AVVISAGLIE DI RECESSIONE

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Molti segnali indicano la prossimità di una recessione: in Italia forse già in corso, nel resto d’Europa alle soglie, in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti d’America soltanto possibile o comunque non ancora conclamata. Il rischio ovviamente è che la recessione in arrivo si estenda a tutto il mondo e possa auto-alimentarsi. È l’ovvio risultato dell’iperinflazione in atto e delle conseguenze della stessa, a partire dalla rarefazione degli investimenti, dal calo dei consumi e dal rallentamento della velocità di circolazione della moneta.

 

I MAGGIORI COSTI DEI FATTORI PRODUTTIVI

L’Eurozona ha chiuso il mese di Marzo con un’inflazione media del 7,5%. Gli Stati Uniti d’America con il 7,9%. Ma è chiaro a tutti che il meccanismo di trasferimento dei maggiori costi delle materie prime ai prezzi al consumo è appena iniziato. E che dunque la crescita di questi ultimi non potrà che proseguire. Per non parlare dell’inseguimento -molto probabile ma non ancora avviato- al rialzo del costo della vita da parte delle retribuzioni salariali. Anch’esso è da mettere in conto, di necessità, entro al massimo un semestre solare. Se ne deduce che l’inflazione dei prezzi al consumo che le statistiche ufficiali stanno osservando in questo primo trimestre del 2022 è giocoforza soltanto una parte di quella che dovrà palesarsi nei prossimi mesi per effetto dello shock da offerta intervenuto a monte delle filiere produttive, molto tempo prima dello scoppio della guerra. La guerra lo ha solo accentuato.

Ovviamente i rialzi dei costi di materie prime ed energia hanno spesso spiazzato le imprese che li hanno subìti, costringendole a ridurre il volume di produzione e a cercare nuove e più efficienti combinazioni di fattori. E -appunto- non è ancora iniziata la fase di richieste di adeguamenti salariali, che aggiungeranno altri problemi alle imprese medesime. La riduzione dei margini industriali che ne è derivata e che sarà visibile nei prossimi bilanci determinerà un possibile flesso nelle valutazioni aziendali, nonché nel gettito fiscale.

Come si può leggere dal confronto grafico qui sotto riportato, che copre l’arco dell’ultimo ventennio negli U.S.A. , un aumento troppo elevato dei costi di produzione (indicati dal Producer Price Index, misurato sulla scala di destra) conduce tipicamente in qualche mese di tempo ad una decisa frenata della produzione industriale (ISM Manufacturing Index, misurato sulla scala di sinistra):

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LA FIDUCIA DEGLI OPERATORI ECONOMICI NEL MONDO

Il rischio dunque di una recessione prossima ventura riguarda anche gli Stati Uniti d’America, che oggi hanno resistito molto meglio dell’Europa alla sventagliata di rincari. Ma l’indicatore economico più significativo per predire una recessione è sempre stato il calo della fiducia nel prossimo futuro. E ora tanto i produttori quanto i consumatori ora la vedono piuttosto nera. In Italia un segnale davvero inquietante è stato il calo delle vendite delle autovetture: un -30% secco a Marzo 2022 la dice lunga sulla (s)fiducia dei consumatori di casa nostra! Ma anche in Asia la situazione sembra proprio grigia: il Giappone ha registrato un brusco calo da 17 a 14 dell’indice trimestrale Tankan (che misura la fiducia delle aziende) al livello più basso da quasi un anno.

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La Cina sembra invece andare peggio. Sebbene le previsioni (Morgan Stanley) continuino ad indicare la prospettiva di una crescita del PIL cinese di almeno il 4,6% quest’anno (seppure in riduzione rispetto ad attese ufficiali del 5,5%), è soprattutto la fiducia delle imprese che ha subìto il maggior calo: l’indice PMI manifatturiero di Marzo (che lì si chiama Caixin) è calato di oltre 2 punti dal livello di 50,4 precedente, andando a 48,1, e soprattutto scendendo sotto la soglia psicologica di del livello 50, che segna il confine tra previsioni positive e negative. Per la Cina dunque la situazione è quasi peggiore di quella del Febbraio 2020, quando divenne ufficiale la crisi pandemica. Complice anche questa volta il virus, che ha imposto una serie di lockdown regionali in alcune tra le province più industrializzate dell’ex-celeste impero, oltre evidentemente ai rincari di quasi tutte le materie prime e dei costi dell’energia.

