CAPITALI E TECNOLOGIA RIVOLUZIONANO L’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA

Tutti si chiedono cosa succederà all’industria dei veicoli da trasporto (e dei loro componenti), innanzitutto perché essa ha vissuto sino ad oggi un certo numero di anni di grande bonanza e adesso mostra qualche segnale di stanchezza nelle vendite e nei prezzi praticati (è da tempo esclusivamente un mercato di sostituzione), ma anche e soprattutto perché ci aspetta che in esso prendano contemporaneamente piede tre diverse rivoluzioni tecnologiche e di mercato che lo influenzeranno moltissimo:

 

TRE DIVERSE RIVOLUZIONI TECNOLOGICHE SONO IN ARRIVO

– la motorizzazione dei veicoli : (sempre più ibrida-elettrica o mossa da nuove tipologie di combustibile (esempio: idrogeno) e sempre meno diesel, anche in funzione delle esigenze ecologiche e di miglior comfort prestazionale (vibrazioni, rumore, accelerazione, frenata, sospensioni, tenuta di strada…)

– la tecnologia di guida dei veicoli: anche grazie alla digitalizzazione e allo sviluppo delle tecnologie ad essa collegate, ci si aspetta che i veicoli in circolazione saranno animati da grandi intelligenze artificiali, sempre più capaci di farli muovere in sicurezza e autonomamente, sfidando la crescente complessità di ogni contesto (dai centri città ai tunnel alla pioggia o neve),

– La condivisione della proprietà dei veicoli: dal momento che è stimato che ogni veicolo venduto venga utilizzato in media pochi minuti al giorno e che la congestione urbana del traffico spinge inevitabilmente a ridurne il numero in circolazione. Un’esigenza che rimodellerà anche il design dei veicoli, le loro caratteristiche di parcheggiabilità, durabilità e autonomia, data la necessità che ne consegue di poter restare in esercizio per il maggior numero di ore al giorno.

È chiaro che si tratta di tre potentissime ventate di novità che ci si aspetta potranno a breve termine cambiare radicalmente i connotati dell’intera filiera produttiva, ma è ancora più evidente che nessun operatore potrà in futuro fare a meno di importanti collaborazioni con quelli attivi in settori industriali completamente diversi dall’industria tradizionale vdell’auto:

I SETTORI INTERESSATI AL CAMBIAMENTO DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA

– dalla fabbricazione di motori elettrici e dei sistemi di “power train” (gestione della trazione) sempre più efficienti,

– all’industria dei sensori di ogni genere,

– al settore informatico e dell’intelligenza artificiale

– a quello della conservazione dell’energia (batterie e sistemi alternativi, quali le fuel cells),

– fino all’industria dei nuovi materiali, dalla siderurgia al carbonio, al grafene, al vetro e ai nuovi materiali compositi plastici,

– o a quella del design e dell’arredo interno (ivi compresa la pelletteria e gli accessori)

– per finire con l’ergonomia e gli apparati elettro-medicali utili per la prevenzione degli infortuni.

NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA

Se però tutto questo è vero, è altresì realistico pensare che ben poco del panorama industriale nel settore “automotive” prossimo venturo resterà simile a quello attuale!

Con ogni probabilità dunque il “venture capital” e le “fusioni e acquisizioni” (anche e soprattutto trasversali a diversi settori economici) rimodelleranno e ridefiniranno completamente i confini dell’industria dell’auto, i moltiplicatori di valore di ciascun segmento, fino a decretare il successo o la disfatta di vecchi e nuovi gruppi industriali che riusciranno meglio di altri a cavalcare le ondate di rinnovamento sopra descritte.

Il probabile calo delle vendite degli “altri” veicoli e l’avvento di nuove normative che tenderanno a risultare più restrittive nei confronti dei veicoli inquinanti termineranno il lavoro della ridefinizione dell’industria automobilistica. Ovviamente in un tale contesto chi si ferma è perduto!

IL TRIONFO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Ma se c’è un comparto che più probabilmente la farà da padrone è quello dell’intelligenza artificiale, sia nell’attirare i maggiori capitali e i migliori cervelli scientifici dati i moltiplicatori di valore che il mercato finanziario gli riserva, che nella pervasività delle innovazioni che esso determina, anche al di fuori dell’industria della mobilità.


