IN BORSA MAI DIRE MAI!

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Dopo l’improvvisa inversione di rotta degli ultimi giorni diviene più difficile prevedere dove saranno le borse intorno a fine anno. Ogni scenario è lecito, dal momento che sono tutt’ora al lavoro le tendenze che ne hanno scatenato la crescita. Ma sono entrati ancora una volta in gioco dei rischi asistematici dovuti alla quarta ondata pandemica e alle sue possibili conseguenze in termini di risvolti per l’economia reale. Le borse potrebbero sì riprendere la loro corsa la rialzo, ma la volatilità attesa è ai massimi, e la tempistica dei loro movimenti è dunque ben poco prevedibile. Morale: ci sono molte ragioni per le quali il mercato azionario globale potrebbe tornare a risalire, ma il condizionale è d’obbligo: in borsa mai dire mai!

 

IL SELL-OFF

Lo scorso anno di questi tempi l’allarme contagi -ancora in assenza dei vaccini- aveva generato quasi lo stesso panico di inizio pandemia. Stavolta è più complicato prendersela con l’ennesima variante del COVID ma per le borse di tutto il mondo l’allarme degli ultimi giorni ha funzionato alla grande: il sell-off (la svendita dei titoli quotati in borsa) è stato uno dei più avversi della storia borsistica recente. Nel grafico che segue ecco cosa è successo :

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Al calo medio delle borse nel mondo (indice MSCI ALL COUNTRY) di circa il 3% nell’ultima settimana si contrappone un guadagno del 15,50% da inizio anno e di oltre il 20% da un anno fa ad oggi. Per le borse europee è andata all’ingiù in maniera ancora più marcata, dopo una crescita dell’ultimo anno ancora maggiore: l’indice delle principali azioni quotate (STOXX EUROPE 600) è sceso di quasi il 4,5% nell’ultima settimana dopo una crescita di quasi il 20% da inizio anno e di oltre il 22% da un anno fa ad oggi.

LA VOLATILITÀ E’ ALLE STELLE

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D’altra parte ce l’eravamo già detto: con le quotazioni quasi ai massimi storici c’era da attendersi una volatilità in deciso aumento e così è stato. Ora, durante la calma del fine settimana, non è facile orientarsi tra le ondate della tempesta improvvisa che si è scatenata per comprendere qual’è la tendenza di fondo. Ma la sensazione è che questa non sia affatto cambiata. E cioè che sia ancora al rialzo e che il sell-off di questi giorni possa presto essere archiviato come un momento di panico e nient’altro.

I MOTIVI DI OTTIMISMO

Quali motivi per dirlo? Non ci sono grandi patemi d’animo per la crescita economica (le ultime rilevazioni mensili dell’indice dei direttori acquisti delle aziende (il MARKIT) sino positive e battono le aspettative, l’inflazione sembra potersi leggermente attenuare (ed è già una buona notizia). Questo vale soprattutto per le materie prime, mentre per il petrolio c’è un bel po’ di panico, oltre che una tendenza di fondo poco rassicurante, dovuta alla scarsità di materia prima prodotta, rispetto alla domanda.

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Soprattutto c’è il fatto che la situazione pandemica, che qualche colpo di assestamento lo darà di sicuro alla crescita economica globale, costituirà il movente principale (se non la scusa) per spingere le banche centrali a mantenere un atteggiamento accomodante e continuare -di fatto- ad immettere liquidità sul mercato. Cosa che non può mancare di avere effetti positivi sul mercato azionario, in particolar modo intorno a fine anno, quando i gestori di patrimoni devono portare a casa le loro performances, nonché le commissioni che ne derivano.

E’ dunque piuttosto probabile che la corsa delle Borse abbia soltanto avuto uno stop. E poi, come se non bastasse, secondo Goldman Sachs con il nuovo anno sta per riversarsi sul solo mercato azionario americano più di un trilione di dollari di “buy-back” aziendali (cioè di acquisti di azioni proprie da parte delle aziende), ai massimi della storia recente, come mostra il grafico qui riportato:

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IL POSSIBILE “RALLY” DI FINE ANNO

In quest’ottica potremmo anche vedere il sell-off di fine Novembre quasi soltanto come un’ottima occasione per comprare prima che il mercato raggiunga nuovi massimi. Determinati principalmente da un comportamento relativamente razionale di chi investe che risponde all’acronimo di “TINA” (“there is no alternative”: al mercato azionario).

