IL PASTICCIO DEL PRESIDENTE

Tutti ricordano l’incomprensibile diniego del Presidente della Repubblica al ruolo del professor Paolo Savona quale ministro dell’economia, ma pochi conoscono i veri retroscena che pare abbiano movimentato il dibattito sulla nascita del nuovo governo, definito dalla maggioranza delle testate estere “populista”.

 

Eppure dubbi posti dal Professore sull’attuale impostazione del sistema della Moneta Unica sono noti da più di un decennio e più o meno universalmente condivisi dalla maggioranza dei commentatori internazionali: non è l’Euro da mettere in discussione bensì gli accordi che vi sono dietro. Allora come risolvere questa apparente discrasia? Così come fu a suo tempo per l’instaurazione della Moneta Unica, anche per l’eventuale revisione dei meccanismi ad essa collegati, non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

LA PROPOSTA DEI MINIBOT

Nel nostro Paese poco si è parlato di un’iniziativa -quella del Minibot- che provava ad ovviare al fatto che la Pubblica Amministrazione, a causa dei suoi cospicui ritardi nei pagamenti al settore privato, deve mediamente ai cittadini e alle imprese oltre 130 miliardi di euro. Ipotizzare di “cartolarizzare” almeno per una metà (si parlava di 60 miliardi) questo credito della “gente” sembrava una buona idea e un modo per semplificarne la comprensione e l’accettazione era quello di farli emettere in titoli di piccolo taglio (da 100 a 25mila euro), di lasciarli privi di interessi e di permettere di usarli per pagare le tasse. Ma proprio su queste caratteristiche accessorie si è infranta l’iniziativa, che ha finito per allarmare i mercati finanziari ed essere associata alla figura di Paolo Savona.

Se essa infatti non si fosse connotata come emissione di moneta parallela nessuno avrebbe avuto da obiettare: chi ha crediti con la P.A. può ottenere in cambio dei titoli e cercare di smerciarli ad altri. Chi comprerà quei titoli sa che il pagatore ultimo è lo Stato (il cui debito totale verso il resto del mondo rimane il medesimo) mentre la liquidità per comprarli arriva dagli acquirenti, non dallo Stato, che dunque non emette moneta. Facile e indolore in apparenza, no?

SCANDALO!

E invece l’iniziativa, inserita nel “contratto” tra Lega e 5 Stelle, è stata letta come uno scandalo: se lo Stato scambia il suo debito verso coloro che devono ricevere i suoi pagamenti allora sta emettendo propria moneta al di fuori del circuito dell’Euro e dell’ègida della Banca Centrale Europea! Ma perché? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alla premessa : non sono le idee che vengono messe in discussione, bensì casomai le modalità di loro attuazione, l’autorevolezza di chi le propone e il tam-tam dei mezzi di informazione che, ovviamente, gioca un ruolo non marginale nel deformare le une e l’altra.

Il fatto che il professor Savona sia da più di un decennio un fervido entusiasta della Blockchain (il meccanismo di crittografia che assicura le transazioni tra detentori di moneta elettronica come il Bitcoin) e il più volte minacciato abbandono dell’Euro da parte di coloro che lo volevano Ministro dell’Economia, che sono i medesimi a proporre i Minibot, hanno probabilmente fatto la differenza: l’Italia poteva approfittare dell’occasione per emettere i Minibot sotto forma di criptovaluta e, in questo modo, avviare un meccanismo di divisa valutaria parallela all’Euro e al di fuori dei sistemi di pagamento delle banche (che sarebbero state dunque penalizzate dal non esserne intermediarie).

MATTARELLA HA SUONATO INOPPORTUNAMENTE IL TAM-TAM

Ecco allora che il numero di coloro che hanno percepito puzza di bruciato in quell’iniziativa si è allargato a dismisura. Ed ecco che i mezzi d’informazione si sono attivati nel classificarla come un pericolo, mentre agli occhi della comunità europea le idee della Lega non sono mai apparse particolarmente favorevoli e la sua autorevolezza doveva necessariamente essere messa in discussione. Difficile invece commentare il ruolo del Presidente: come abbia potuto prestarsi a tenere sponda ad un teorema tutto da dimostrare è cosa che valuteranno i posteri. Ma già a pochi giorni di distanza da quanto è successo e alla luce del fatto che il governo Lega-5Stelle è nato ugualmente, appare chiaro come quello di Mattarella sia stato un clamoroso errore. (Nel grafico: l’impennata dello Spread)