Fa inoltre paura non soltanto l’inflazione dei prezzi dei fattori industriali, ma anche il calo tendenziale del commercio internazionale, tanto per i maggiori costi dei noli marittimi quanto per la minore domanda di beni. Non stupisce perciò che le economie più esposte in Europa al possibile calo delle esportazioni siano quelle della Germania e dell’Italia. La prima è più che altro preoccupata per il calo delle vendite di autoveicoli in tutto il mondo (la cui produzione resta centrale per l’economia tedesca) e per la possibilità che le tensioni internazionali portino ad una riduzione degli ordinativi di impianti e macchinari, per i quali la Germania resta la prima esportatrice al mondo.

IL COSTO DELL’ENERGIA È CRESCIUTO DI PIÙ IN EUROPA

Mentre però la Germania ha ancora la possibilità di usare il carbone per produrre energia (con buona pace per la transizione verde) e ha spento le proprie centrali nucleari ma ne ha molte e può riattivarle in pochissimo tempo, L’Italia invece ha un problema in più: la carenza strutturale di risorse energetiche domestiche che, insieme all’elevata tassazione, rende proibitivo il costo per produrre l’energia elettrica. In campo energetico il nostro Paese è il fanalino di coda tra le grandi economie dell’Eurozona, dal momento che anche la Francia se la cava meglio, con un terzo della sua elettricità proveniente dal nucleare, mentre noi continuiamo a smantellare le centrali esistenti (chiuse da anni) e non estraiamo dal sottosuolo che il 6% delle risorse di gas e petrolio che possediamo.

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Sulla piazza finanziaria di New York poi la settimana scorsa è circolato l’allarme che proviene dall’ “inversione della curva dei rendimenti”, ovvero dal campanello d’allarme che suona con l’arrivare a invertire la normale progressione dei livelli dei tassi d’interesse per le durate finanziarie più lunghe: quando infatti i tassi a breve termine superano quelli a lungo termine, molto spesso nel passato è successo che nel giro di qualche mese si sia materializzata la recessione economica.

L’indicazione fornita da tale grafico è sempre stata piuttosto affidabile e, nel contesto generale di tensioni geopolitiche e industriali, essa rischia di essere verificata anche questa volta. Ecco nel grafico qui riportato un rapido confronto storico tra l’ inversione della curva e le fasi di recessione conclamata del recente passato:

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L’indicazione fornita dall’inversione della curva dei rendimenti sembra peraltro venire confermata anche da un altro segnale tipico del rallentamento dell’economia americana: quello della crescita degli stock delle scorte (inventories) superiore alla crescita degli ordinativi ricevuti dalle imprese (new orders): come si può leggere dal grafico qui riportato essa riguarda tanto la Cina quanto gli Stati Uniti d’America :

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LA CONFINDUSTRIA DENUNCIA: LA RECESSIONE È GIÀ IN CORSO

Si aggiunge al coro di cornacchie poi anche la nostra Confindustria, che parla autorevolmente tramite il suo Centro studi (CSC) e il presidente dell’associazione degli industriali, Carlo Bonomi: “nel 2022 il pil crescerà solo di un +1,9 per cento “ con un’ampia revisione al ribasso (-2,2%)” rispetto alle stime di ottobre, quando tutte le previsioni erano concordi su una crescita superiore al 4%. Aggiungendo tra l’altro che questa ipotesi fa riferimento a uno scenario relativamente ottimista, in cui “la durata della guerra è una variabile cruciale” e che da luglio abbia termine o si riducano incertezza e tensioni.

Per gli esperti del CSC poi, a fronte del +2,3% di crescita acquisita per “l’ottimo rimbalzo dell’anno scorso” nella prima metà dell’anno, l’Italia sarà letteralmente in recessione tecnica, poiché il PIL calerà dello 0,2% nel primo trimestre 2022 e dello 0,5% nel secondo. Sempre che -appunto- la guerra in Ucraina non prosegua anche nella seconda metà dell’anno. Ma come sappiamo la guerra ha soltanto accentuato le tensioni sui prezzi di materie prime e semilavorati. Tensioni sorte già a metà del 2021. È spiacevole dirlo, ma la strada per la ripresa perciò rischia di essere anche più lunga!

