientela
  • raggiungere la massima efficienza operativa, per esempio a livello energetico e di economicità della produzione, ma anche a livello distributivo che spesso costituisce una formidabile barriera alla crescita
  • potersi permettere una più accurata pianificazione aziendale, con la quale misurare risultati e performances del proprio staff, nonché per adattarsi più velocemente alle mutate condizioni ambientali e alle crescenti richieste di personalizzazione di prodotti e servizi.

IN BORSA SI RACCOLGONO CAPITALI PER LA CRESCITA

E per investire correttamente occorre non soltanto avere capacità di credito, ma anche poter investire in misura congrua del capitale di rischio, adeguando il livello di quest’ultimo alla sfida che ciascun investimento strategico rappresenta: più è elevata e meno si può sostenere con capitale preso a prestito.

La borsa rappresenta per le imprese che possono candidarvisi un’opportunità da questo punto di vista più unica che rara, dal momento che i sottoscrittori del capitale che vi si può raccogliere non andranno ad incidere sul governo dell’impresa e non pretendono di riaverli indietro con gli interessi. Ovviamente però stanno molto attenti a comprendere se esistono reali opportunità di creazione di valore!

IPO: BUONE OPPORTUNITÀ NON SOLO PER LE IMPRESE

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Ma le matricole in borsa possono rappresentare anche una buona opportunità per chi investe: mediamente le valutazioni d’azienda in occasione dei collocamenti iniziali vengono scontate del 20-30% rispetto al valore teorico. E se guardiamo al listino americano la maggior parte delle imprese che oggi mostrano la più alta capitalizzazione vent’anni fa non c’erano!

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Questo non è di per sé garanzia di guadagno nel sottoscrivere tali offerte pubbliche, ma aiuta poiché soprattutto per la borsa italiana, fortemente dipendente da pochi titoli relativi alle banche e alle public utilities, le IPO sono un’occasione abbastanza rara (e dunque mediamente da cogliere) di diversificazione degli investimenti. Se mettiamo insieme lo “sconto matricola” con l’opportunità di diversificazione degli investimenti, ecco che quelli nelle matricole di bors risulta nel lungo termine vincente.

Stefano di Tommaso




THE CONUNDRUM

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Il mondo si interroga sulla direzione che sta prendendo l’economia globale dopo i ripetuti shock dovuti al virus, all’inflazione e alla guerra, con la speranza di vedere un futuro migliore. Ma molti hanno la sensazione che i problemi non siano ancora terminati. Non soltanto perché l’inflazione sta durando a lungo e perché la guerra (tanto quella “calda” con la Russia in Ucraina, quanto quella “fredda” con la Cina) ha indotto ulteriori problemi di approvvigionamento di energia, materie prime e componenti, ma anche e soprattutto perché adesso è la fiducia degli operatori economici che sta venendo meno. È un guazzabuglio temporaneo? O genererà a sua volta altri problemi, scatenando una recessione globale? Vediamo qual è lo scenario:

 

L’EUROPA

L’Europa sta già oggi affrontando la sua prima vera recessione strutturale dopo quella -durata assai poco- dovuta al lockdown. La piega negativa presa dall’economia nella prima parte dell’anno infatti rischia permanere e gli imprenditori stanno facendo i conti per rivedere di conseguenza le proprie strategie.

La questione fondamentale è se le esportazioni europee potranno riuscire a trainare la ripresa nella seconda parte dell’anno oppure verranno anch’esse travolte dallo “slowdown” globale dell’economia, mentre l’Unione Europea progetta nuove sanzioni alla Russia che di fatto peggiorano la situazione innanzitutto nei paesi più industrializzati e più rigorosamente filo-americani: la Germania e l’Italia. I Francesi invece le sanzioni le hanno di fatto applicate solo a metà mentre gli Spagnoli hanno addirittura appena riaperto tutti i collegamenti con la Federazione Russa semplificandone addirittura le procedure d’ingresso, per favorire la stagione turistica.

