È IL MOMENTO DELL’ORO?

Nonostante l’acuirsi dei rischi geopolitici, i mercati finanziari sono rimasti fino a ieri relativamente calmi e le quotazioni dell’oro di conseguenza, anche. Questo perché gli investitori tendono a rimanere neutrali sino a quando un serio rischio di escalation della tensione non è comprovato.

Ma qualora la situazione progredisca negativamente (come temo) e il rischio di un ritorno dell’inflazione si fa più concreto, allora i rendimenti reali dei principali titoli espressi in Dollaro e Euro non potranno che ridursi e, al tempo stesso, le quotazioni di azioni e obbligazioni non potranno che adeguarsi ad uno scenario deteriorato di futuri profitti.

Molti investitori paventano da tempo la supervalutazione dei molti titoli tecnologici che affollano i principali listini borsistici globali, nonché il timore di una fiammata inflazionistica e di conseguenza la possibilità che le borse alla fine scendano ancora e che il Dollaro si svaluti. Tuttavia chi sino ad oggi ha venduto azioni e obbligazioni per timore degli eventi ha -nella quasi totalità dei casi- scambiato quei titoli con liquidità, il che significa in genere che costoro hanno scelto di conseguenza (spesso involontariamente) di detenere una posizione al rialzo nelle valute forti.

Però, a meno che non si ritenga che il Dollaro e l’Euro subiranno delle forti rivalutazioni a seguito dell’acuirsi delle tensioni militari nel prossimo futuro, è più probabile che in uno scenario quantomeno di guerra fredda le aspettative di inflazione e quelle della programmata riduzione della liquidità disponibile (ad opera delle banche centrali) non arrivino a compensarsi completamente, lasciando ancora molta liquidità disponibile sul mercato, sempre più in cerca di impieghi alternativi, e uno spazio di manovra decisamente ampio per gli investitori per allocare qualche buona scommessa sulle quotazioni dei beni rifugio, primo fra tutti ovviamente il metallo giallo.

Se si guarda poi alla situazione delle posizioni speculative costruite sulla quotazione dell’oro a partire dai fondi ETF quotati ad essa collegati, si può notare un lento ma costante incremento della medesima, a partire da tutto il 2017:

L’oro fino ad oggi non ha brillato però anche perché forti quantità del metallo giallo sono detenute dalle banche centrali di tutto il mondo e queste ultime hanno mostrato un deciso interesse a calmierarne le quotazioni.

Ma se la domanda di oro fisico da parte degli investitori istituzionali (tramite I fondi quotati: gli Exchange Traded Funds, detti anche ETF) continuerà a progredire come è successo negli ultimi tempi, allora sarà sempre più difficile tamponarne l’ascesa del prezzo con altre vendite, a fronte delle quali nella quasi totalità dei casi le banche centrali si troverebbero in mano il biglietto verde. Siamo sicuri che è ciò quello che esse vogliono ?

Probabilmente no, ed è questo il motivo per cui potrebbe farsi invece strada una tendenza rialzista.

Nel grafico che segue la domanda di oro fisico da parte degli ETF:

Di qui l’intuizione che c’è forse dello spazio per un movimento al rialzo delle quotazioni dell’oro, che fino ad oggi non si è quasi visto.

Stefano di Tommaso




I TAMBURI DI GUERRA FANNO TREMARE LE BORSE

Non bastavano le guerre commerciali a rovinare le prospettive della crescita economica globale e, ovviamente, quelle dei mercati finanziari. Adesso sono arrivati anche i missili. E per non farci mancare niente persino lo spettro del terrorismo sembra resuscitare dal passato.

 

LA MISURA È COLMA

Se fino a ieri c’erano ancora speranze sulla possibilità che gli ottimi risultati della crescita economica globale potessero fare da contraltare al forte deterioramento del panorama geopolitico globale, adesso ci può essere soltanto un atto di fede: l’innalzamento oltre ogni recente limite del prezzo del petrolio che ne consegue è destinato a portare decise ripercussioni sull’inflazione, i tassi di interesse e persino sulla possibile evoluzione debiti pubblici, sufficientemente alti già prima di quello che sta accadendo in questi giorni.

Questo perché l’ondata di riduzione della tassazione delle attività economiche che stava soltanto iniziando negli ultimi mesi presupponeva di provocare di conseguenza una sostenuta crescita dei prodotti interni lordi affinché non generasse una voragine nei conti pubblici. Ma se invece il rilancio dell’economia con stimoli fiscali (dopo che quelli monetari sono stati usati anche oltre il loro limite naturale) non dovesse avere effetto a causa di fattori “esterni” come le conseguenze di una situazione di guerra, ecco che le minori entrate generate dalla minor tassazione si ripercuoterebbero inevitabilmente in un aggravamento dei conti pubblici dell’intero Occidente.