Negli ultimi anni la robotica in generale e l’intelligenza artificiale in particolare hanno attratto le maggiori risorse dei capitali di ventura e la Silicon Valley è oggi tutta un fiorire di start-up tecnologiche focalizzate sulla guida autonoma dei veicoli e su tutto l’indotto che tale industria ha generato. Se va avanti di questo passo il cuore dell’industria dell’auto non potrà che spostarsi in California! Il Giornale della Finanza l’anno passato ha già pubblicato 3 articoli sui cambiamenti in arrivo nell’industria automobilistica : a proposito dell’ auto intelligente , a proposito della sua supply chain, e riguardo al fenomeno del car sharing .

Oggi sono però cresciute, con i capitali dei grandi investitori, grandi compagnie completamente dedite alla tecnologia della guida autonoma come ad esempio ZOOX, che ha recentemente raccolto 500 milioni di dollari per continuare a sviluppare un sistema completo di auto elettrica a guida autonoma (di fatto totalmente alternativa a case come Tesla), valutata implicitamente quasi 3 miliardi di dollari nell’operazione di aumento di capitale. Zoox ha assunto 500 risorse super-specializzate per sviluppare un proprio “robo-taxi” in grado di fare tutto da solo e afferma di esserci sostanzialmente già riuscita!

CAPITALIZZAZIONI DA SOGNO

Le più grandi società della Silicon Valley in concorrenza con Zoox sono peraltro dei colossi come Waymo, la società lanciata da Google nel settore della guida autonoma basata sull’intelligenza artificiale con la collaborazione di Fiat Chrysler e molte altre (BMW, HONDA, INTEL e DELPHI. In una recente intervista al capo analista di UBS Eric Sheridan Business Insider riporta che la sua valutazione come società una volta scorporata da Alphabet (la holding di Google) potrebbe toccare I 135 miliardi di dollari! Per fare un paragone la Ford Motor Co. capitalizza in borsa “soltanto” una quarantina di miliardi di dollari!

La General Motors ha invece acquistato CRUISE alla fine del 2017, valutandola 1 miliardo di dollari. Recentemente (fine maggio 2018) Softbank ha investito nella società 2,25 miliardi di dollari con un aumento di capitale che dovrebbe portarla a controllarne il 20% circa, valutandola implicitamente 11,25 miliardi di dollari.

Ci sono in realtà in questo momento oltre 50 società e filiali di altre aziende che hanno dei veicoli a guida autonoma in circolazione per le strade della California, tutte suscettibili di riuscire a vincere, nelle varie sfaccettature, la corsa all’auto intelligente! Ma soprattutto molte di queste hanno in corso il sorpasso della valutazione della loro casa-madre, quando non sono nate in modo del tutto spontaneo.

LA RIGENERAZIONE DEL SETTORE

Dal momento che le prime a investire in queste start-up sono state proprio le case automobilistiche tradizionali, non è difficile ipotizzare una salutare “rigenerazione” di quell’industria, anche perché sino a ieri a causa dell’oligopolio di fatto che ne preservava margini e quote di mercato, il settore dell’auto era rimasto a fabbricare -affinandole- sostanzialmente le stesse autovetture degli anni ‘90. Forse gli azionisti di controllo dei protagonisti della nuova generazione di costruttori di autoveicoli rimarranno quasi gli stessi, ma le risorse umane, le modalità di lavoro e gli stabilimenti produttivi non potranno che cambiare radicalmente nei prossimi mesi e anni, perché la rivoluzione del settore è in pieno corso!

Stefano di Tommaso




CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO DALLE GUERRE COMMERCIALI?

Difficile aggiungere validi commenti alle tonnellate d’inchiostro che sulla stampa di tutto il mondo si sprecano sui pericoli del protezionismo. Meglio cercare di guardare i fatti che qui vengono riportati con l’andamento degli indici delle borse:

•Globale (indice MSCI WORLD in Dollari) 


•Americana (SP500)


•Europee (Stoxxs Europe 600)

 


•Giapponese (Nikkei)

 



•Hong Kong (Hang Seng)

 



•Cinese (SSEC)


Stupiscono due fatti al di là di ogni considerazione: le principali borse del mondo, che alla fine del 2017 sembravano aver toccato le stelle con un dito, nella prima metà del 2018 non sono quasi affatto discese a livelli più bassi, nemmeno nei Paesi Emergenti (tra l’altro misurate in Dollari che si sono evidentemente apprezzati contro molte valute locali!).