Investire in obbligazioni in un momento in cui i tassi potrebbero salire può risultare infatti più rischioso dell’investire in Borsa, mentre mantenere la liquidità può significare non soltanto perdere delle opportunità di rialzo, ma prima ancora può comportare l’erosione del capitale ad opera dell’inflazione. Che potrà sì diminuire, ma difficilmente si fermerà, come dimostra la situazione dell’estremo oriente, dove la crescita economica si è già ridotta decisamente, ma l’inflazione no! Di seguito un grafico andamento le di USA e UE:

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PERÒ…

Mai dare per scontato il risultato però, perché è altrettanto vero che l’evolversi della quarta ondata pandemica non lo conosce nessuno, così come è vero che un dollaro troppo forte (come è già oggi) rischia di rovinare le feste a tutti, dai paesi emergenti fino agli americani stessi, gettando di conseguenza le borse in un possibile stato di panico.

Senza considerare il rischio che anche il caro-petrolio (che, appunto, rischia di riprendere presto) possa giocare un brutto scherzo all’economia e, di conseguenza, agitare ancora una volta le acque già particolarmente mosse dell’investimento azionario, per l’impatto negativo che può comportare sui profitti di periodo.

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Tutto questo per dire che, se la volatilità per le prossime settimane è servita quasi per certo su un piatto d’argento, persino nel caso in cui le borse dovessero parallelamente tornare a guadagnare nuovi massimi, la festa potrebbe non riguardare tutti. E’ altresì prevedibile infatti al momento l’ennesima rotazione dei portafogli, quantomeno nel caso in cui dovessero essere rispolverate restrizioni a viaggi e movimenti in genere.

Come dice Alessandro Fugnoli (di Kairos) nella sua ultima newsletter insomma: ci vuole anche tanta pazienza: per le banche centrali onde evitare di reagire eccessivamente ad un’inflazione che potrebbe attenuarsi, e per gli investitori per decidere quale strada prendere senza svendere nel momento sbagliato. Sempre che ce la si possa permettere…

Stefano di Tommaso




LE BORSE SALIRANNO ANCORA

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Dove andremo a finire? Possibile che non vi sia limite ai rialzi dì borsa? Nonostante l’inflazione prosegua la sua corsa e la pandemia non demorda, a guardare i mercati finanziari pare proprio sia così. Nonostante i rischi di un crollo (o di elevata volatilità delle quotazioni) aumentino parallelamente ad ogni ulteriore salita degli indici dì borsa, l’orientamento dei mercati è ancora una volta positivo! Una ragione tecnica peraltro c’è e non è da sottovalutare: i tassi d’interesse reali. Mai stati così in basso, e con poche speranze che la tendenza si inverta. Continuerà? Pare proprio di si.

 

I FATTORI CHE ALIMENTANO LE BORSE

La liquidità in circolazione abbonda, l’alternativa ai mercati azionari spaventa (quelli obbligazionari promettono delle perdite, l’oro appare in rialzo ma molto speculativo e le criptovalute ancor di più): non c’è dunque troppo da stupirsi se le borse segnano quasi i massimi livelli di sempre. Ma c’è anche una ragione d’opportunità per la quale i rialzi dei listini potrebbero non finire qui: la fine dell’anno è vicina e i gestori di patrimoni vogliono far segnare delle belle plusvalenze. Ecco dunque che scatta la paura di perdersi il nuovo rialzo! La cosiddetta “fear of missing out”. Sebbene la prudenza consiglierebbe atteggiamenti più cauti, nessuno se la sente di rimanere fuori dai mercati borsistici se ha liquidità nelle mani, tanto più ora che è acclarata un’inflazione galoppante: se tutti i prezzi salgono (compresi quelli delle azioni) ciò che rimane liquido perde valore. L’inflazione dunque in un primo momento alimenta la salita dei listini azionari.

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L’IMMOBILISMO DELLE BANCHE CENTRALI

Oddio, non aspettiamoci che l’inflazione faccia per il momento altri salti quantici: non appare realistico. Anche perché permangono dubbi sul proseguire della ripresa economica. Ma nemmeno è realistico che l’aumento dei prezzi al consumo si dissolva come una nube passeggera, così come in troppi continuano a ripetere: mentono sapendo di mentire. La storiella del “fenomeno temporaneo” le banche centrali dovevano necessariamente raccontarcela, perché non potevano fare diversamente e perché non sapevano (e non sanno) che pesci pigliare. E a forte ragione. Ci sono molti altri fattori da valutare prima di decidere di rialzare i tassi, fra tutti il rischio di innescare una brutta reazione a catena che porti -come è già successo in passato- alla recessione. Poi c’è il rischio -gigantesco- di far saltare la sostenibilità dei debiti pubblici. Insomma la cautela è d’obbligo.