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Stefano di Tommaso




ECONOMIA DI GUERRA

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Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

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…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

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Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

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Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

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Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

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IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

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COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

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Stefano di Tommaso




OLTRE L’ORIZZONTE

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Cosa succederà di qui a breve? Tutti si sperticano in previsioni catastrofiche e, in effetti, non c’è troppo da stare allegri. Ma oltre l’orizzonte degli eventi (e se non accadrà dell’altro) si può cercare di ragionare per immaginare cosa ci aspetta sulla base delle recenti esperienze. E non tutti i mali vengono per nuocere!

 

LA MISURA ERA COLMA

Tanto tuonò che piovve: la tradizione vuole che la frase fosse esclamata da Socrate dopo che la moglie, avendolo rumorosamente e platealmente redarguito sulla soglia casa, gli rovesciò addosso un vaso d’acqua. Cioè la misura era colma. Quello che non avremmo ragionevolmente ritenuto probabile è successo (l’attacco della Russia all’Ucraina) e l’occidente ha reagito con pesanti sanzioni economiche alla Russia. E non c’è da stupirsi se, dopo tale scelta, e anche la Russia porrà in atto misure simmetriche di ritorsione o se i suoi alleati (Cina in primis) prenderanno ancor più le distanze dall’Occidente. Di seguito l’indice delle materie prime energetiche aggiornato allo scorso venerdì (di pari passo pare che il Petrolio Brent sia giunto a 130$ per barile):

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Ciò danneggia non poco lo sviluppo economico, soprattutto quello dell’Europa. Tuttavia ancora non è chiaro il vero motivo per cui è la Russia ha sferrato l’attacco. Abbiamo ascoltato teorie di tutti i generi e l’unica cosa che abbiamo capito è proprio di non averlo compreso. Le informazioni-chiave sono rimaste occulte e forse non ce n’era da stupirsene. Questo però ricorda la presenza di variabili a-sistemiche nelle possibili previsioni che ci accingiamo a fare, di cui bisognerà tenere conto per non essere troppo sicuri del futuro.

LE BORSE, NEL DUBBIO, HANNO FATTO RETROMARCIA

Le borse -di fronte all’incertezza- hanno supinamente accusato il colpo, con una serie di ribassi che (a livello globale) hanno toccato circa un quinto del loro valore di capitalizzazione. E l’inflazione ha subìto un’impennata ulteriore, che per il momento non viene riportata dalle statistiche ufficiali, ma che non si farà attendere nell’appesantire l’elenco dei danni economici. I tassi impliciti nelle quotazioni dei titoli a reddito fisso sono dì conseguenza saliti ulteriormente, facendone crollare il valore. Lo scenario che si prospetta ai nostri occhi perciò è quello dei postumi di un campo di battaglia. Col rischio di camminare sul terreno ancora minato, ma anche con altrettante opportunità di cui trarre profitto dopo la devastazione intervenuta. Di seguito l’indice più noto relativo all’andamento medio di tutte le borse del mondo (che riporta una perdita da inizio anno di oltre il 12%:

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Chiaramente nulla accade a sproposito. In uno scenario in cui il potere d’acquisto dei consumatori occidentali viene meno a causa degli incrementi dei prezzi, in cui il debito pubblico diviene meno sostenibile a causa del rialzo del costo del debito, e in cui il denaro in circolazione rischia di scarseggiare (se non interverrà la Banca Centrale Europea), allora anche le prospettive di profitto delle imprese si riducono, e inevitabilmente scende il valore intrinseco delle azioni di società quotate in borsa.

MA POI… COSA CI ATTENDE?

Questo però attiene allo shock del momento, non alle prospettive di lungo termine, a meno che anche la guerra in atto, ancora vista dai più come una manovra di neutralizzazione del potenziale militare ucraino, possa estendersi, se non al resto del mondo, quantomeno ad altre zone dell’est europeo (ipotesi improbabile, ma lo era stato anche l’attacco russo).

Però -ai fini di poter valutare correttamente le conseguenze in termini pratici ed economici di ciò che accade- occorre chiedersi di quale termine ai nostri occhi può essere considerato lungo, e quale lo sia agli occhi di chi investe sui mercati. La guerra in atto infatti non sembra destinata a terminare presto, tanto per l’invio ai ribelli dell’Ucraina di armi e supporti da parte dell’Europa, quanto per la determinazione mostrata da Putin in risposta alle provocazioni subite.

