CHI COMPRERÀ TITOLI ITALIANI ?

La storia infinita della fondatezza (o meno) dei timori di insostenibilità del debito pubblico italiano secondo molti commentatori si avvia -con l’arrivo dell’autunno- verso un “momento della verità”. Non si tratta del solito complotto più volte denunciato da questa o quella forza politica bensì del combinato disposto di una serie di eventi che si apprestano ad accadere, dalla fine del Quantitative Easing europeo, alla disaffezione dei capitali verso le piazze finanziarie più marginali, fino al dilemma relativo a come finanziare il deficit nostrano in concomitanza con le promesse elettorali della nuova coalizione politica oggi al governo (che evidentemente non ha facili soluzioni).
 Adesso, dopo i fatti di Genova, ci si è messo anche il tormentone della crisi di affidabilità delle infrastrutture viarie, che richiederà una miriade di interventi in cui bisogna investire capitali, ma non è chiaro da dove arriveranno. La disponibilità di capitali per gli investimenti è funzione diretta dell’appetibilità degli stessi e, se un paese rischia di entrare in una fase di instabilità politica e finanziaria, il mercato si dilegua, come sta succedendo in questi giorni con la fuga dei capitali stranieri dai titoli italiani (tra maggio e giugno gli esteri hanno venduto 58 miliardi di euro di titoli di Stato).
LE RAGIONI DELL’ALLARME
Però bisogna doverosamente notare che, se qualcuno oggi vende i titoli di stato (i volumi di questo Agosto sono decisamente più alti del solito), questo significa per certo due cose:
– la prima è che evidentemente ci sono motivi per allarmarsi (e infatti lo “spread” dei loro rendimenti con i titoli tedeschi è al livello di guardia, poco sotto i 3 punti percentuali),
– la seconda è che evidentemente c’è anche qualcuno che acquista.
CHI COMPRA SONO SOLO LE BANCHE ITALIANE
 Il punto del ragionamento di chi oggi lancia l’allarme sulla possibilità che le cose peggiorino nettamente si basa proprio sulle due suddette considerazioni: i motivi di allarme che determinano il Sell-Off (la fuga) degli stranieri sono più che
oggettivi e poi se coloro che comprano tutto ciò che i primi (s)vendono sono -come sembra- solo le banche italiane (si veda il grafico qui sotto), ecco allora che l’Italia potrebbbe cadere in un “tranello” regolamentare, dal momento che il prestatore di ultima istanza di queste ultime è la Banca Centrale Europea, e non la Banca d’Italia, che ha abdicato alle sue prerogative.

LE BANCHE ITALIANE POTREBBERO ESSERE COSTRETTE A NON COMPRARE PIÙ TITOLI DI STATO ITALIANI

Se infatti il rischio Italia peggiora (a fine Agosto inizia la revisione del Rating Italia da parte di Fitch) e i titoli di stato vengono acquisiti soltanto dalle banche del medesimo Paese, ecco che il loro rating peggiora corrispondentemente, dal momento che sono più esposte al rischio di default del nostro Paese. Dunque, passato un certo limite, la banca centrale europea potrebbe decidere di non voler più rifinanziare le medesime, oppure le normative sulla convergenza bancaria potrebbero mettere uno stop all’acquisto dei titoli di stato oltre una certa quota del capitale “di vigilanza” di quelle banche.