LE CONSEGUENZE MACRO DELLE TENSIONI GEOPOLITICHE

Proviamo perciò ad elencare le “conseguenze” di una situazione di conflitto più allargata in Medio Oriente e dei timori di accrescimento delle tensioni geopolitiche: in questo caso dovremmo dare per decisamente probabili tanto la maggior risalita dei prezzi di energie e materie prime quanto la rivalutazione del dollaro, con i rischi che ne conseguono di vedere accendersi oltre misura le aspettative di inflazione, di una risalita dei tassi di interesse più brusca di quanto in precedenza prospettato e, dulcis in fundo, un probabile conseguente calo delle quotazioni delle principali borse mondiali.

Perché le borse dovrebbero crollare? Non soltanto perché le attese di profitti futuri che determinano le valutazioni aziendali andrebbero scontate a tassi di interesse più elevati, ma anche perché al peggiorare delle prospettive economiche complessive anche la profittabilitá stessa delle imprese non potrebbe che ridursi, alimentando un circolo vizioso delle aspettative di mercato.


Ora, se vogliamo essere più realisti, il mondo sembra essere già caduto nella trappola di una “guerra fredda”, dove stavolta il conflitto oriente-occidente rischia di coinvolgere anche la Cina e quindi di penalizzare fortemente il commercio internazionale, uno dei motori dell’attuale crescita globale e uno dei maggiori veicoli di rilancio delle aspettative per i paesi emergenti, i veri protagonisti dell’ultimo biennio. Anche le valute meno “forti” hanno subìto un ridimensionamento negli ultimi giorni e il petrolio ha già superato la soglia dei 70 dollari al barile, un livello ritenuto da molti impensabile ancora poche settimane fa.

Nel grafico sotto riportato vediamo il recente andamento e le previsioni della domanda e produzione di petrolio (linee) e delle scorte (istogrammi):


Ma fino ad oggi la reazione dei mercati finanziari si è mantenuta decisamente equilibrata e priva di ondate di irrazionalità.

IL PROBLEMA DELLE ASPETTATIVE

Ciò che invece veramente può fare davvero la differenza per i mercati finanziari non è il picco delle quotazioni di una o due settimane, quanto il rovesciamento dello scenario di relativa stabilità che sembrava fino a ieri inscalfibile. Se la prospettiva di una nuova guerra del golfo dovesse insediarsi stabilmente nelle previsioni allora dovremmo aspettarci un rapido deterioramento della situazione generale delle borse e il rischio di un deciso avvitamento dell’economia dell’intero Occidente perché anche i forti investimenti in tecnologia e nuovi prodotti che fino a ieri erano previsti da buona parte delle aziende nel mondo potrebbero di conseguenza venire posticipati.

La posta in gioco per i mercati sembra dunque decisamente elevata nelle prossime ore e i rischi di una escalation del confronto ancora maggiori, in un momento nel quale si evidenziavano già talune difficoltà per la prosecuzione del ciclo economico positivo, che sembrava essersi sincronizzato per buona parte delle economie mondiali ma non aveva ancora prodotto un significativo incremento nel reddito disponibile dell’uomo della strada.

Oggi quell’equilibrio delle aspettative (crescita economica da un lato, inflazione e aumento dei tassi dall’altro) sembra essersi rotto. Non c’è da stupirsi pertanto se da lunedì gli investitori istituzionali approfitteranno di ogni possibile movimento delle borse per alleggerire le loro posizioni fino ache le cose non miglioreranno decisamente!

Stefano di Tommaso




L’ECCESSO DI DEBITO MAL SI CONCILIA CON LA RISALITA DEI TASSI REALI. ANDIAMO VERSO LA FINE DEL CICLO DEL CREDITO?

Gli analisti si interrogano se siamo finalmente arrivati alla fine del lungo ciclo del credito di cui le aziende americane hanno goduto sino ad oggi, e la risposta è tendenzialmente positiva. Lo stesso non vale per le imprese europee, che ne stanno beneficiando soltanto adesso e che avrebbero grandi benefici dal poter constatare il prolungamento della situazione attuale, utilizzando le ampie risorse finalmente disponibili per quegli investimenti in tecnologie che in Asia e in America sono stati effettuati da tempo e per dare più spazio alle acquisizioni e aggregazioni che permetterebbero loro di migliorare efficienza, competitività e produttività del lavoro.

 

Momenti come questo, vicini all’inversione della curva, sono solitamente i più favorevoli per reperire risorse finanziarie per acquisizioni a forte debito e non per niente il mondo sta vivendo un picco delle operazioni di fusioni e acquisizioni in leva.

Il punto è che un certo numeri indicatori sta iniziando a lampeggiare, segnalando un eccesso nei multipli recentemente riconosciuti, qualche rincaro nei tassi e, soprattutto, il peggioramento dei rating.

Nel grafico si può vedere l’evoluzione negli ultimi quindici anni delle valutazioni aziendali in termini di multipli del Margine Operativo Lordo:


L’ECCESSO DI INDEBITAMENTO

Il fenomeno è strettamente legato alla crescita degli utili che le imprese quotate stanno realizzando al culmine di un lungo ciclo economico e in un momento in cui né l’inflazione né il surriscaldamento delle richieste salariali hanno ancora rovinato loro la festa.