La sensazione è pertanto che quella in corso si possa trasformare in una lunga guerra di posizione, dove le truppe della Federazione Russa punteranno a raggiungere un disarmo unilaterale dell’Ucraina e la sua “neutralizzazione” (fino all’instaurazione di un governo di transizione) cercando di non colpire la popolazione civile e le abitazioni, mentre i ribelli (e chi da dietro soffia sul fuoco della rivolta) punterà invece a creare situazioni di panico, a trasmetterne le drammatiche immagini in occidente per giustificarne il supporto logistico, e a trasformare i campi ucraini in qualcosa di simile alle foreste amazzoniche del Vietnam, dove la Russia possa incontrare un notevole impedimento a completare in fretta la sua campagna militare.

Se ciò sarà (ed è piuttosto probabile) si possono prevedere due scenari: che la Russia attenda pazientemente di completare la sua opera secondo le direttive attuali, oppure che possa alzare la posta in gioco, anche grazie al principio del “perso per perso” (dal momento che l’occidente la dipinge già come un regime sanguinario, tanto vale incrementare la pressione militare e terminare prima possibile l’operazione).

LE MACRO-VARIABILI ECONOMICHE

Anche se non sappiamo quale dei due si materializzerà, dal punto di vista economico poco cambierà: gli scenari prospettati sono entrambi negativi per le macro-variabili economiche, che proviamo qui sotto a prevedere :

  1. La tensione alimenta costantemente il rincaro dell’energia e delle materie prime (carbone compreso) e il mondo scopre anche di averne più fame di quanto pensava (nonostante le dichiarazioni sulla transizione verde), mentre i paesi estrattori di petrolio e gas hanno bellamente ignorato l’appello a calmierare i loro prezzi, godendo di extra-profitti.
  2. Tanto gli investimenti quanto gli utili delle imprese probabilmente prenderanno una pausa, contribuendo a deprimere i prodotti interni lordi occidentali e il valore intrinseco delle aziende. E potrebbe frenare anche le fusioni e acquisizioni.
  3. I titoli azionari quotati in borsa di conseguenza potrebbero continuare a scendere ma, come ai tempi del primo impatto da Covid19, le borse hanno già notevolmente anticipato gli eventi con importanti e bruschi cali dei loro listini, dunque una volta che la prospettiva dovesse chiarirsi con la mancata escalation del conflitto, le loro quotazioni potrebbero rimbalzare.
  4. Ovviamente come in tutti i casi di precedenti “cigni neri” le azioni delle imprese quotate (se mai dovessero farlo) non risaliranno tutte allo stesso modo: alcune addirittura potrebbero guadagnarci, altre è possibile che restino depresse, perché questi eventi accelerano sempre il ritmo dei cambiamenti di lungo periodo.
  5. Non è infine chiaro come reagiranno le banche centrali: se si muoveranno nella più completa razionalità, allora dovrebbero prendere atto che l’inflazione è la conseguenza di diversi e successivi shock da mancata offerta e che a nulla servirebbe alzare i tassi, cambiando rotta e inondando di nuovo di liquidità il sistema bancario (che adesso rischia il collasso). Contribuendo così anch’esse alla risalita delle borse e a favorire l’arrivo di nuove matricole. Ma non v’è alcuna certezza in tal senso: la vecchia scuola potrebbe sempre prevalere!

I SETTORI PIÙ A RISCHIO

Se le banche centrali daranno una mano però, abbiamo visto come sia probabile che soltanto i titoli azionari di alcuni settori industriali torneranno a crescere, ed è possibile che stavolta siano soltanto i bond a breve scadenza quelli che risaliranno un po’ di prezzo, dal momento che è divenuto sempre più chiaro che l’inflazione è arrivata per restare, e che non ha ancora finito di scaricarsi a valle e sui beni di prima necessità.

Dunque una parte della “decrescita” economica (seppure le statistiche pubbliche come sempre troveranno il modo di addolcire la pillola) ci sarà per forza, e l’inflazione di molti prezzi al consumo non potrà che proseguire il suo percorso. Tutto questo è molto negativo per i settori tradizionali, per i servizi, per le “vendite al dettaglio” e per i beni voluttuari. Forse con la possibile eccezione di immobili, beni di lusso e beni-rifugio (come l’arte o il collezionismo) che invece troveranno alimento dalla loro funzione di “protezione del valore” dall’erosione inflativa.