E se ciò accadesse scomparirebbe chiaramente l’ultima specie vivente oggi disponibile ad acquisire, a prescindere da prezzi e rendimenti (siamo tornati sugli scudi), i titoli di stato che devono essere emessi in sostituzione di quelli in scadenza, oltre a quelli nuovi che vengono emessi per finanziare il deficit. La partita dunque diverrebbe molto aspra, e non bisogna faticare granché per prefigurare uno scenario visto già a lungo nell’incubo vissuto dalla vicina Grecia, dove persino gli sportelli bancari avevano smesso di funzionare data la corsa dei residenti a ritirare i depositi in contanti per poterli trasferire altrove.
ALLA RICERCA DI ALLEANZE
Resta perciò aperta la questione iniziale: chi comprerà i titoli italiani? I neo-ministri stanno agitandosi molto (e a ragione) al riguardo, tanto nel dialogo con la banca centrale (Savona è andato a trovare Draghi) e con le altre istituzioni europee (cui chiedono di prolungare il periodo di Q.E. e/o di mostrare se ci tengono alla permanenza dell’Italia nell’euro-zona) quanto con le possibili alternative: le potenze economiche del Pacifico (prima Conte in America e adesso Tria in Cina), cui stanno proponendo vantaggiosi accordi di collaborazione commerciale.
La logica non fa una piega: se i “partners” europei non ci ascoltano facendoci correre il rischio di insolvenza dei conti pubblici, allora magari possiamo aprire le nostre frontiere ad altri partners più generosi, chiudendole ai primi. À la guerre comme á la guerre, insomma!
D’altronde, comunque si giri la frittata, la partita d’autuno per il governo Savini-DiMaio è ardua, e il “ricatto dello spread” che si è già visto avere la capacità di riuscire a terminare il secondo governo Berlusconi, è un rischio che gli attuali leaders non vogliono correre senza provarle tutte, ivi compresa la carta delle alternative all’Unione Europea, se non collabora.
E qui la partita si fa delicata, perché se è vero che sulla parola di un Presidente americano perennemente sotto assedio non c’è da contare troppo, ecco che tornano d’interesse le alternative come la Cina (dove Tria, il ministro dell’economia pentastellato si è recato per un’intera settimana) dato anche il fatto che il fondo di investimento sovrano “Silk Road” possiede il 5% di Autostrade e potrebbe avere un deciso interesse strategico a soppiantare Atlantia e che tanto la Cina quanto la Russia potrebbero trovare interessante investire nelle infrastrutture viarie del nostro Paese (la partita sui titoli di stato si intreccia fortemente con quella della necessità di investimento nelle infrastrutture nazionali).

 
IL RISCHIO DI “CONTAGIO”
Insomma il “circolo vizioso” (doom loop) che rischia di ripetersi è quello già visto nel 2008/2009, quando la crisi di fiducia sulle banche (e tra le banche) aveva a sua volta alimentato le vendite sui titoli di stato fino a creare la voragine globale che ricordiamo.
Ora poiché nel medesimo autunno caldo che si appresta a vivere l’Italia c’è anche il rischio di un “sell-off” sulle borse europee ed americane (sia per i massimi toccati da Wall Street che per il rischio di contagio di quelle europee in caso di allarme sui titoli italiani), ecco che il debito italiano potrebbe avere tutte le caratteristiche per diventare il detonatore di una nuova crisi finanziaria globale e che anche su questo tavolo i ministri penta-leghisti cercheranno di vendere cara la pelle prima di ritrovarsi costretti al commissariamento europeo !
Stefano di Tommaso




VERSO UN “PIANO MARSHALL” ITALIANO

Il Governo Italiano ha fatto chiaramente capire alla comunità internazionale che non intende rimanere indifferente alla tragedia del Ponte Morandi di Genova, che rischia di trasformarsi in una immagine pubblica fortemente negativa per il Bel Paese (dove le infrastrutture collassano perché non sono sufficientemente controllate e dove quindi anche il turismo e il business sono potenzialmente a rischio) e si appresta a dialogare con la Commissione Europea per lanciare un suo piano Marshall per la ricostruzione e la manutenzione delle principali opere pubbliche.
L’iniziativa -un vero e proprio anticipo sulla Manovra Economica d’Autunno- riguarderebbe una miriade di infrastrutture, la parziale ri-nazionalizzazione delle Autostrade per l’Italia (API, il veicolo attraverso il quale Atlantia controlla il 50% delle concessioni autostrada) nonché la ricostruzione di migliaia di scuole, il riassetto di circa 10.000 strade e di parte dei circa 60.000 ponti presenti nel territorio, viene valutata secondo le prime stime non ufficiali in almeno 80 miliardi di euro, anche a causa del pesante ritardo con il quale sono proceduti sino ad oggi gli interventi manutentivi ordinari.
PERCHÉ UN “PIANO MARSHALL”
L’Italia infatti soffre più di altri paesi del ritardo di numerosi investimenti che altrove sono stati spesso finanziati con risorse private ma quasi mai a casa nostra. Gran gran parte delle infrastrutture viarie italiane ha superato infatti i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile associabile alle opere in calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra (anni ’50 e ’60).
Il problema è di grandi dimensioni e di forte impatto mediatico: il costo di un ponte è stato fino ad oggi all’incirca pari a 2.000 euro/mq. dunque le cifre necessarie per evitare altre tragedie come quella accaduta e provvedere all’ammodernamento dei soli ponti italiani più a rischio ammonterebbero a decine di miliardi di euro. Per questo motivo si descrive l’operazione come il “piano Marshall” delle infrastrutture stradali italiane, basato sulla sostituzione di gran parte di esse con nuove opere caratterizzate da una vita utile decisamente superiore ai 50 anni (in buona parte scaduti) del passato.