Contrariamente a quanto leggiamo tutti i giorni i risultati che emergono dai grafici che seguono non potrebbero essere più chiari: l’America è quella che ci guadagna di più (nonostante il super-Dollaro) e l’Asia (Giappone escluso) è quella che ci perde. Difficile pensare che gli investitori non abbiano alzato le antenne per cercare di capire prima degli altri cosa sta succedendo. E se non sono fuggiti a gambe levate non vi viene qualche dubbio? Siete sempre dell’idea che Trump sia un pazzo che sta mettendo a ferro e fuoco il mondo?

Le ultime proiezioni indicano che quest’anno il prodotto interno lordo americano crescerà di quasi il 3%, poco meno del doppio di quanto dovremmo fare in Italia e significativamente di più di quanto farà la Germania. Se poi cerchiamo di capire qual’è la vera crescita economica cinese dobbiamo alzare le mani, perché gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che le statistiche (comunque in discesa sul limitare del 6%) siano in realtà tutte falsate e che il vero passo è poco superiore alla metà di quel numero.

Purtroppo il bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti, di commenti di parte e notizie parziali, ci fa talvolta perdere il senso della realtà, convincendoci che la “deriva populista” cui sembra condannato l’Occidente (a partire dalla Brexit) sta distruggendo le basi della società civile cui ci eravamo abituati. Purtroppo è quasi vero l’opposto: i partiti che stanno guadagnando terreno sono votati da un crescente malcontento popolare che le èlites che fino a oggi hanno governato il mondo (e che controllano buona parte della diffusione dell’informazione) non accettano di riconoscere.

Nessuno scrive che l’Europa e la Cina fino all’anno scorso applicavano unilateralmente dazi nei confronti dei prodotti americani e che l’America di Trump aveva più volte chiesto di rimuoverli. Allora Trump è passato ai fatti. E il risultato è che i capitali corrono a sottoscrivere titoli del Tesoro americano e il Dollaro sale, anche perchè le multinazionali riportano a casa la liquidità che prima lasciavano oltre oceano, mentre salari e consumi degli USA crescono a un ritmo superiore a quelli di tutto il resto del mondo.

Stefano di Tommaso




ANCORA TORO A WALL STREET?

Le relazioni commerciali internazionali sembrano in fiamme. Non c’è giornale che non ne parli e non c’è politico al mondo che non ne risulti preoccupato. Donald Trump venerdì scorso sembra aver imboccato una strada apparentemente senza ritorno dichiarando ulteriori dazi e tariffe contro le importazioni dalla Cina per 34 miliardi di dollari (con la conseguente contromisura presa immediatamente da quest’ultima).

 

A questo punto i mercati finanziari sono tutti sotto osservazione, con cali anche vistosi. Tutti salvo quello americano. I mercati borsistici dei Paesi Emergenti sono sotto mediamente del 20% dall’inizio del 2018, ma a queste perdite si devono sommare quelle delle divise valutarie in cui sono espressi i rendimenti delle borse dei Paesi Emergenti. Una vera e propria Caporetto per gli investitori non basati sui dollari, che certamente potrebbe finire per contagiare anche l’America, ma occorre notare che al momento quest’ultima ne è rimasta indenne. E almeno fino alle elezioni di medio termine (Novembre) c’è una certa possibilità che l’attuale tendenza rimanga invariata. Come è possibile?

LA SCOMMESSA DI TRUMP

Trump ha fatto capire che le sue iniziative doganali nascono dal fatto che sino a ieri l’America lasciava entrare i prodotti di chiunque e che era ora di smetterla con atteggiamenti non “simmetrici” da parte degli altri Paesi. Questo potrebbe significare che, di fronte a un passo indietro di cinesi, canadesi, messicani ed europei, anche Trump potrebbe togliere i dazi, ma non possiamo non prendere atto che per i suoi fini l’attuale politica commerciale ha funzionato alla grande! Non soltanto l’occupazione continua a crescere negli USA ma anche e soprattutto i profitti delle imprese stanno volando: ci si attende che i dati del secondo trimestre rivelino una loro crescita oltre il 20% sullo stesso periodo dell’anno precedente.