LE STATISTICHE E I TASSI D’INTERESSE “REALI”

Ma l’inflazione può restare anche soltanto ai livelli attuali per generare effetti dirompenti: i livelli oscillano dal 3% al 6% per i prezzi al consumo (in Europa è per il momento più bassa che negli U.S.A. e in Cina è frutto della “media del pollo” tra prezzi di mercato e prezzi amministrati). Ma per i prezzi all’ingrosso è a livelli doppi (cioè dal 6% al 12%) sebbene con una lieve tendenza al ribasso negli ultimi giorni. Non è dunque un fenomeno da sottovalutare e può comportare pesanti conseguenze, anche sui mercati finanziari.

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Tanto per cominciare queste ultime si mostrano in termini di tassi d’interesse “reali”: al netto dell’inflazione essi sono oggi decisamente negativi. Cosa che spinge al rialzo i titoli azionari, dal momento che la maggior parte delle imprese quotate si trova in posizione rialzista con l’inflazione. Ciò che invece appare depresso è il comparto dei titoli a reddito fisso: con l’erosione dei rendimenti reali esso può soltanto perdere terreno, anche perché prende maggior corpo l’aspettativa dì una risalita dei tassi nominali (i risparmiatori vendono titoli a reddito fisso per comperare azioni). E finché la liquidità in circolazione resta sempre molto alta, è difficile pensare che la tendenza possa invertirsi.

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Quello che prima o poi dovrebbe invece scomparire sono le tensioni relative alle filiere produttive così come la carenza di offerta di beni di consumo durevole (come le automobili e gli elettrodomestici) e dei loro componenti. Sebbene ciò avverrà certamente a fronte dì un riallineamento verso l’alto dei relativi prezzi finali.

TALUNE COMPONENTI DELL’INFLAZIONE PERMARRANNO

Ma altre componenti dell’inflazione risultano assai meno volatili: ad esempio se l’economia continuerà a “tirare” sarà più difficile che scompaia la carenza di manodopera qualificata, con la conseguenza che i salari non potranno che crescere, alimentando indirettamente l’inflazione, o almeno il suo permanere. Così come è piuttosto difficile che scompaiano da un giorno all’altro le tensioni sulla domanda di energia, alimentando altrettante tensioni sul prezzo del petrolio, caratterizzato al momento anche da un’offerta rigida. L’allarme climatico può inoltre contribuire a farne crescere il prezzo, a causa di possibili nuove “carbon tax”. E può a sua volta alimentare tensioni sul costo dei trasporti, dal momento che questo costo dovrà tenere conto della necessità di un accelerato rinnovo dei mezzi, per sostituirli con quelli meno inquinanti.

C’è da tener conto anche della necessità per i governi di proseguire talune politiche fiscali espansive, ad esempio in Europa e negli U.S.A. : non soltanto perché ci sono paesi che sono rimasti indietro (come il nostro) ma anche per l’esigenza di finanziare il rinnovamento e l’adeguamento tecnologico delle infrastrutture e dell’efficienza energetica. Giù quindi altri miliardi dai governi a favore di produttori e consumatori, con l’aiuto delle banche centrali che li finanziano. La pioggia di liquidità che si riversa inevitabilmente anche sui mercati finanziari insomma non è destinata ad esaurirsi così in fretta.

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LA RIPRESA ALIMENTA L’INFLAZIONE

Dunque l’inflazione dei prezzi sembra destinata a permanere, oltre che a dilagare anche nei comparti che ne erano rimasti immuni (come in taluni servizi pubblici e nelle retribuzioni orarie), ma soprattutto essa verrà tenuta viva dai rincari del prezzo dell’energia, la cui domanda supera costantemente l’offerta. Soprattutto se l’economia proseguirà la sua corsa (come si può vedere dal grafico qui sotto, aggiornato al terzo trimestre 2020), il prezzo del petrolio farà fatica a scendere.