Si veda in proposito il grafico qui sopra riportato, che mostra investimenti in infrastrutture viarie che si sono mantenuti relativamente stabili in Germania e Francia, sono tornati a crescere in Gran Bretagna, mentre sono bruscamente crollati in Italia con l’arrivo della crisi economica (dai quasi 14 miliardi del 2007 fino a 3,4 miliardi del 2010 e da allora non si sono quasi più ripresi. Nel 2015 ammontavano a 5 miliardi di euro contro gli 11,7 della Germania, i 10 della Francia e i 9 della Gran Bretagna (che ha molti meno chilometri di strade dell’Italia):
Per non parlare dell’andamento generale degli investimenti pubblici in Italia e in Europa (grafico a destra):
UNO STIMOLO AL PRODOTTO INTERNO LORDO
L’iniziativa riguardante gli investimenti infrastrutturali avrebbe anche un secondo interessante risvolto, che è quello di avere tutte le caratteristiche per fungere da importante stimolo al prodotto interno lordo italiano (potrebbe arrivare ad ammontare a un intero punto percentuale in più di P.I.L.) nell’anno in corso e nel prossimo, rilanciando così tanto l’occupazione (che resta stabilmal di sopra del 10%) e gli investimenti produttivi delle imprese che ne saranno coinvolte.

Ultima ma non trascurabile caratteristica di questa iniziativa sarebbe la possibilità di considerare il finanziamento (in deficit rispetto al budget statale) di tali spese pubbliche in maniera differente rispetto alla spesa corrente e, come tale, sembra che possa contare su una prima approvazione informale della Commissione Europea, proprio perché basato su investimenti e dunque potrebbe essere interpretato come cosa diversa dal precedente programma (essenzialmente composto di linea dura con l’Unione Europea e maggiori voci di spesa corrente) con il quale il governo penta-leghista era stato varato.
D’altra parte il reddito di cittadinanza e la “Flat Tax” (la tassa sul reddito fino a 100mila euro ad aliquota unica 15%) di fronte all’immane sciagura di Genova oggi possono anche attendere uno o due semestri (si è stimato che possano costare fino a 6 punti percentuali di P.I.L.) mentre se nel frattempo si potesse registrare una maggior crescita dell’economia -nell’ordine, diciamo, del 2% (in linea con la media europea)- questo potrebbe aiutare non poco ad attuare, in un prossimo futuro, anche le iniziative elettoralmente più rilevanti per la base che ha votato l’attuale maggioranza politica.
ITALIA SORVEGLIATO SPECIALE
L’Italia in questi giorni post-ferragostani è chiaramente il “sorvegliato speciale” delle agenzie di rating di tutto il mondo, ma è anche un enorme macigno che può avere la massa critica per far cadere a pezzi la costruzione europea qualora le sue finanze pubbliche si avvitassero in una sequela di aspettative negative e maggiori tassi di interesse, che significherebbero maggior costo del debito pubblico, il quale a sua volta ridurrebbe automaticamente la sostenibilità del medesimo. Un‘iniziativa volta a contrastare i timori e la sfiducia dei mercati potrebbe giovare molto, così come anche la tempestività della manovra potrebbe aiutare moltissimo alla credibilità del Paese.
L’attesa degli analisti infatti per i nostri conti pubblici è “border-line”, atteso che la crescita economica nel 2018 è vista in calo rispetto a quanto registrato con il governo Gentiloni e che nessuno si aspetta inasprimenti fiscali o innalzamenti delle aliquote IVA (come previsto nel “giugulare” patto di stabilità sottoscritto in precedenza con la Commissione Europea) per contrastare il deficit derivante dalla deriva della spesa pubblica, che ogni anno si incrementa significativamente più del prodotto interno lordo.
UNA “MANOVRA D’AUTUNNO” ANTICIPATA GIOVEREBBE ALLA CREDIBILITÀ INTERNAZIONALE DEL NUOVO GOVERNO
Dunque è piuttosto probabile che con quelle premesse si arrivi a sfondare il tetto del 3% (in rapporto al P.I.L.) del deficit di bilancio e, senza qualche altra notizia di segno positivo, sarebbe difficile convincere la comunità finanziaria internazionale della costanza di sostenibilità del debito pubblico. Sino ad oggi il Ministro Tria si è prodigato in generiche dichiarazioni ma poi non ha detto nulla di più concreto, mentre la delibera anticipata a fine Agosto o ai primi di Settembre di una Manovra Finanziaria d’Autunno (che rischia per altri versi di risultare decisamente “caldo” per il Governo) che risulti compatibile con le esigenze di stabilità sarebbe un atto collegiale dell’intero Esecutivo e potrebbe aiutare moltissimo a ristabilire la fiducia internazionale (e con essa la riduzione del famigerato “spread” con i titoli di stato tedeschi).
Stefano di Tommaso