IL RICATTO CINESE DEL TECHNOLOGY TRANSFER

Nonostante la martellante campagna stampa contro Trump e i suoi dazi, l’opinione pubblica interna al paese tende a dargli ragione. Senza considerare che nei confronti di Paesi Emergenti come la Cina o il Messico esistono anche altri rilevanti problemi sollevati per la prima volta solo da Trump: ad esempio l’imposizione del “Technology Transfer” a tutte le imprese che vanno a investire in Cina senza che ci sia poi una valida tutela delle opere d‘ingegno significa dare la possibilità pratica alle imprese cinesi di copiare i prodotti americani ed europei (per i quali sono stati investiti quattrini in ricerca e sviluppo) per riproporli a basso costo fabbricati illegalmente.

Per non parlare del Messico dove la scarsa sicurezza sociale e sul lavoro spinge tutte le multinazionali ad impiantare siti industriali per poi esportare i manufatti colà prodotti negli USA. E’ chiaro che questo toglie posti di lavoro (o migliori salari) agli operai americani, già assediati dai disperati che varcano illegalmente i confini per cercare direttamente lavoro negli USA facendo loro concorrenza sui salari perché accettano paghe molto basse.

Difficile persino per noi Europei dare torto a Trump su questi ultimi temi. Anche perché per il momento l’America sta attirando capitali da tutto il resto del mondo con il risultato che l’economia americana continua a tirare e le imprese americane a fare -appunto- lauti profitti.

GLI U.S.A. SONO DIVENTATI IL PRIMO ATTORE NELLE ENERGIE

Ciò che poi è passato proprio in sordina è stata l’accelerazione della produzione americana di petrolio e gas, che ha tratto ottimo profitto dall’ascesa dei loro prezzi. Oggi gli USA ne sono diventati più che mai il più importante produttore e non se ne parla molto perché al tempo stesso essi sono anche il loro primo consumatore. Ma questo ancora una volta significa che l’economia americana tira più del previsto, nonostante le statistiche e nonostante le campagne stampa avverse all’attuale Presidente.

Certo le guerre commerciali sono comunque delle guerre e, al di là di un loro utilizzo strettamente tattico, esse non possono mancare di esigere -come tutte le guerre- un tributo di “sangue” anche alle imprese e ai lavoratori americani. E questo è un terreno molto scivoloso per il primo Presidente che ha dichiarato guerra a praticamente tutte le altre nazioni del mondo, perché se dalla sua scelta di rinegoziare gli accordi commerciali su base bilaterale (invece che attraverso gli organismi sovranazionali) non otterrà presto dei risultati sarà allora la sua posizione politica a cominciare a logorarsi. Quello che se ne può dedurre è che probabilmente Trump lo sappia benissimo e che dunque oggi spinge più che mai sull’acceleratore del confronto-scontro sia perché è riuscito a infliggere del dolore alle controparti europee e cinesi le quali adesso stanno finalmente valutando se continuare a rispondere tono su tono alle provocazioni o scendere a compromessi, ma anche perché Trump è il primo che ha altrettanta fretta di fare marcia indietro.

LE GUERRE COMMERCIALI NON POSSONO DURARE ALL’INFINITO

I grandi operatori sui mercati finanziari (quasi tutti americani) lo hanno sempre saputo e sino ad oggi non si sono preoccupati molto delle guerre commerciali, ma se dovranno constatare che l’escalation prosegue e se il gioco dovesse tirare in lungo dovranno prendere atto che questo rischierebbe di produrre forti danni all’economia globale. Se a rischio ci saranno i profitti futuri delle imprese multinazionali americane allora le borse valori potrebbero iniziare a flettere nonostante le numerose buone notizie e contribuire esse stesse a trascinare al ribasso anche la crescita economica globale. Ma Trump non resterà a guardare che questo accada, anche se per farlo onorevolmente egli dovrà mettere a segno delle vittorie almeno parziali, sulla base delle quali egli giocherà la sua chance di fare il buon gesto nei confronti di tutti gli altri “avversari”.