È possibile che i minibot non arriveranno mai nelle tasche degli italiani, e tuttavia il loro semplice annuncio, con quell’inopportuno annuncio televisivo, ha avuto effetti esplosivi. Vista come una discussione sulla possibilità di lanciare una moneta sovrana parallela, la diatriba sui Minibot e quella su un mancato ministro dell’economia che oggi viene ingiustamente classificato come il capitano del partito No-Euro (ci ha scritto un libro per spiegarlo), ha aumentato il costo della fiducia riconosciuta al nostro Paese, e questo si è tradotto in un aumento dello spread nonché nell’accensione di grandi fanali di attenzione verso il nostro debito pubblico. A pochi mesi dalla chiusura dell’ombrello della BCE sulle emissioni di titoli di Stato e con il rischio di un abbassamento del rating il pasticcio è fatto.

LA CONFERMA DELL’ERRORE

La conferma dell’errore è poi arrivata quando, a governo fatto, si è visto che lo spread è ridisceso (a conferma del fatto che prima di biasimare una nuova coalizione, sarebbe meglio vederla all’opera) sebbene non sia più tornato al livello precedente. Il caso di Pandora si è oramai rotto e c’è da giurare che una serie di altri fulmini cadranno sulla credibilità del Bel Paese proprio mentre cercavamo un rilancio e a ridosso di un brusco rallentamento della nostra produzione industriale, che non può che allargare i dubbi di chi ci deve attribuire un rating. Quante manovre economiche serviranno a questo governo per riportarsi sulla credibilità che avrebbe potuto avere in partenza?


Ne valeva la pena? No, signor Presidente, a meno che il suo obiettivo non fosse opposto a quello da Lei dichiarato a reti unificate: di “salvaguardare i risparmi degli Italiani”!

Stefano di Tommaso




ALLA RICERCA DEL VALORE

Con i tassi di interesse che salgono sui mercati anglosassoni (e non solo) e le prospettive di ulteriori guadagni futuri che scendono, molti investitori stanno “ruotando” i loro titoli in portafoglio (cioè sostituendoli con altri), tanto per posizionarsi in maniera più prudenziale nei confronti dei rischi che corrono sui mercati finanziari quanto per prendere periodicamente beneficio delle posizioni che hanno loro fruttato un bel guadagno.

 

Nessun “guadagno” infatti in Borsa è mai davvero certo sino a quando non lo si è realizzato a titolo definitivo e a titolo definitivo significa solo quando l’investimento è stato liquidato.

Anche per questo motivo stiamo osservando da diversi mesi una certa volatilità sulle borse e -in media- un loro riassestamento: dopo le ascese stellari dell’anno scorso è normale che più di un investitore abbia deciso di prenderne beneficio o semplicemente di cambiare “asset class” (ovvero: categoria di investimenti). Se i titoli che erano cresciuti più velocemente di valore erano quelli cosiddetti “growth” (crescita): tipicamente titoli legati allo sviluppo delle tecnologie e delle vendite online di beni e servizi, oggi quelli che gli investitori cercano nelle loro (prudenti) politiche di reinvestimento sono viceversa principalmente “value” cioè capaci di esprimere intrinseco valore nel lungo termine indipendentemente dalle mode e dalle aspettative dei mercati.

TITOLI “VALUE” E TITOLI “GROWTH”

Non è facile però definire “value” un titolo azionario, dal momento che la sola non appartenenza alla categoria “growth” non lo qualifica per la precedente. Fiumi di parole sono stati spesi negli ultimi cinquant’anni tanto in dottrina quanto nelle analisi finanziarie per cercare di precisare cosa si intende per investimenti “value” senza quasi mai riuscire a sancire principi generali validi, semplici e facilmente riconoscibili.

Uno dei più grandi assertori delle politiche di “value investing” è sempre stato Warren Buffett, il quale tuttavia per primo ha riconosciuto che nelle sue scelte di fondo a volte le sensazioni hanno contato più della razionalità. E poi a lui è andata decisamente bene e oggi, dopo cinquant’anni di attività, egli è uno dei tre o quattro uomini che risultano più ricchi al mondo.