Appartenente solo geograficamente all’Europa è poi il Regno Unito, che sta innanzitutto beneficiando del fatto che è un esportatore netto di gas e petrolio, ma che è anche tranquillizzato dal fatto che buona parte del proprio interscambio commerciale proviene dalle ex colonie del Commonwealth, ed è per definizione al momento non a rischio. Non per niente, mentre l’Euro si svaluta la Sterlina si sta rivalutando.

LA CINA

La Cina sta seriamene rallentando la sua crescita economica (parzialmente spinta dalla demografia) anche a causa del severissimo nuovo lockdown imposto ai propri territori meridionali, che però sono i più industrializzati. Le prospettive però sono molto meno grigie di quelle del vecchio continente: la crescita economica sembra innanzitutto trainata dalla domanda interna al Paese e da quella dell’intero continente asiatico e pertanto le prospettive non sono così negative.

La banca centrale cinese sta inoltre continuando ad immettere liquidità nel sistema finanziario, anche per evitare che manchi ossigeno alle imprese e agli investimenti infrastrutturali, contando sul fatto che l’eventuale prosecuzione della svalutazione dello Yuan non è poi così svantaggiosa a casa propria. Ma soprattutto le tensioni della Russia con l’Occidente stanno portando un cospicuo dividendo per la Cina, con le forniture di gas e petrolio a condizioni vantaggiose da Mosca. Lo scenario economico potrebbe essere dunque quantomeno neutrale per la seconda parte dell’anno, se non addirittura positivo.

L’AMERICA

L’America sino ad oggi è riuscita a mantenersi in relativo equilibrio nonostante l’inflazione l’abbia colpita per prima e forse più duramente degli altri Paesi nel mondo: la crescita economica, seppur ridotta, non si è azzerata e la disoccupazione è rimasta molto bassa. La guerra in Ucraina è lontana e, a parte il salasso per il budget nazionale per finanziare armi e munizioni, anzi addirittura ha promosso l’industria bellica che sta facendo affari d’oro in questi mesi. La Borsa però ha accusato il colpo della mannaia della banca centrale che cerca di domare l’inflazione è sono state soprattutto le grandi imprese “tecnologiche” che hanno ridotto drasticamente le previsioni di crescita.

Ma sono i consumi a ridursi decisamente negli Stati Uniti d’America: se c’è un indicatore che normalmente funziona meglio di tutti gli altri per segnalare la salute dell’economia reale questo è l’andamento del settore delle costruzioni residenziali. Quando si contrae è segno che l’economia sta rallentando, anche laddove le statistiche provino ad affermare il contrario. E stavolta il segno meno c’è davvero. Si guardi a questi grafici, tanto relativamente alle vendite di case:

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quanto al riguardo delle previsioni per le costruzioni residenziali dell’anno intero :

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L’America arranca a causa del rallentamento nei consumi: l’inflazione ha addentato largo circa un decimo della capacità di spesa dei consumatori che appartengono alle classi sociali inferiori e questi hanno potuto fare poco per compensare il calo, dal momento che la quota di reddito destinata ai risparmi è notoriamente molto limitata oltreoceano.

Ovviamente la riduzione della domanda di beni è servizi è stata sino ad oggi molto meno che proporzionale al maggior costo della vita, per una moltitudine di fattori, ivi compreso un seppur timido riallineamento verso l’alto (tutt’ora in corso) del livello dei salari. Tuttavia non si può proprio dire che l’economia reale americana non abbia subìto il colpo. Ecco un grafico che lo evidenzia:

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L’ECONOMIA AMERICANA STA UGUALMENTE SOFFRENDO

Il punto non è tuttavia quello che è già successo, bensì ciò che deve ancora accadere: il tasso d’inflazione americano ha raggiunto il suo picco e sta iniziando a volgere verso il basso oppure c’è il rischio che possa incrementarsi ancora? È ovviamente molto difficile rispondere a questa domanda, ma ha anche a che fare con il comportamento futuro di uno dei maggiori poteri economici al mondo: quello della Federal Reserve Bank of America (la banca centrale USA, detta anche FED). Per tre formidabili motivi:

  • perché evidentemente le indicazioni restrittive sin’ora fornite dalla FED per la propria politica monetaria dei prossimi due anni hanno rafforzato fino ad oggi il Dollaro americano, consentendogli di esportare più inflazione di quanta ne importasse,
  • perché se l’inflazione dovesse continuare a crescere la reazione della FED potrebbe generare una nuova importante caduta di Wall Street e infine
  • perché se l’inflazione dovesse proseguire il partito al potere (i Democratici) probabilmente perderebbe le elezioni di medio termine.

Più esattamente:

  1. la FED sta valutando se incrementare ancora la stretta sulla liquidità in circolazione. Se lo farà potrà provocare un altro crollo a Wall Street e spingere la altre banche centrali occidentali a fare altrettanto, provocando problemi ai paesi emergenti e forse anche una recessione globale;
  2. è possibile che -in tal caso- gli operatori giudichino ancora una volta la FED “indietro rispetto alla curva dei rendimenti”, cioè in ritardo nel contrastare gli eventi, dunque con il rischio che le misure adottate non risultino comunque sufficienti e che si verifichi una svalutazione del Dollaro americano (come sta accadendo negli ultimi giorni) dal momento che in tal caso l’incremento dei tassi nominali non basterebbe a contrastare l’inflazione e i rendimenti “reali” resterebbero ugualmente negativi;
  3. l’eventuale ripresa dell’inflazione possa mandare K.O. il partito democratico al Congresso e al tempo stesso quel che resta della credibilità dell’attuale presidente americano, con la possibilità dunque che gli U.S.A. possano cadere nell’ingovernabilità più totale che la storia ricordi.

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Insomma se l’inflazione dovesse continuare la sua corsa al rialzo è possibile che l’economia degli Stati Uniti d’America subisca un duro colpo, e che l’onda lunga di tale disfatta possa devastare di conseguenza le aspettative di ripresa di tutto l’Occidente.

MA QUALE GENESI HA L’INFLAZIONE IN CORSO?

Ma quante probabilità ci sono che l’inflazione continui la sua corsa verso l’alto? Posto che nessuno può davvero sentirsi in grado di rispondere a questa domanda, resta il fatto che possiamo indagare sulle vere determinanti dell’inflazione, per tentare di farcene un’idea. I commentatori si sono sino ad oggi equamente divisi tra coloro che hanno gridato allo shock da offerta di beni e servizi (e il sottoscritto è tra costoro) e coloro che hanno additato principalmente l’eccesso di facilitazioni monetarie e di immissioni di liquidità delle banche centrali, come causa dominante della fiammata inflazionistica.

Ogni ipotesi è buona: la situazione dei prossimi mesi potrebbe risultare molto diversa a seconda che risulti prevalente l’una o l’altra causa del rincaro dei prezzi, oppure entrambe le determinanti potrebbero coesistere e risultare altrettanto “efficaci” nel tenere elevata l’inflazione. Nel primo caso (se lo shock da offerta dovesse risultare prevalente) allora la “stretta” monetaria della FED, arrivando per definizione in ritardo, genererà al massimo una frenata dei prezzi solo “di seconda intenzione”, cioè frenando la crescita dell’economia sino quasi a strangolarla. Nel secondo caso (quello in cui fosse stato l’eccesso di liquidità in circolazione a prevalere come causa determinante nell’ascesa dei prezzi) allora una stretta monetaria potrebbe avere maggiori speranze di risultare efficace nella lotta all’inflazione e senza necessariamente generare una caduta troppo brusca del prodotto interno lordo e magari scongiurando uno scenario di recessione profonda che molti iniziano oggi a pronosticare per l’anno a venire.