CHI GUADAGNA A WALL STREET: “TECNOLOGICI” E “SMALL CAP”

In ogni caso c’è tuttavia una certa probabilità che la crescita economica americana resti forte per la restante parte del 2018 e che essa riguarderà ancora una volta i titoli tecnologici e le “small cap” (i titoli a bassa capitalizzazione) che sino ad oggi hanno reagito meglio alla riduzione delle tasse. Con buona pace di tutti coloro (tra cui il sottoscritto) che gridano allo scandalo delle iper-valutazioni e mettono in guardia sulla relativa illiquidità dei titoli a bassa capitalizzazione.

La conclusione di questo ragionamento è che se quanto sopra è corretto allora parallelamente alla prosecuzione della tendenza della prima parte dell’anno (Wall Street su
e Europa giù) anche tanta volatilità è ancora una volta attesa per i mesi a venire, mentre scarsa attenzione sarà riservata ai parametri economici fondamentali delle imprese, almeno sintantochè i profitti delle imprese (principalmente quelle tecnologiche) continueranno copiosi.

 

RIALZO FINO A NOVEMBRE?

Dunque potrebbe esserci ancora una volta un rialzo di Borsa (nella sola Wall Street) a breve termine (lo stesso termine entro il quale Trump deve riuscire a invertire la rotta che lo ha portato alle guerre commerciali) e invece una certa probabilità di ribasso delle borse nel medio Termine (cioè dall’autunno in poi), soprattutto se la sua manovra sui dazi non avrà avuto rapido successo.

Ciò vale anche per le quotazioni delle materie prime: nonostante il Dollaro forte (che però non durerà in eterno): il rialzo dei loro prezzi potrà generare la sensazione che una nuova ondata inflazionistica sia alle porte. In quel caso la stretta che la FED (la banca centrale americana) si troverebbe contretta a muovere potrebbe risultare come la classica buccia di banana sulla quale veder scivolare le prospettive di crescita dell’intera economia globale! E con l’ammontare in circolazione di debiti pubblici da sfamare a tassi bassi nessuno pensa che ce lo possiamo permettere! Ma tutte queste sono preoccupazioni marco-economiche che non impattano sull’andamento delle borse, anzi: di solito con l’inflazione che risale (segno di riscaldamento della crescita economica) anche le azioni vanno su.

Dunque, nonostante i rischi legati agli effetti negativi per i Paesi Emergenti (tra i quali tocca oramai annoverare anche il nostro) della risalita dei tassi d’interesse americani, se lo scenario non muta chi ci rimetterà potrebbero essere i Paesi a più bassa crescita economica e i non-produttori di materie prime come gli Europei, mentre chi ci guadagnerà potrebbero essere -oltre a quello americano- i mercati finanziari che più hanno perduto terreno fino ad oggi, come quello cinese.

Ovviamente non ci sono certezze al riguardo e quelle appena esposte sono solo ipotesi. Ma se ci chiedevamo quanto potrebbe durare il prossimo rialzo la risposta sembra abbastanza esauriente: non così poco!

Stefano di Tommaso




BORSE: LE VENDITE ARRIVANO DA LONTANO

I mercati finanziari stanno fronteggiando in queste ore uno dei momenti più contrastati e difficili da inizio anno. I giornali tendono a darne la colpa al successo politico dei partiti cosiddetti “populisti”, oppure alle sanzioni economiche e alle guerre commerciali dell’America, e così pure le autorità monetarie e di borsa vorrebbero provare a minimizzare i timori tentando di indicare prospettive migliori nelle loro previsioni di medio termine. Ma la verità dell’attuale congiuntura economica internazionale rischia purtroppo di superare la peggiore fantasia.