Ma moltissimi altri seguaci delle suddette politiche di investimento hanno dovuto amaramente pentirsi di non aver scelto azioni con forte potenziale di crescita quali ad esempio i titoli “tecnologici”, per poi scoprire che lo stesso Warren Buffett ha scommesso molti miliardi di dollari sulle azioni Apple (forse il più celebre di questi ultimi) e proprio adesso che -con l’approcciarsi della fine di un lunghissimo ciclo di ripresa economica americana- molti si chiedono quanto a lungo le valutazioni di quelle azioni resteranno alle stelle!


REGOLE SPANNOMETRICHE

Dunque se non ci sono (o quasi) regole che aiutino a definire quali aziende possono essere considerate “value” e quali no, come cercare di procedere nella loro selezione ?

Un primo criterio generale può essere quello della prudenza nel tipo di business aziendale e nei criteri di valutazione comunemente applicati a determinate azioni. Se dunque le valutazioni che il mercato esprime si fondano su aspettative stratosferiche o su aree di business non eticamente adamantine o ancora, se il management delle società risulta essere problematico e con idee discutibili e fortemente anticonvenzionali (anche se magari hanno ragione loro, come dimostra il caso di Steve Jobs) , ecco allora che l’investimento in quel titolo può essere considerato speculativo e a rischio. Dunque non necessariamente rispondente a criteri di ordine prudenziale.

Un secondo possibile criterio prudenziale può riguardare il livello di indebitamento delle aziende in questione. Se è molto alto è evidente che è in corso una scommessa: quella che gli investimenti effettuati più che ripagheranno il debito contratto. E’ stata svolta di recente da un analista finanziario (Travis Fairchild per conto della sua casa di investimenti O’Shaughnessy Asset Management) una ricerca sui titoli quotati che esprimevano, in venticinque anni di storia di Walls Street, un patrimonio netto negativo (cioè i debiti superavano gli attivi): ebbene se un investitore dal 1993 al 2017 li avesse evitati avrebbe perduto -in media- un’ottima opportunità di guadagno. Quello che conta, dice Fairchild, è la “qualità “ dei margini aziendali, misurata (nel grafico qui sotto riportato) secondo tre criteri generali: capacità finanziaria, crescita e sostenibilità.


Un modo diverso di approcciare al tema della stima dei valori immateriali -tutt’altro che certo e anzi spesso contraddittorio- può risiedere nella misurazione dell’effettivo valore dei beni posseduti dall’azienda o, più in generale, di quanto si discosta la valutazione complessiva della medesima da quella dei singoli beni che ha in pancia.

IL “CASO” McDONALD

Ma nemmeno in questo caso vi sono grandi certezze, come dimostrano le numerose grandi aziende che esprimono forti valutazioni di beni immetariali, come il marchio o l’avviamento. L’esempio riportato da Fairchild di McDonald è forse il più eclatante: il valore del suo marchio è riportato in bilancio per un misero paio di miliardi di dollari ma è stimato valerne all’incirca quaranta!


Il punto è che le politiche di bilancio (che non possono che rispettare le regole contabili) spesso spingono le imprese a sottostimare il valore dei beni immateriali. Dunque e tiare le aziende che esprimono forti valutazioni di beni immateriali può non essere una regola generale di stima della rischiosità implicita dell’investimento.

E’ probabilmente questa intrinseca difficoltà a definire i criteri di selezione delle aziende “value” (cioè che esprimono maggiormente un valore intrinseco sottostante e una miglior sostenibilità nel lungo termine della loro posizione competitiva) e a separare questi criteri da quelli, molto meglio individuabili, della ciclicità o anti-ciclicità del loro business, che fa si che la ricerca del valore nascosto resti soprattutto un’arte, non una scienza.

Il che non toglie il fatto che, quando le nuvole si addensano sulle borse di tutto il mondo e si tende a prepararsi al peggio, quest’arte sia la più richiesta…

Stefano di Tommaso




IL DOLLARO FORTE AGITA I MERCATI

Il mese di Maggio si è aperto nel peggiore dei modi per i mercati finanziari dei Paesi Emergenti: l’innalzamento dei tassi d’interesse a lungo termine sul mercato americano oltre la soglia psicologica del 3% sembra aver innescato un violento spostamento di capitali da quei mercati alle grandi piazze finanziarie internazionali e ha costretto le banche centrali di numerose economie “periferiche” ad alzare considerevolmente i tassi locali d’interesse.