INFRASTRUTTURE E GIUSTIZIALISMO

Il drammatico caso del ponte Morandi getta una luce sinistra su moltissime opere infrastrutturali realizzate in cemento armato, un materiale dalle grandi proprietà ma con un difetto intrinseco: si deteriora molto in fretta rispetto alle sue alternative (principalmente il metallo). L’esigenza di rimpiazzarle o metterle in sicurezza è molto forte, ma per farlo non si può pensare di arrivare stravolgere lo stato di diritto e di calpestare le regole del mercato dei capitali. Sarebbe un metodo miope che non ci aiuterebbe a raggiungere lo scopo finale.
(PARZIALE) APOLOGIA DEL PONTE MORANDI

Il ponte Morandi era stato proprio progettato male, privo com’era della possibilità che -a fronte di un qualche cedimento strutturale- altre parti del ponte impedissero che venisse giù l’intero manufatto. Ma nel giudicarlo non si può non tenere conto di due fattori fondamentali:

  • all’epoca in cui grandi opere come il “Brooklyn di Genova” (com’era chiamato il ponte in città) furono realizzate c’era anche l’esigenza di ammodernare presto un Paese che viveva ancora di un’economia quasi-rurale e le infrastrutture necessarie erano così numerose che in quegli anni non si poteva andare troppo per il sottile (quanto a sicurezza nei decenni successivi);
  • ma anche i carichi pesanti a cui tali infrastrutture erano sottoponibili erano molto minori da quelli che si sono poi verificati negli ultimi decenni: oggi dove prima transitavano al massimo pulmini e furgoni passano dei mezzi di trasporto infinitamente più pesanti, e soprattutto in numerosità così elevata che si può tranquillamente affermare che un carico complessivo del genere fosse letteralmente impensabile all’epoca della loro realizzazione (cinquanta-sessant’anni fa).


CHI SPENDERA’ I QUATTRINI NECESSARI ?
Insomma la morale è lapalissiana: se da un lato il mondo si evolve e il traffico su strada aumenta ancor più di quanto si potesse sperare in precedenza, sono veramente tante le opere pubbliche del passato da controllare oggi molto meglio, sia in Italia che altrove nel mondo. Ma ovviamente per farlo servono tantissimi denari, che fino a poco tempo fa erano sborsati dalle pubbliche amministrazioni, mentre oggi sono oberate di debiti e scarsamente capaci di proseguire in tale direzione. Dall’altra parte c’è il mercato dei capitali, con le sue regole ma anche con immense disponibilità di cassa.
Si dirà che per fare tutto ciò che sarebbe giusto (mettere in sicurezza, modernizzare, monitorare e ricostruire) ci vogliono tanti, forse troppi quattrini, ma non dimentichiamoci dell’importantissimo flusso di ricavi che le medesime infrastrutture generano già oggi (i pedaggi) e che a maggior ragione essi possono generare in futuro in funzione dei maggiori carichi sopportati! Se non ci fossero stati in precedenza “ trattamenti di favore” nei confronti di una società concessionaria che pretendeva di rimborsare con quegli incassi una grossa mole di debiti contratti per ottenere la concessione stessa (invece che per pagarci nuovi investimenti) se ne potevano prendere moltissime di iniziative, tanto a scopo di sicurezza quanto per migliorare la rete infrastrutturale nazionale!