 

L’INFLUSSO DEL SUPER-DOLLARO

Il momento è divenuto difficile innanzitutto a causa del contesto generale valutario, che vede il super-dollaro e i suoi super-rendimenti di una Federal Reserve che non si preoccupa di fargli schiacciare praticamente ogni altra valuta e, soprattutto, di generare un effetto di risucchio dei capitali verso le piazze finanziarie considerate meno a rischio (a partire da New York). L’effetto dell’aumento dei tassi americani si somma poi alle politiche di “tapering”(cioè di marcia indietro dagli stimoli monetari) delle banche centrali creando un clima di attesa per ulteriori cali in borsa.

I CAPITALI FUGGONO DAGLI EMERGENTI MA NON VANNO A WALL STREET

I capitali dunque fuggono dalle altre valute e dai Paesi Emergenti ma non vanno a Wall Street. Preferiscono casomai i Treasuries (BTP a 10 anni americani) se non i veri e propri beni-rifugio. Il fenomeno della fuga dei capitali cioè, unito agli effetti dirompenti (anche perché troppo bruschi) di un fisiologico ritorno alla normalità dei mercati finanziari dopo la sbornia di liquidità che li aveva invasi, significa che quest’ultima sta letteralmente crollando un po’ ovunque (America compresa) e che quindi riuscire a vendere i titoli azionari detenuti dagli investitori risulta oggi parecchio più difficile.

LA MOSSA DELLA CINA

Per contrastare tale deriva la banca centrale della Cina ha appena deciso di far sbloccare dalle banche piccole e grandi dell’ex Celeste Impero riserve obbligatorie per l’equivalente (diretto e indiretto) di 500 miliardi di Dollari (si, avete letto bene: più del doppio del totale delle richieste americane per il riequilibrio della bilancia commerciale) nel tentativo di arginare la fuga dei capitali oltre confine e il crollo dei titoli obbligazionari espressi in Renminbi che farebbe crescere i tassi . Ha anche aggiunto che intende far indirizzare quella montagna di liquidità che si libera per le banche cinesi nella direzione della trasformazione in capitale dei debiti delle aziende più bisognose di supporto, allo scopo di assicurarsi che essa affluisca tutta e subito all’economia reale.

MA NON BASTA NEANCHE QUESTO

Ma la verità è che se anche altri Paesi (il Giappone in testa) procedessero con nuove iniziative di sostegno alla liquidità dei mercati finanziari, oggi nessuno si aspetta che essa basti a invertire davvero l’andamento generale, che vede un improvviso peggioramento delle prospettive per la quasi totalità dei Paesi Emergenti e, di riflesso, anche una forte incertezza per le borse più importanti, dove gli operatori hanno fiutato il rischio di un crollo globale dei titoli azionari e quello, conseguente, di una nuova possibile recessione.

I PROFITTI E I BUY-BACK AZIENDALI NON SONO SUFFICIENTI

Insomma, se fino a un paio di mesi fa poteva sussistere il dubbio se il calo della liquidità in circolazione sui mercati finanziari sarebbe stato compensato (o meno) dall’ottimo andamento dei profitti per le aziende industriali e dai massicci programmi di “buy-back” (alla lettera: “riacquisto azioni proprie”) varati da tutte le grandi imprese del mondo quotate in borsa, oggi quel dubbio si è trasformato in una certezza: assolutamente no! Profitti e buy-back non sono bastati a compensare un bel niente, visto che al calo della liquidità proveniente dalle banche centrali si sono sommate le fughe degli investitori istituzionali dai mercati borsistici e grigie prospettive di crescita per i Paesi Emergenti che a loro volta fanno pensare ad un calo dei consumi di questi ultimi.