SI PROSPETTA UN “AUTUNNO CALDO”

Inutile aggiungere che, qualunque cosa succederà, le prospettive per l’autunno del 2022 sembrano al momento piuttosto grigie. Questo perché -sino a quando l’inflazione dei prezzi non dovesse ritornare a livelli compatibili (2-3% al massimo) con una vigorosa crescita economica globale- difficilmente gli operatori torneranno ad investire a mani basse, è improbabile che le imprese più tecnologiche torneranno al centro dell’attenzione e che gli investimenti per la sostenibilità ambientale torneranno a riprendersi la tribuna d’onore. Di seguito due grafici che ne segnalano il recente andamento (il primo negli USA e il secondo per i principali paesi europei):

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Ma quanto è realistico che l’inflazione si riduca nell’arco di pochi mesi? Per rispondere a questa domanda dovremmo innanzitutto chiederci se le tensioni internazionali potranno consentire un ridimensionamento del costo dell’energia (carbone petrolio e gas, in primis). Al momento è difficile vedere una schiarita nei rapporti tra i maggiori rivali a livello globale (America, UK ed Europa da un lato, Russia Cina e India dall’altro lato). Essi potranno tornare a dialogare, ma è improbabile che lo faranno senza la “pistola sul tavolo”cioè senza alcun allentamento delle tensioni geopolitiche in corso. Il prezzo dell’energia però tende a influenzare buona parte di tutti gli eletti prezzi dei fattori di produzione e se resterà alto allora l’inflazione proseguirà la sua corsa.

L’altro grande tema riguarda la possibilità di espandere la capacità produttiva globale, che sembra oggi limitata a causa dell’estrema vulnerabilità delle filiere di approvvigionamento globale, destinate sì ad essere nel tempo rimpiazzate dal “re-shoring” di molte manifatture, ma non certo nel brevissimo termine. E sintanto che l’offerta di energia, materie prime e commodities non tornerà a correre, è lecito attendersi una relativa stagnazione globale, che comporterà una riduzione del credito disponibile e la riduzione conseguente degli investimenti tecnologici e infrastrutturali nel mondo, i quali a loro volta restano tra le determinanti fondamentali per la creazione di nuovi posti di lavoro.

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E qui viene il bello: la possibile ripresa della disoccupazione potrebbe uccidere la dinamica salariale perché risulterebbe ridotta la capacità negoziale dei lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro. Ma se si prospetta una recessione globale o quantomeno una mancata crescita e se gli investimenti risulteranno ridotti nei prossimi trimestri è plausibile che si distruggeranno più posti di lavoro di quanti se ne creeranno ex-novo. Dunque se il rischio è quello di perdere il proprio impiego sarà difficile se non impossibile per le classi sociali più deboli agguantare la medesima capacità di spesa che avevano prima dell’inflazione.

Se ciò si avvererà si prospetta allora anche un autunno “caldo” dal punto di vista sociale e sindacale in tutto l’Occidente, che andrà a complicare le cose e a incrementare la spesa per il “welfare” (l’assistenza e previdenza sociale), impedendo ai debiti pubblici di fare quel passo indietro che oggi ancora i mercati si aspettano.

IL ROMPICAPO

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Un bel “conundrum” (rompicapo) come direbbe Barak Obama, insomma! Tanto per l’America e il suo zoppicante presidente, quanto per l’intero Occidente .

Con il rischio che qualche conseguenza negativa si potrebbe riscontrare anche per le borse valori, che non potranno non tenerne conto nei multipli che andranno a sostenere i criteri di valorizzazione delle imprese inserite nei loro listini.

E con la quasi-certezza che nessun banchiere centrale potrà avere forza e chiarezza di idee per venirne (presto) a capo perché gran parte dei “ferri del mestiere” (come il Quantitative Easing) li hanno già adoperati. Forse ci vorrebbe una sorta di nuovo Piano Marshall, sostenuto da appositi finanziamenti da parte degli organismi sovranazionali. Ma anche per fare questo ci vorrebbe un periodo di serenità, pace, coesione e collaborazione internazionale. Tutto il contrario della situazione attuale!

Stefano di Tommaso