DA NOI NESSUNO È FESSO…
Ma ci sarebbe voluto un occhio attento e intransigente a dettare legge in tal senso. Mentre abbiamo avuto politici orientati letteralmente all’opposto, ovviamente in cambio di inconfessabili favori e donazioni. Il ponte Morandi non è venuto giù per un terremoto o per un fulmine: è collassato per un evidente difetto strutturale sul quale nessuno ha lanciato l’allarme. Ora nessun Italiano adulto pensa seriamente che i nostri politici siano dei fessacchiotti!

Certo, i drammatici eventi di questi giorni gettano una luce sinistra anche sull’ingegneria che stava alla base del ponte Morandi: un difetto di progettazione già ampiamente esplorato negli scorsi anni che aveva innescato un importante dibattito accademico sulla necessità di intervenire per rimpiazzarlo. Ma a ciò non era seguìta alcuna risposta, nè regolamentare (ad esempio: chiudiamo il ponte o impediamo che ci passino sopra i mezzi pesanti), ne gestionale (ad esempio: avviamo la realizzazione di un nuovo ponte e nel frattempo monitoriamolo meglio).

Per quale motivo ciò potesse accadere sembra oramai una questione assodata: c’era molta “bonarietà” della precedente classe politica (e forse persino della Magistratura) verso il soggetto economico che aveva ottenuto la concessione delle Autostrade per l’Italia, sino al limite di far chiudere a tutti entrambi gli occhi davanti alle evidenze negative ! Non andiamo oltre sulle illazioni riguardanti i possibili motivi che sospingevano tali comportamenti, ma forse è anche per questo che l’attuale coalizione al governo -totalmente alternativa a quella precedente- intende andare con mano pesante alla ricerca delle responsabilità! Non bastano però i funerali di Stato e la pubblica gogna degli amministratori di Atlantia a sanare il problema generale che emerge dalla constatazione dei fatti di Genova : adesso serve fare (presto) qualcosa!
IL RISCHIO CHE IL RIMEDIO SIA PEGGIORE DEL DANNO
Trovare infatti una via di risoluzione dell’attuale situazione giuridico-contrattuale tra lo Stato e Atlantia per passare la gestione delle Autostrade a qualcun altro è affare molto complesso. Persino qualora la magistratura dovesse arrivare a evidenziare in capo a pochi indiscutibili soggetti delle pesantissime responsabilità (cosa quasi impossibile in tempi brevi), non sarebbe comunque facile dare una spallata agli equilibri economico-finanziari che stanno dietro ad una società quotata in borsa dotata di un largo flottante econ quasi tre quarti dell’azionariato di matrice straniera. Difficile pensare insomma di cancellare con un tratto di penna i diritti acquisiti e consolidati da Atlantia (e dagli altri concessionari) sui quali sono state costruite importanti operazioni finanziarie di carattere internazionale. Come si direbbe in Veneto: si rischia che ”xe pèso el tacòn del buso” (il rimedio sia peggiore del danno)!