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Ma se l’inflazione non è quindi passeggera e se le banche centrali faranno fatica a rialzare i tassi d’interesse nominali, allora i tassi d’interesse reali sono parallelamente destinati a rimanere negativi, anche perché la necessità di aiutare i governi a finanziare i più alti debiti pubblici di sempre spinge le banche centrali a non ridurre -al momento- l’offerta di moneta. Anzi: a lasciare che ne cresca la velocità di circolazione, assicurando in tal modo lunga vita all’inflazione.

ECCO PERCHÉ LE VALUTAZIONI SONO DESTINATE A SALIRE

E quella dei tassi d’interesse reali sottozero è la principale ragione per la quale i corsi delle società quotate crescono in borsa. Se infatti alla radice di tutti i metodi sulla valutazione delle imprese rimane il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri che le medesime produrranno, o il loro valore implicito, che prima o poi potrebbe essere monetizzato con una cessione o con un IPO, ecco che il tasso di sconto dì quei flussi prospettici -quando risulta negativo- ne esalta il valore attuale. Soprattutto se si può ragionevolmente ritenere che il tasso di sconto resterà per un po’ di tempo negativo mentre i flussi di cassa aziendali potranno invece anche adeguarsi all’inflazione (e dunque crescere).

Questo meccanismo sembra tra l’altro destinato a far cambiare gli orientamenti in termini dì valutazioni d’azienda: quando le imprese mostrano capacità di crescere e di competere globalmente (o se risulteranno appetibili per altre imprese che vogliono acquisirle) le loro valutazioni sono trainate al rialzo (almeno in termini dì multipli della redditività) dalle logiche che oggi ispirano i mercati finanziari.

Anche se poi le medesime logiche imporranno altresì una più rigorosa selezione tra le imprese più capaci dì investire per rincorrere le nuove tecnologie e quelle che non potranno permetterselo, con una evidente falcidia per queste ultime. Il che però alimenta il flusso di fusioni e acquisizioni, un fattore da sempre positivo per i listini azionari, come si può leggere nel grafico qui sotto riportato dall’andamento del moltiplicatore medio dell’EBITDA (margine operativo lordo) espresso nelle ultime transazioni degli U.S.A.

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PRIVATE EQUITY E OPERATORI INDUSTRIALI SI ADEGUANO

I fondi di investimento di “private equity” sono stati i primi a riconoscere questa tendenza, e a cavalcarla al rialzo di conseguenza. Ma non sono soltanto loro oggi a muoversi con più decisione che mai: tutto il mercato dei capitali ha più mezzi a disposizione e idee più chiare. Dunque anche le valutazioni si adeguano al rialzo.

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Ora c’è dunque da attendersi che anche gli operatori industriali si adegueranno al rialzo delle valutazioni, soprattutto se -insieme ai flussi dì cassa futuri delle imprese che compreranno- essi vorranno portare a casa -uomini e tecnologie che potrebbero non trovare altrimenti. Ecco un altro motivo per il quale le borse potrebbero prenderne atto, chiudendo il cerchio e alzando ancora una volta l’asticella delle valutazioni d’azienda.

Stefano di Tommaso




L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

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Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

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MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

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L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

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Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA ACCELERA, O FRENA?

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La domanda può sembrare bislacca ma non è priva di fondamento, dal momento che ci sembra di assistere ad una sorta di “guerra delle statistiche”. L’economia italiana a leggere le prime pagine dei giornali non ha quasi mai avuto prospettive così floride, mentre i governi di tutto il resto del mondo sembrano essere sull’orlo di una crisi di nervi. Come interpretare il clamoroso divario? Per chi ha pazienza di arrivare a leggere l’articolo fino in fondo, un paio di spiegazioni ho provato a fornirle…

 

CINA E AMERICA FRENANO

Il Sole 24 Ore di Domenica 17 Ottobre‘21 titola a tutta pagina: “nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%“ mentre da ogni parte del mondo arrivano preoccupazioni e segnali d’allarme circa la brusca frenata che sta avendo l’economia mondiale. Da ultima quella della Cina, la cui economia è cresciuta meno delle attese nell’ultimo trimestre soltanto dello 0,2% sul trimestre precedente. L’economia americana, ad esempio, è di nuovo quasi al palo, come si può leggere inequivocabilmente dal grafico qui sotto riportato:

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Questo grafico, pubblicato da Bloomberg il 14 ottobre scorso ma riferito alla settimana precedente è addirittura superato: l’aggiornamento del 15 Ottobre rileva infatti che il medesimo indice è ulteriormente sceso di un altro 0,1% . Il cosiddetto “GDPNow”, relativo alla crescita economica Usa del terzo trimestre che due mesi fa era al 6%, oggi è all’1,2% e si teme che sia in ulteriore contrazione. Se poi vogliamo guardare al di quà dell’oceano nella vicina Germania, le prospettive non vanno molto meglio: l’attesa per fine anno del Pil tedesco sono già passate dal +3,7% al +2,4% e anche qui si teme di dover segnare presto altre riduzioni nell’ultimo periodo dell’anno.