E I SETTORI CHE CI GUADAGNANO

Quel che si può tuttavia aggiungere è che -mentre tutto ciò accade- nessuno resterà inerme a guardare (né i governi né gli imprenditori), per diversi importanti motivi, e che quindi possiamo attenderci che ci sarà -oltre all’avvio prosieguo della sempre maggior concentrazione della ricchezza in poche mani- anche una ripresa degli investimenti, degli incentivi fiscali e del finanziamento delle nuove tecnologie, da quelle per ridurre consumi ed emissioni, a quelle per produrre energia verde, fino a quelle per la riduzione di ogni genere di costi, a partire dalla robotica avanzata (innanzitutto volta all’automazione industriale):

LA LIQUIDITÀ E LE INNOVAZIONI POTREBBERO AIUTARE LE BORSE

Così come è successo qualche mese dopo l’arrivo della pandemia insomma, in assenza di un’escalation senza fine della tensione geopolitica (sulla quale -ripetiamo- non ci è possibile in alcun modo fare previsioni sensate) e con un aiutino delle banche centrali, potrebbe accadere quel che successe nella seconda metà del 2020: che le borse si riprenderanno e che le nuove tecnologie torneranno ad essere grandi protagoniste dell’accelerazione del cambiamento dei costumi. Soprattutto però quelle cinesi e americane. Le quali potrebbero risultare le grandi vincitrici della pace che seguirà (speriamo) alla guerra.

Chi ha già venduto perciò in borsa forse ha fatto bene, dal momento che la prosecuzione della rotazione dei portafogli potrebbe riservare altre sorprese. Così come chi ha già effettuato importanti investimenti lo ha fatto probabilmente a sconto sui prezzi futuri. Chi invece sta meditando di farlo adesso (o di entrare sul mercato azionario a questi prezzi scontati) si trova a muoversi in assenza di una tendenza definita. L’eventuale escalation militare poi è tutt’altro che esclusa, anche se ci si rende conto del fatto che sarebbe drammatica.

Non è facile perciò riuscire a interpretare le grandi trasformazioni di fondo dell’economia, onde non imboccare la strada sbagliata! Se non lo si è già fatto conviene piuttosto raccogliere del denaro (a titolo di finanziamenti o di capitale), e attendere invece nell’investirlo.

Stefano di Tommaso




MOLTA LIQUIDITÀ A PIAZZA AFFARI

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Nonostante l’enorme volatilità che ha caratterizzato l’inizio del 2022 per le borse di tutto il mondo, quella italiana sembra promettere relativamente bene per l’anno in corso, e non solo per motivi macroeconomici, ma anche per i numerosi ”Initial Public Offering“ (IPO) in programma quest’anno e per la liquidità che vi sta affluendo. La piattaforma Euronext permette agli investitori istituzionali di osservare contemporaneamente tutti i listini locali, incrementando così l’attenzione verso quelli più periferici come il nostro. E ciò potrebbe risultare decisamente favorevole per sostenere le imprese italiane che vogliono svilupparsi.

 

LA LIQUIDITÀ RESTA ABBONDANTE

Nonostante tutti facciano scongiuri per la guerra in Europa dell’Est e professino cautela per l’anno in corso, dai gestori di fondi e patrimoni sembra trasparire un moderato ottimismo per le borse quest’anno, quantomeno a causa del fatto che i rendimenti reali negativi spingeranno verso l’azionario un probabile travaso dai titoli obbligazionari. In aggiunta possiamo sperare che l’economia italiana continui a recuperare il divario accumulato nei confronti del resto del continente e dì conseguenza i profitti delle imprese possano continuare a crescere, seppure ad un ritmo ridotto a causa del maggior costo dell’energia e dell’elevata tassazione, rispetto alla maggioranza degli altri paesi europei.

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La banca centrale di Francoforte si è poi mostrata sino ad oggi relativamente più accomodante rispetto alle altre banche centrali e per il momento sta continuando ad acquisire titoli pubblici immettendo di fatto altre risorse nel sistema finanziario, seppur ad un ritmo progressivamente decrescente. L’afflusso originato dalla BCE si trasmette indubbiamente anche alle borse e risulta favorevole alle operazioni di IPO, che quest’anno anche in Italia potrebbero risultare particolarmente numerose, come indicato di seguito.

Nel grafico qui sotto riportato: l’andamento dell’aggregato monetario “M1” fino allo scorso Dicembre nell’Eurozona.