IL RISCHIO DI IMPLOSIONE DELLA SPECULAZIONE CHE TIENE ALTI I LISTINI

Dunque un po’ in tutte le borse chi oggi ancora compra titoli sembra essere rimasto insomma soltanto quel famigerato “parco buoi” di antica memoria, che negli ultimi anni si è trasferito dalle stanze dei borsini ai monitor del “trading online” (le compravendite di titoli dal computer di casa), ma che arriva ogni volta troppo tardi a sentire che aria tira. E poi oggi una quota consistente della capitalizzazione complessiva delle borse è data dalla speculazione sui titoli cosiddetti “tecnologici”, che spesso esprimono moltiplicatori del reddito paragonabili a quelli che si vedevano poco prima dello scoppio della bolla speculativa delle “dot com” alla fine degli anni novanta. Il rischio di un loro ritracciamento su valori più congrui è concreto, ma potrebbe trascinare al ribasso tutta Wall Street. In Italia c’è meno speculazione sui titoli tecnologici (che sono quasi tutti stranieri) ma in compenso c’è l’effetto positivo dei cosiddetti P.I.R. (i piani individuali di risparmio, che godono di un consistente sgravio fiscale), ma anche il limite che gli investimenti di questi ultimi vanno in parte su un listino -l’A.I.M.- che è cresciuto piu degli altri e con una scarsa liquidità di fondo.

LO SPETTRO DI UNA NUOVA RECESSIONE

Il quadro complessivo è peggiorato dall’appiattimento della curva dei rendimenti (quelli a breve sono saliti allo stesso livello di quelli a lungo termine) che storicamente è sempre stato il segnale più attendibile dell’arrivo di una nuova recessione economica e dalla discesa generale delle aspettative di crescita dei consumi (se non addirittura un loro calo) anche in Occidente, dettate principalmente dai forti timori della gente di vedere la propria previdenza sociale (o integrativa) per molti motivi largamente insufficiente a garantire una serena vecchiaia o adeguate risorse per sostenere eventuali necessità di cure sanitarie. La risposta a tale certezza perciò è oggi quella di spendere meno e risparmiare di più. Ma non speculando in borsa con la volatilità che è risalita parecchio, bensì cercando titoli a lungo termine con basso rischio.

I DEBITI PUBBLICI NON HANNO FATTO IN TEMPO A SGONFIARSI

Tuttavia in questo quadro di fattori recessivi anche i debiti pubblici della maggior parte delle nazioni del mondo fanno oggi più paura di prima, dal momento che la minor crescita economica attesa rende più difficile che vengano rimborsati. La loro presenza poi costituirà una forte zavorra che frenerà l’avvio di nuove politiche fiscali, senza contare che la tassazione delle imprese è già scesa un po’ dappertutto a minimi storici e che anche sul fronte delle politiche monetarie, di spazio per un loro rilancio ne è rimasto poco alle banche centrali che non hanno fatto in tempo a svuotare i forzieri pieni di titoli recentemente acquistati.

IL POSSIBILE LANCIO DEI GRANDI PROGETTI INFRASTRUTTURALI

Dunque le “munizioni” per pensare di contrastare una nuova -probabile- recessione globale sembrano essere soltanto quelle dei grandi programmi di investimenti infrastrutturali, da finanziare principalmente con il cosiddetto “debasement” valutario, cioè con nuova stampa di denaro da parte delle banche centrali o con titoli emessi a lungo termine emessi da organismi sovranazionali che potrebbero essere rimborsati con i redditi derivanti da ciascun progetto.

L’operazione risulterebbe tecnicamente fattibile (anche perché l’inflazione pare restare bassa e sotto controllo persino adesso che i prezzi del petrolio volano) ma se l’iniziativa non verrà portata avanti presto e con molta decisione essa rischia di non bastare affatto a liberare l’orizzonte dai nuvoloni che si addensano. Donald Trump l’aveva addirittura annunciato prima di essere eletto e potrebbe ancora avere le maggioranze politiche per farlo, ma che ciò possa riuscire ad accadere presto anche in Europa (con i soliti tedeschi che frenano e i francesi che provano a specularci sopra) è tutto sommato piuttosto improbabile.

MA LA FIDUCIA È LA MERCE PIÙ PREGIATA E OGGI SCARSEGGIA

E se sui mercati finanziari la merce più pregiata è proprio la fiducia degli investitori, essa è da sempre anche la più difficile da conseguire. Ecco: l’aspettativa di nuovi massimi di borsa sembra essere esattamente ciò che manca in questo momento, in cui le imprese invece di guardare al futuro investendoci pesantemente usano le loro risorse per acquistare azioni proprie. Visto che la speculazione lavora anche al ribasso possiamo assistere ad un recupero delle borse dovuto alle ricoperture delle posizioni corte, ma i rischi complessivi sono alti e la tendenza di fondo sembra negativa.

Stefano di Tommaso