L’ITALIA SI LIMITA AL RIMBALZO

In Italia siamo in un’isola felice allora? La risposta è francamente no, dal momento che l’eredità negativa che il governo Conte ci ha lasciato per il 2020 (quasi meno 9% del PIL e una serie infinita di problemi irrisolti e soltanto rinviati) forse la recupereremo soltanto verso la fine del 2022, come si può leggere dalle stime del Centro Studi di Confindustria, riportate nella tabella qui sotto:

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Stiamo infatti semplicemente rimbalzando dopo il tonfo dell’anno precedente, come farebbe persino un gatto morto lanciato dalla finestra. Altri Paesi nel mondo sono caduti meno di noi con il lockdown (ad esempio la Germania) e hanno fatto prima di noi il rimbalzo, guadagnando posizioni preziose nella competizione internazionale, quella che forse ai politici interessa poco ma all’economia nazionale invece si, dal momento che l’economia del nostro Paese si regge soprattutto sulle esportazioni.

Ma oggi quegli stessi paesi che hanno performato meglio di noi fino all’estate, hanno di nuovo il fiato corto, a causa di una combinazione di fattori negativi quali: l’inflazione, la scarsità i ritardi e i maggiori costi nella fornitura di materie prime e semilavorati, la nuova frenata dei consumi individuali e una maggior cautela negli investimenti industriali. Tutte cose che si può ragionevolmente temere siano presto in arrivo anche a casa nostra. Siamo soltanto sfasati dal punto di vista temporale e questo, per una volta, ci favorisce (almeno nelle statistiche).

UNO SFORZO MEDIATICO

È evidente tuttavia che Confindustria, come pure il Governo, stanno facendo uno sforzo per infondere ottimismo e invitano le imprese a investire il più possibile, segnalando la congiuntura favorevole. E’ un lodevole tentativo di propagare il rilancio (e soprattutto la sua percezione) cui deve andare il plauso degli Italiani se vogliamo tornare a sperare di dimenticare gli anni bui che ci hanno appena lasciato.

In effetti l’Italia era rimasta così tanto indietro negli anni precedenti che oggi è lecito sperare -con gli opportuni scivoli e incentivi- che la ripresa in corso non si fermi tanto in fretta. E poi stavolta le politiche economiche sembrano rivolte nella direzione più corretta, che è quella di favorire gli investimenti (essenziali per alleviare la disoccupazione) e di detassare le innovazioni e le ristrutturazioni.

Anche dal punto di vista del rilancio degli investimenti energetici, della transizione ecologica e dell’innovazione tecnologica le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembrano accompagnate da una indubbia mano forte nelle politiche del governo affinché le risorse europee non vengano sprecate ancora una volta.

I PROFITTI NON CRESCONO PIÙ

Dunque niente male. Ma l’economia globale lancia al tempo stesso segnali di forte preoccupazione, tali da rischiare di mandare all’aria buona parte degli sforzi in corso. Non soltanto l’economia ha frenato bruscamente in quasi tutto il resto del mondo già alla fine del terzo trimestre dell’anno, ma anche il sistema industriale, rappresentato innanzitutto dai colossi multinazionali quotati a Wall Street, mostra segnali di stanchezza, con la previsione di una decisa riduzione della crescita dei profitti alla fine di Settembre, che fino all’inizio dell’estate sembrava invece impetuosa, come si può leggere nel grafico qui riportato:

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I motivi della frenata sono numerosi ed eterogenei (dalla compressione dei margini industriali derivante dal rialzo dei costi -anche energetici- e dai ritardi nei processi produttivi, fino alla scarsità di disponibilità di manodopera qualificata e al rallentamento degli investimenti che ne consegue).

Pertanto difficilmente si può classificare tali motivi come “passeggeri”: sono soprattutto le filiere di fornitura di materie prime e semilavorati ad essere sempre più sotto pressione, anche in funzione delle tensioni geopolitiche, che con l’arrivo di Biden alla presidenza americana si sono soltanto moltiplicate, facendo temere il peggio per il prossimo futuro.