Ed è qui che l’attuale Governo rischia di scivolare (pur mosso da nobili principi di giustizia e volontà positiva) : nell’agire in maniera incauta davanti a un gigantesco coagulo di interessi e questioni di diritto. Non solo, ma il medesimo trattamento ne verrà riservato a quella società concessionaria che oggi è alla pubblica gogna per i morti di cui è per molti versi direttamente responsabile, un domani dovrà essere usato per tutti gli altri soggetti che gestiscono le altre (numerosissime) infrastrutture che necessitano di ammodernamento nel nostro Paese! Le quali dovrebbero trovare nelle casse pubbliche le risorse per rispondere alle necessità di investimento oppure dovranno essere privatizzate anch’esse, con il rischio che gli eventi si ripetano con riguardo al trattamento che verrà loro riservato.
IL COMPROMESSO, INNANZITUTTO
Ma l’Italia da questo punto di vista è un Paese fortemente bisognoso di interventi infrastrutturali: con una conformazione geografica lunga e stretta e poi anche chiuso com’è tra montagne, valli e costiere scoscese. Senza adeguate infrastrutture il “bel Paese” rischia di pagare molto caro lo scotto della sua bellissima conformazione geografica e di trovarsi un divario con il resto d’Europa anche nei costi di trasporto. Ed è altrettanto ovvio che senza una rinnovata sensibilità nazionale per trovare un equilibrio intelligente tra giustizialismo e stato di diritto, il mercato dei capitali non investirà a casa nostra i molti altri miliardi necessari per rinnovare ed ampliare le nostre infrastrutture, lasciando di conseguenza sempre più a rischio anche la revisione di quelle esistenti. La fine dell’era della corruzione di Stato non passa per la politica del giustizialismo, bensì per la ricerca di soluzioni intelligenti alle scelleratezze dei suoi predecessori.
Stefano di Tommaso




QUANTO VALE ATLANTIA?

Che la concessione delle Autostrade ai pochi gestori privati che se le sono aggiudicate più o meno in assenza di un Processo di gara pubblica sia sempre stato un affare quantomeno „misterioso“ è fatto noto. Più volte i giornali hanno gridato allo scandalo (o hanno finto di farlo) a proposito dei noti rincari delle tariffe autostradali, cresciute nell’ultimo decennio di una percentuale variabile dal 20% sino al 200%, ben al di sopra dunque tanto dell’inflazione quanto della crescita (più o meno negativa) del P.I.L. del Paese. Ma fino a ieri la nazione si era sopita nell’abitudine di tali angherie sino a non farci più caso. I quaranta morti di Genova e il nuovo clima politico invece ne hanno risvegliato la coscienza collettiva e nel mirino della speculazione è finito il maggior gruppo concessionario d’Italia in fatto di autostrade.
CHI È ATLANTIA
Atlantia è una società quotata alla Borsa di Milano che controlla un importante pacchetto di concessioni, per buona parte stradali (non solo in Italia ma anche in Brasile, Cile, India e Polonia), ma anche aeroportuali (i tre aeroporti di Roma, e i tre della Costa Azzurra francese) oltre che diversificate nei servizi di ingegneria, informatica e sistemi di pagamento e infine nelle costruzioni e pavimentazioni stradali.
Nell’immagine qui accanto riportata si indica che i Benetton controllano la società con il solo 30% dell’88% (cioè con il 26,4%) e che la società fa utili netti dopo le tasse di 1,4 miliardi di euro (superiori agli investimenti di 1 miliardo) su ricavi di 6 miliardi (cioè circa il 23,3% del fatturato) con un margine operativo del 62% circa (del fatturato). Interessante notare che la società appartiene a privati italiani soltanto per il 19,9% del flottante che è pari solo al 45,5% del capitale azionario: dunque soltanto il 9% del capitale di Atlantia è in mano a privati Italiani, se si escludono i Benetton e la fondazione CRT. Ma anche contandoli, il totale in mano nazionale non supera il 25% del capitale e stava per divenire la metà se fosse andata in porto la fusione con ACS (autostrade spagnole) controllato dal gruppo di società di costruzione Abertis, operazione al momento in stand-by.
Ma ancora più interessante è il grafico che segue, da cui si evince che le nostre autostrade sono di gran lunga le più care d’Europa, una parte della quale le mette gratuitamente a disposizione di chiunque:

Il gruppo era già noto per la sua “vicinanza” alla politica ma quello che non era noto ai più era il fatto che i famigerati investimenti infrastrutturali che sarebbero stati a fronte degli astrusi calcoli che stavano alla base dei rincari esagerati in realtà non venivano effettuati!