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IL FILONE ESG

L’Italia è poi molto orientata ad investimenti in ambito di sostenibilità e questo può favorire l’ottimismo degli investitori, che sono più che mai a caccia di opportunità compatibili con il nuovo “mantra” dei mercati: la sigla ESG. Questa sintetizza i 3 principi cui deve rispondere l’attività delle imprese che vogliono mostrarsi capaci di produrre risultati non solo da punto di vista economico, ma anche nel rispetto della natura e nel favorire il miglioramento sociale dentro e fuori di esse. In particolare: “environmental”, richiama l’impatto di sostenibilità dell’attività per l’ambiente e il territorio, “social“, l’impatto dell’azienda sul contesto socioeconomico in cui è inserita, e “governance” la capacità di mostrare un governo interno diffuso e trasparente.à

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I criteri ESG (e la misura della rispondenza agli stessi da parte delle imprese: il cosiddetto “rating ESG”) sono oggi utilizzati da chi investe per selezionare le migliori imprese dal punto di vista della sostenibilità a lungo termine e le aziende che possono dimostrare di essere più attente al rispetto di questi principi godono pertanto del favore -talora esclusivo- degli investitori. Questi non soltanto si vedono costretti a ruotare i portafogli in direzione di maggior prudenza, ma temono anche che i titoli emessi da imprese non rispondenti a tali criteri possano -nel tempo- subire un progressivo deprezzamento, anche a causa dei vincoli normativi che dovranno sempre più rispondere all’emergenza ambientale.

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E spesso, per i criteri ESG, le imprese italiane, con le loro forti capacità in ambito culturale, artistico, alimentare e ingegneristico, spesso esprimono vere e proprie eccellenze, cosa che può favorire la borsa italiana rispetto a quelle di altri paesi europei.

POSSIBILI I.P.O. PER QUASI 5 MILIARDI DI EURO NEL 2022

Un altro aspetto che potrebbe favorire il listino nazionale è la grande mole di nuove quotazioni in borsa previste per l’anno in corso. Non è passato nemmeno un paio di mesi e la raccolta di capitali in borsa per le imprese italiane si è già approssimata al primo miliardo di euro!

Al momento anzi sarebbero esattamente 752 milioni di euro, senza contare però l’IPO di Iveco a inizio anno -la prima del 2022- che, formalmente, è consistita solo in uno splitting delle azioni della casa madre, ma che di fatto ha reso liquida sul mercato una quota importante di minoranza (per un controvalore di circa 1 miliardo di euro) di un’azienda che capitalizza circa 3 miliardi di euro.

Il settimanale Milano Finanza ha pubblicato un elenco di 5 probabili matricole in probabile arrivo sul listino entro la prima metà dell’anno al solo segmento MTA della borsa di Milano il cui ammontare dei collocamenti potrebbe assommare a quasi un altro miliardo di euro: De Nora, Selle Royal, Chiorino, Shopfully e una SPAC in ambito sostenibile. Totale: almeno altri 800 milioni di euro.

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E potrebbe non essere finita qui. Si parla infatti con insistenza almeno di altre sei importanti IPO (forse tutte all’MTA, con un collocamento medio di almeno una cinquantina di milioni): Fedrigoni, Cantiere del Pardo, Facile.it, Epta, Illy, Thun, OTB (only the brave: Renzo Rosso). Se così fosse, aggiungeremmo ulteriori 300-500 milioni al totale.

Poi sono inevitabilmente in arrivo le circa quaranta matricole del segmento EGM (Euronext Growth Milan, l’ex AIM) la cui raccolta media potrebbe superare quella dello scorso anno (sono 843 i milioni raccolti nel 2021 su 43 IPO), assicurando così una raccolta ulteriore di almeno un altro miliardo di euro a quanto sopra indicato. Si perché forse quest’anno potrebbero essere anche di più. Si può perciò ipotizzare che con queste matricole il totale della raccolta da IPO italiane salirebbe nel complesso a 2,5/2,8 miliardi.

Ma c’è in più la probabilissima IPO della controllata di ENI nelle energie rinnovabili, Plenitude Spa, del valore teorico di 10 miliardi di euro e il cui collocamento azionario al segmento STAR potrebbe da solo assommare ad almeno 2,5 miliardi di euro. Ecco che il totale della raccolta dell’anno svetterebbe perciò a circa 5 miliardi!