In effetti i tempi di attesa nelle forniture industriali non soltanto si sono dilatati moltissimo a partire dall’estate, ma hanno poi continuato ulteriormente a crescere, come si può leggere dal grafico qui riportato (relativo ai soli microchip, i quali però sono oramai dappertutto):

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A Settembre eravamo arrivati a quasi 22 settimane di arretrato e non ci sono al momento segnali di miglioramento, nonostante il rallentamento nel frattempo intervenuto nella produzione e dunque anche nei loro ordinativi. L’industria automobilistica, come pure quella degli elettrodomestici e degli articoli elettronici, è in ginocchio per questa ragione. E le consegne di prodotti finiti sono calate di circa un quinto del totale!

IL RISCHIO DI STAGFLAZIONE

Del pari, come non bastasse, il costo delle materie prime continua a crescere, come rivela il grafico qui riportato, relativo all’indice dei prezzi delle materie prime (il“Commodity Research Bureau BLS/U.S. Spot Raw Industrials Index”):

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Se ci aggiungiamo che l’indice medesimo è relativo ai prezzi espressi in Dollari americani, i quali si sono rivalutati anche loro, si può comprendere il livello di allarme che, oltralpe e oltreoceano, viaggia sulla bocca di tutti. Di seguito l’andamento dell’Euro contro il suddetto Dollaro, che si è rivalutato del 6-7%, dopo il doppio massimo (classica figura che segnala l’inversione di un trend) segnato durante l’estate:

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Per non parlare della recrudescenza pandemica in corso (di cui da noi stranamente non sembra esserci traccia), in certa misura ampiamente attesa per l’autunno (per fattori stagionali) ma che stavolta sembrava dovesse invece risparmiare almeno una parte della popolazione mondiale a causa dell’incremento di vaccinati. È evidente che -in tutto il mondo- i vaccini sono un bel business ma non funzionano sempre, e che di conseguenza le assenze sul lavoro e i ricoveri ospedalieri contribuiscono anch’essi a frenare la crescita economica e i profitti aziendali!

I timori complessivi fuori dei nostri confini nazionali insomma non sono soltanto relativi ad una possibile precoce inversione del ciclo economico, ma addirittura di arrivare a piombare in una vera e propria trappola da “stagflazione” (stagnazione+inflazione) che spiazzerebbe completamente la posizione delle banche centrali, fino a ieri i principali alfieri degli stimoli alla ricrescita economica. Come si può leggere dal grafico qui riportato, in Germania i prezzi all’ingrosso sono arrivati a crescere del 13% al 30 Settembre (e del 18% rispetto ai minimi dell’anno):

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In Italia invece il presidente di Confindustria -Carlo Bonomi- parla di “rischio prezzi per ora contenuto”! Cosa sta succedendo? L’ondata di buone notizie, persino talvolta false e tendenziose (come quella relativa alle materie prime) fa pensare ad un supporto senza quartiere all’attuale governo Draghi, già da tempo definito “il migliore di quelli possibili”, onde evitare di perdere i contributi europei.

LE RIFORME ANCORA DA FARE

Sono infatti 42 le riforme ancora da far passare in Parlamento negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno, sperando che nel frattempo le tensioni politiche in crescita dopo le elezioni amministrative non arrivino a bloccarle del tutto. Senza quelle riforme è piuttosto probabile che succeda all’Italia ciò che la Commissione Europea ha già fatto con l’Ungheria di Orban: bloccare i fondi! E quelle riforme corrispondono ad una cura da cavallo per il nostro Paese, utile si, ma non priva di ripercussioni anche sociali (si pensi solo all’allungamento dell’età pensionabile, all’incremento degli estimi catastali e all’inasprimento delle normative sulla crisi di impresa).

D’altra parte con l’arrivo del nuovo governo in Germania gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea sono di nuovo messi in discussione e l’Italia è tornata ad essere un sorvegliato speciale. E Draghi vuole evitare che qualcuno al nord del continente pensi che non stia facendo tutto il possibile. La grancassa che stiamo ascoltando insomma sembra da un lato ricordare al resto d’Europa i clamorosi risultati di questo governo “di transizione” e dall’altro lato sembra preludere alla necessità di provocare ancora una volta uno scossone importante non appena si materializzeranno anche nelle statistiche le problematiche già viste all’estero, pur di mantenere la rotta sul fronte delle riforme necessarie per portare a casa i contributi europei!

Stefano di Tommaso