Dalla polemica che infuria dopo i fatti di Genova questo è il dato che emerge più evidente e certifica la poca dirittura morale degli organismi che avrebbero dovuto controllarne l’attuazione (e delle forze politiche che vi stavano dietro), come pure di quelli di gestione della società.
Se questo fatto verrà accertato dalla Magistratura allora non sarà stata del tutto fuori luogo la “boutade” del Governo che intende revocare la concessione delle Autostrade per l’Italia (in sigla ASPI) ad Atlantia innanzitutto, la maggiore concessionaria delle Autostrade italiane con circa 3000 chilometri gestiti su quasi 6000 affidati a soggetti diversi dall’ANAS.. Ovviamente di fronte anche solo a tale rischio ipotetico tutti hanno iniziato a chiedersi quanto vale questa società (e di conseguenza quanto dovrebbe quotare il titolo in Borsa) ?
La polemica è ancor più infuocata se si tiene conto del fatto che la rete autostradale nazionale è al collasso in molti giorni dell’anno anche a causa dei ritardi nell’ampliamento delle carreggiate!
LA POSSIBILITÀ DELLA REVOCA DELLA CONCESSIONE
In teoria il Governo può avviare (come sembra aver fatto) la procedura per la revoca secondo l’articolo 9 della concessione in caso di “grave inadempienza” (tra gli obblighi assunti da Autostrade c’è infatti il “mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse”) con una contestazione formale, dopo la quale al concessionario è concesso un primo “congruo termine” non inferiore a 90 giorni, e un “ulteriore termine non inferiore a 60 giorni per adempiere a quanto intimato ”.
In pratica dunque Atlantia avrebbe però davanti a sè almeno 5 mesi per rimettersi in regola, per poi agire in sede giudiziaria e bloccare tale possibilità. Questo spiega anche perché la stessa si è detta pronta a ricostruire il viadotto in cinque mesi (e non sei o quattro).
Ma l’articolo 9 bis della concessione prevede che “Il Concessionario avrà diritto (…) ad un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione anche per inadempimento del Concedente”. In sostanza, lo Stato sarebbe comunque costretto a risarcire i mancati utili anche in caso di inadempienza accertata (circa € 1 miliardo di utili netti moltiplicato per i vent’anni di durata residua). Niente male per una società che capitalizza in borsa 16 miliardi ! Ovviamente si tratta di una stima della parte di utili che riguardano le concessioni autostradali italiane è sempre nel caso che la revoca le riguardi tutte.
E poi però cosa succederebbe? Assisteremmo al ritorno delle nazionalizzazioni o all’ attribuzione all’ANAS (che oggi gestisce tra l’altro 1000 chilometri di autostrada) degli altri 5870 chilometri appaltati ai privati (di cui 3000 ad Atlantia e 1200 a Gavio)? Oppure si riuscirebbe a cogliere l’occasione della revisione del pasticcio per rilanciare gli investimenti infrastrutturali di-appaltando le autostrade a coloro che sono più disposti a investire in sicurezza e ampliamenti?
Il Governo dovrebbe brigare parecchio per offrire una sponda valida agli oltranzisti della coalizione che vorrebbero agire d’imperio nei confronti della società concessionaria. Più probabile è che venga erogata la mult più alta possibile (€150 milioni) e che il ponte venga rimpiazzato dalla medesima con una spesa di circa 1 miliardi di euro (circa 1,4 euro per azione) oltre a maggiori costi della manutenzione che potrebbero costare meno di altri 3 miliardi per un totale di circa 4-5 euro per azione. Molto meno del calo di 10 euro per azione registrato in questi giorni. Non potendo spingerci oltre nelle ipotesi, cerchiamo allora di capire meglio come il mercato vàluta questa società.
LA VALUTAZIONE DI BORSA DI ATLANTIA
Atlantia al prezzo di 19 euro capitalizza all’incirca 16 miliardi, cioè 13 volte gli utili (P/E ratio), quasi 3 volte il fatturato e 1,8 volte il valore contabile del suo patrimonio netto, dopo copiosi debiti per 28 miliardi di euro residui al 30/6 scorso è un totale dell’attivo di circa €40 miliardi.