E questo importo non conteggia le numerose imprese italiane che al momento hanno scelto di quotarsi alla borsa di Parigi, in quella di Londra o a New York, dove ad esempio la sola D-Orbit ha ottenuto 160 milioni di euro dalla “business combination” con una SPAC di nome Breeze Holdings che l’ha valutata poco più di un miliardo di euro.

Insomma, rispetto all’anno scorso, che già era stato positivo per Piazza Affari, con 49 IPO di cui 44 all’AIM (e una raccolta totale di oltre 2,3 miliardi di euro, di cui circa 844 all’AIM), quest’anno sembra promettere ancora meglio. Ovviamente pesano come macigni sulla possibilità che ciò accada le minacce di guerra e i possibili eccessi di reazione da parte delle banche centrali all’inflazione che, trascinata dal rincaro dei costi energetici, è oramai proiettata a superare la doppia cifra entro la fine dell’anno. Nel grafico che segue un elenco dei principali investitori intervenuti nel corso del 2021, con un’evidente numerosità degli operatori stranieri!

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Le matricole della borsa portano infatti con sé un forte contenuto di innovazione, dinamismo, investimenti e internazionalizzazione. Tutte qualità che aiutano i loro titoli ad andare controcorrente rispetto alle società già quotate e ad attirare capitali sulla nostra piazza..

ALLORA CONVIENE ANCORA INVESTIRE IN BORSA?

Non è affatto detto che la spirale inflazionistica continuerà a lungo, e tutti sperano nella possibilità che le banche centrali mantengano nei prossimi mesi la posizione assunta senza accelerare la risalita programmata dei tassi d’interesse. Se così sarà, allora i mercati non subiranno importanti correzioni e, anzi, la liquidità continuerà ad affluire alle borse, quantomeno per la parte proveniente dal disinvestimento sui titoli a reddito fisso. Nel grafico qui sotto riportato si può vedere che nel mese di Gennaio è andata così a livello globale:

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A questo risultato potrebbero inoltre contribuire anche i proventi dei Programmi Individuali di Risparmio (PIR) che sono ancora in piedi, così come le risorse provenienti dall’estero sulle società italiane più promettenti dal punto di vista tecnologico o dalle prospettive migliori.

Difficile invece anticipare cosa succederebbe qualora lo scenario economico si deteriorasse parecchio. Nei prossimi giorni saranno pubblicati in Europa tanto i dati sull’indice PMI manifatturiero quanto quelli sull’inflazione (CPI). Sarà una misura aggiornata del deterioramento apportato alla crescita economica da parte dell’inflazione dei prezzi, sulla base della quale i mercati valuteranno quanto ottimismo è ragionevole ancora avere.

Sicuramente nei prossimi giorni la volatilità è destinata a restare alta e, nella bagarre, è oggettivamente difficile districarsi tra alti e bassi per valutare l’effettivo andamento dei listini. Ma molti osservatori concordano con una visione moderatamente ottimistica circa i listini borsistici europei.

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TANTO PEGGIO TANTO MEGLIO

Sicuramente i dati macroeconomici in arrivo saranno abbastanza negativi ma la sensazione è che non saranno tali da invertire il clima positivo che si respira in Borsa. E’ possibile che l’importante numero di società che affluiranno al listino azionario possa sfoltirsi in tal caso, perché inevitabilmente le valutazioni risentirebbero della situazione. Ma non è così scontato che l’inflazione produca un ribasso delle borse e una riduzione del numero delle IPO, dal momento che i nuovi collocamenti azionari avvengono sempre a sconto rispetto ai valori teorici di capitalizzazione.

Dunque così come è già successo che gli importanti ribassi visti sulle borse da inizio d’anno non hanno sino ad oggi influito sui programmi di IPO, è altrettanto possibile che molti di questi IPO programmati non vengano cancellati, almeno se non succederà nulla di eclatante. Senza contare il fatto che l’incremento di inflazione potrebbe orientare a maggior ragione gli investitori verso il listino azionario. La borsa valori insomma resta sino ad oggi l’investimento più consigliabile, soprattutto se si tiene conto dell’inflazione e dei conseguenti rendimenti reali negativi offerti dai titoli a reddito fisso.

La maggior parte delle imprese quotate non solo promette un dividendo che talvolta è più ricco delle cedole, ma è anche in posizione rialzista di fronte all’inflazione. I loro titoli azionari possono costituire nel tempo un’ottima riserva di valore, se la frenata dell’economia non arriva sino alla recessione (cosa ad oggi poco probabile).

Stefano di Tommaso