 

Il caso più eclatante è stato quello dell’Argentina, che ha visto arrivare il proprio Peso a scendere del 22,5% dall’inizio dell’anno contro il Dollaro, per poi risalire del 7% quando la banca centrale ha portato d’un colpo i tassi interni di interesse per il rifinanziamento dal 27,25% al 40%.

Il problema però della fuga dei capitali dall’Argentina sembra solo tamponato con l’incremento dei tassi d’interesse, dal momento che il principale timore degli operatori economici che spostano i loro capitali verso piazze più sicure fuggano sembrano quelli relativi alla capacità dei Paesi Emergenti affetti da eccesso di indebitamento di riuscire a pagare maggiori interessi provocati dal rialzo generalizzato dei tassi.

Se ciò venisse confermato l’operazione di incremento dei tassi interni potrebbe giungere a maturare l’effetto opposto poiché innalzerebbe il costo del rifinanziamento del debito oltre la soglia della sopportabilità.

È evidente però che se i grandi movimenti di capitali che hanno rilanciato le quotazioni del Dollaro (visto come divisa-rifugio tutte le volte che uno shock attraversa i mercati) derivano dai timori di sostenibilità dei debiti pubblici dei Paesi Emergenti al crescere dei tassi di interesse internazionali, i possibili danni che ne possono derivare che non si limitano alla sola Argentina. Ecco in effetti un panorama dell’andamento di alcune divise di cambio nei confronti del Dollaro nel corso dell’ultimo mese:


La tendenza dei capitali a fuggire dai paesi emergenti è iniziata orami più di sei mesi fa quando gli investitori professionali hanno preso atto del fatto che la volontà delle banche centrali di procedere gradualmente a ridurre gli stimoli monetari (Taper Tantrum) era divenuta inequivocabile. Ciò che oggi ha innestato una brusca accelerazione al processo di progressivo disimpegno dalle piazze finanziarie più periferiche è stato però l’incremento dei tassi a lungo termine, con la conseguenza che anche i piccoli risparmiatori hanno iniziato a disinvestire pesantemente da quei mercati.

Nell’ultima settimana più di 6 miliardi di dollari sono stati disinvestiti dai fondi di investimento dedicati ai Paesi Emergenti per riversarsi su quelli occidentali e in particolare USA, Europa e Giappone. Il grafico qui riportato parla da solo:

Il problema è che quest’anno scadono titoli di stato emessi da numerosi Paesi Emergenti per oltre 900 miliardi di Dollari. Tra questi vi sono Turchia, Polonia e Argentina che contavano decisamente sull’interesse degli investitori stranieri per rifinanziare il proprio debito e che oggi appaiono decisamente vulnerabili alla risalita del Dollaro e dei tassi di interesse.

L’EURO-ZONA RIMANE STABILE (PER ORA)

 


In questo oceano agitato di tassi che salgono -anche per l’inflazione che riprende vigore- (persino in Giappone ha superato l’1,2%), borse che oscillano, capitali che fuggono e divise che si svalutano troppo, sta invece (per ora) beatamente ferma come un’isola l’Euro-zona, con una crescita modesta, un‘ inflazione addirittura in declino, tassi di interesse ancora a zero e con un cambio Euro-Dollaro tornato ai livelli di Gennaio (ma con deciso plauso delle imprese esportatrici continentali che temevano di rimanere spiazzate dall’eccessiva rivalutazione della divisa unica).


Come si può vedere dalla tabella sotto riportata mentre il Dollaro si apprezzava l’Euro si è mosso relativamente poco al ribasso nelle ultime settimane mentre ha ancora un margine positivo di quasi 9 punti% se si prende a riferimento il cambio di un anno fa e ci sono numerose valute minori nei confronti delle quali l’Euro si è decisamente rivalutato:

 

Ciò rassicura i mercati continentali e lascia le borse europee meno mosse delle altre, anzi leggermente in crescita come si può vedere dal grafico :Le previsioni sono che la Banca Centrale Europea non muoverà i propri tassi alla prossima riunione, per prudenza nei confronti di Paesi come l’Italia, la Slovenia e il Portogallo che potrebbero prendere il contagio dei timori sulla tenuta del debito. Ma se questa congiuntura prosegue ordinatamente (con l’Euro che si svaluta moderatamente sul Dollaro) la BCE potrebbe decidere di ampliare il proprio programma di intervento sui mercati, muovendosi controcorrente rispetto a tutti gli altri.