Dunque con 3,7 miliardi di euro di EBITDA l’azienda deve sostenere un debito pari a 7,5 volte tale margine: non poco persino per un’azienda così redditizia, soprattutto se dovessero traballare le prospettive di ancora vent’anni di alto reddito e limitati investimenti (720 milioni l’anno scorso).

Se infatti la società dovesse mettere in cantiere investimenti aggiuntivi di circa 2 miliardi di euro il suo cash flow (flusso di cassa netto) diverrebbe pesantemente negativo e la società necessiterebbe di un importante incremento nei mezzi propri, più o meno di pari valore, annacquando l’attuale capitalizzazione di circa il 13%, cioè pari a quei 4-5 euro per azione di cui si scriveva più sopra.
Questo non significa tuttavia che il titolo scenderà ancora, ne che si apprezzerà per tornare alla differenza tra I 28 euro toccati in precedenza (o i 26 prima del crollo) e i 4-5 di riduzione dovuti al crollo del ponte Morandi (dunque da 21 a 23 euro per azione, ben più di quanto quota oggi il titolo), perché a completare il giudizio di valutazione intervengono molti altri fattori, a partire dalle ulteriori prospettive fino al calcolo della redditività prospettica dovuta alla pipeline di ulteriori concessioni, con in più l’incognita della possibile cancellazione “d’ufficio” (e senza rimborso) della concessione API.
Ma se anche lo Stato Italiano dovesse rimborsarle 20 miliardi questa non sarebbe necessariamente una buona notizia per Atlantia, che con quell’importo non completerebbe il rimborso dei 28 miliardi di debito. Persino questa possibilità comporterebbe la necessità di un inevitabile aumento di capitale per sostenere le altre iniziative in corso e ne deturperebbe la valutazione.
COSA PUÒ SUCCEDERE AL TITOLO IN BORSA
Inoltre la volatilità del prezzo del titolo, che sino ad oggi era stata limitata, c’è da attendersi che essa possa crescere significativamente nel prossimo futuro, a meno di una tempestiva fusione della società con qualche altro grande operatore viario internazionale, magari meglio capitalizzato (come la stessa ACS spagnola sopra citata). E senza tale prospettiva questo significherebbe inevitabilmente che la sua valutazione scenderebbe ancora un po’, a parità di tutto il resto.
Difficile perciò tracciare una previsione netta circa la valutazione del titolo, soprattutto dopo i violenti alti e bassi degli ultimi giorni e l’importante ridimensionamento già attuato dal mercato. Quello che si può dire con una certa tranquillità è che la società e anche i suoi azionisti potrebbero trovare dunque un forte giovamento nell’ipotesi suddetta di aggregazione con qualche altro grande operatore internazionale che fornirebbe serenità e sostegno al mercato finanziario. Senza la quale è invece possibile (se non probabile) che il suo Rating venga rivisto al ribasso, spingendo inevitabilmente i grandi investitori oggi presenti nella compagine azionaria di Atlantia a dover abbandonare il titolo.
In assenza di grandi e pesanti iniziative da parte del management (che però è tutto indagato per le probabili omissioni di controlli e misure precauzionali) la spirale discendente della valutazione di Atlantia potrebbe dunque proseguire a causa tanto dela possibile discesa del rating del suo debito (soprattutto in caso di completa revoca delle concessioni italiane) quanto del possibile abbandono di parte della compagine sociale per motivi “statutari”.
(nell’immagine qui sotto un dettaglio della struttura del ponte assai deteriorata dagli agenti atmosferici)

Ma diradate le nebbie dell’incertezza giuridica e gestionale (i suoi amministratori saranno sostituiti?) e gli ulteriori ribassi che ne potranno derivare, i parametri fondamentali del titolo che poi emergerebbero sarebbero probabilmente migliori di oggi, alimentando qualche ricopertura.

Per tutti questi motivi la volatilità attesa nel prossimo futuro di Atlantia è quindi ben più elevata di quella storica, ma per i fegati più forti anche l’opportunità di acquisire a buon mercato un titolo di ampio foottante e con degli ottimi fondamentali può restare valida, soprattutto se si guarda al lungo periodo, fattore essenziale per valutare correttamente la società e che lascia qualche speranza per il futuro.
Stefano di Tommaso