L’Europa sembra quindi “tenere botta” con risorse proprie e non dipendere affatto dai vistosi flussi di capitali che agitano il resto del globo terraqueo. Nel resto del mondo però tutti si chiedono se -Dollaro forte o meno- siamo arrivati sul ciglio dell’ennesima crisi finanziaria dei Paesi Emergenti.

Molti analisti sono pronti a scommettere che, rispetto a casi analoghi occorsi in passato, “stavolta è diverso”: c’è stata una forte ondata emotiva sui mercati azionari che ha scoraggiato l’investimento in fondi orientati ai mercati emergenti (vedi grafico):


Ma, sintantochè l’economia globale continuerà a crescere e se le banche centrali non rovineranno la festa, la crescita sincronizzata e l’espansione del commercio mondiale continueranno ancora per molti mesi. Magari a ritmo ridotto e con ulteriori svalutazioni delle divise minori, ma non ci sono ancora fattori che fanno pensare al peggio. Come si può vedere qui sotto, la crescita del prodotto globale lordo e del commercio mondiale sembra relativamente stabile e le previsioni non sono (ancora) cambiate:


Nonostante lo sconquasso sui cambi valute perciò, sembra decisamente presto per i mercati finanziari per indossare gli elmetti e alzare le difese, almeno in Europa.

Stefano di Tommaso




IL CICLO ECONOMICO SI INDEBOLISCE

Una rondine, si dice, non fa primavera. Il calendario però, per quanto possa non corrispondere esattamente al tempo meteorologico, alla fine non è mai smentito. Parallelamente, è sempre un esercizio difficile tradurre in previsioni univoche i segnali che arrivano dai vari quadranti del cruscotto dell’economista, però due fattori possono aiutare in tal senso: il calendario, che ci dice che il ciclo economico sta durando fin troppo rispetto a quelli che lo hanno preceduto, e il fatto che le rondini in circolazione (i segnali di allarme) iniziano a moltiplicarsi.

 

Eppure l’ottimismo che emana dal recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale sullo stato di salute dell’economia mondiale non può essere del tutto ignorato. Sono passati soltanto due anni da quando la crescita del prodotto interno lordo dei paesi emergenti (e di quelli più malmessi, come il nostro) ha finalmente iniziato a sincronizzarsi con quella delle economie più sviluppate. Questa congiuntura ha generato una delle maggiori espansioni dell’economia globale che si ricordi da un decennio a questa parte (circa il 4% nel 2017, a seconda che la si calcoli in dollari o in altra valuta) e, sebbene per molti versi sia in attenuazione, il fenomeno è ancora in atto.


Addirittura l’anno in corso potrebbe riservare ancora sorprese positive dal momento che il commercio internazionale, nonostante le tariffe e le minaccealla pace nel mondo, sta ancora crescendo. Tuttavia diversi elementi ci dicono inequivocabilmente che il clima economico generale è sta mutando in peggio. Nel grafico che segue si vede come la flessione della crescita del prodotto interno lordo, misurata per trimestri, è più accentuata in America e in Giappone, ma c’è anche per l’Europa:


Nel mese di Aprile inoltre le divise monetarie battute da diverse economie emergenti hanno subito importanti svalutazioni nei confronti del Dollaro (che si è apprezzato un po’ ovunque): il rublo della Federazione Russa è sceso di circa il 10%, il Real brasiliano di quasi il 6%, il Rand del Sud Africa di oltre il 5% e il Peso messicano del 3%. Di seguito una panoramica del cambio contro Dollaro di Euro, Yen, Sterlina e Dollaro Canadese:


Nello scorso mese di Aprile l’inflazione -pur sempre assai moderata- sembra aver superato il 2% negli Stati Uniti d’America, dove non passa giorno che la Federal Reserve non ne verifichi il livello per decidere sulla risalita dei tassi di interesse. In Europa l’inflazione è in media decisamente più bassa, ma bisogna ricordare che gli stimoli monetari europei, oltre che ancora in essere, sono anche molto più recenti. Dunque è più indietro anche il ciclo del credito.

Proprio dalla zona geografica che ha adottato l’Euro quale divisa unica tuttavia arrivano i segnali più preoccupanti di rallentamento dello sviluppo, e questo mentre è ancora in pieno corso il programma di Quantitative Easing (l’immissione di liquidità sui mercati finanziari attraverso acquisti di titoli di stato sul mercato aperto) della Banca centrale europea.

Perciò, se potrebbe essere presto per affermare che nella prima parte dell’anno la crescita economica europea sia rallentata per fattori non momentanei, il quadro diviene invece più preoccupante osservando gli indicatori di fiducia come l’IFO degli operatori economici tedeschi, sceso per la quinta mensilità consecutiva e giunto a 102.1 punti ad Aprile dai 103.3 punti di Marzo. Analoghe discese degli indici di fiducia si sono registrate in Francia e Italia.


Quel che sembra venire meno in questi giorni da parte degli operatori economici è dunque la speranza che lo sviluppo degli investimenti e la crescita dei consumi continuino anche oltre gli orizzonti dell’attuale politica di stimoli monetari (che potrebbero terminare presto), mentre l’incertezza politica dell’Unione non demorde e le vendite al dettaglio non brillano.

Di seguito alcuni indicatori: il primo che misura il livello di “sorprese” nella pubblicazione dei dati statistici per l’ Euro-Zona, raffrontato all’andamento della moneta unica (discesa meno che proporzionalmente)


Il secondo invece mostra come si sono evolute -mese per mese- le principali “preoccupazioni” da parte degli operatori economici europei:


Come si può vedere, lo scorso Aprile la principale preoccupazione che si è registrata riguarda il timore di un “fallimento“ della politica europea di stimolo monetario nel riuscire a dare slancio agli investimenti e dunque nel riaccendere i motori fisiologici dello sviluppo.

Se questo è il panorama dei paesi OCSE tuttavia bisogna pur tenere presente che l’economia asiatica (Giappone escluso) macina invece molte più vittorie ed è la maggior causa della risalita del prezzo del petrolio. Ciò fa ancora ben sperare per le esportazioni dell’Occidente e di conseguenza ancora per l’evoluzione positiva dei profitti aziendali (fattore positivo per le borse, soprattutto quelle europee). Ma è difficile prevedere cosa può accadere alle borse, per una molteplicità di fattori: il QE europeo innanzitutto, che ancora immette liquidità al ritmo di €30 miliardi al mese e, oltre a finanziare le borse continentali, continua -insieme a quello della Banca Centrale Giapponese- a controbilanciare la riduzione della liquidità (“Taper Tantrum”) operata dalla Federal Reserve americana. La forte generazione di cassa delle grandi imprese multinazionali inoltre, e lo smisurato avanzo commerciale cinese, buona parte della cui liquidità viene reinvestita sul mercato americano, contribuiscono a sostenere il Dollaro.


Ciò nonostante (come si vede dal grafico) è dall’inizio del 2018 che la borsa americana ha fortemente incrementato la sua volatilità e, mediamente, ha vissuto un ridimensionamento delle sue quotazioni. Se questo è il clima generale, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere man mano che i tassi di interesse continueranno a salire e che la Banca Centrale Europea inizierà a ridurre i suoi acquisti di titoli. Per contrastare le vendite sarà difficile che basteranno la crescita dei profitti e una nuova stagione di “buy-back” (acquisto di azioni proprie) da parte delle maggiori corporations.

Se perciò non è ancora arrivato il momento di parlare dell’arrivo di una vera e propria recessione (almeno fino a fine anno e fino a quando l’economia dei paesi asiatici correrà così forte) è sicuramente arrivato il tempo di parepararsi con attenzione alla graduale inversione del ciclo economico. Nel grafico finale si può vedere il rallentamento generalizzato della crescita economica per ciascun trimestre, fino al 31 Marzo di America, Francia, Gran Bretagna e Spagna:§


Stefano di Tommaso