La forte digitalizzazione dell’economia (soprattutto quella americana, ovviamente) e la maggiore sincronia tra i cicli economici dei paesi più sviluppati con quelli dei paesi emergenti ha inoltre portato in alto anche le aspettative circa i profitti attesi per i prossimi esercizi, scatenando l’appetito degli investitori di private equity, sempre a caccia di opportunità di allocazione delle loro ingenti risorse liquide e, se possibile, con la prospettiva di innalzare il più possibile i livelli di rischio e rendimento attesi, divenuti perciò più disponibili a riconoscere non soltanto valutazioni più elevate, ma anche un maggior livello di indebitamento.

Nel grafico qui sotto riportato di può vedere l’evoluzione del valore medio del debito per le acquisizioni in termini di multiplo del Margine Operativo Lordo:


Un altro fattore che ha permesso di giungere al momento aureo oggi registrato dal mercato dei capitali per la disponibilità di credito è sicuramente stato il deciso e prolungato intervento delle banche centrali che, nel timore di un avvitamento della scarsa velocità di circolazione della moneta, hanno immesso moltissima liquidità sui mercati finanziari.

Se in America quello scenario oramai volge al termine, ciò non vale per la Banca Centrale Europea, alle prese con un tentativo assai tardivo di restituire fiato all’ erogazione del credito nei paesi ‘eriferi come il nostro, dove la ripresa si è vista soltanto da un paio d’anni e quasi solo sulle tabelle statistiche, perché spiazzata dall’eccesso di spesa e debiti pubblici.

LA DISCESA DEI CREDIT RATING

Ma i costi dei credit default swap (il costo per l’assicurazione del rischio credito) stanno rapidamente risalendo oltre oceano e il fenomeno del deterioramento della qualità del credito potrebbe attraversare l’Atlantico più velocemente di quanto non si possa pensare, col rischio di togliere ossigeno ad una già asfittica ripresa dell’attività ordinaria delle banche italiane.

Nel grafico l’andamento del costo dei CDS secondo l’indice Markit:


I TITOLI A REDDITO FISSO RESTANO UNA DELLE MIGLIORI OPZIONI

Eppure dal punto di vista degli investitori i bond (attraverso i quali si finanziano la maggior parte degli istituti di credito) restano una delle opzioni migliori in questo momento in cui l’increme dell’inflazione resta quasi una chimera ma i tassi a breve termine vengono fatti salire ugualmente, poiché evidentemente i rendimenti reali salgono e la scelta di mantenere liquidi i portafogli importanti si giustifica soltanto nell’imminenza di un crollo delle quotazioni.

Difficile però dire se è quando le borse vedranno una catastrofe (anche perché la crescita dei profitti potrebbe portare ulteriori buone sorprese e ulteriore liquidità ai mercati.

Dunque nel dubbio sull’inflazione e sulla durata del ciclo economico il reddito fisso mantiene una certa appetibilità, ma ovviamente la discesa dei rating una domanda di fondo la lascia eccome: con il mondo occidentale che ha di nuovo accumulato un elevato livello di indebitamento, cosa succederà se I timori inflazionistici (e dunque anche i tassi) dovessero risalire in maniera consistente?

Ecco perché la fine del ciclo del debito è probabilmente vicina, e con essa la possibilità che le banche tornino prima del previsto a restringere i cordoni della borsa. Chi deve effettuare investimenti o acquisizioni ne tenga conto. Non è sempre primavera !

Stefano di Tommaso




I PROFITTI AZIENDALI VANNO ALLE STELLE MA WALL STREET TENTENNA

Quest’anno le 500 società che compongono l’indice Standard & Poor della borsa americana ci si attende che dichiareranno mediamente quasi il 20% di crescita degli utili aziendali rispetto al 2017. Si tratterebbe del maggior incremento dal 2010 rispetto al 2009 (l’anno in cui vennero contabilizzati i disastri della crisi dell’esercizio 2008) e, in assoluto, di uno degli anni migliori della storia economica americana.

 

Qui in basso un grafico di Reuters che riporta le stime degli analisti, normalmente un po’ più prudenti di quanto viene poi effettivamente pubblicato (è per questo che le attese vere sono al 19,7%, e non al 17,2% ufficiale):

Ma quello che più conta è che negli stessi prossimi giorni in cui verranno resi noti I dati definitivi dell’esercizio 2017, verranno anche comunicate le prime notizie circa l’andamento prospettico del primo trimestre 2018 e, anche in questo caso, gli analisti si aspettano ulteriori formidabili incrementi rispetto allo stesso trimestre del 2017. Qui sotto uno spaccato delle aspettative per ciascun macrosettore economico:

Fino qui le buone notizie, con l’aggiunta che oggi ci si aspetta forti miglioramenti dei conti non soltanto nei settori che se la passavano peggio l’anno prima (come le energie, che hanno pagato caro il petrolio basso prima e poi la crescita tumultuosa del suo prezzo, oppure le banche, che pagavano il prezzo di tassi troppo bassi fino all’anno prima), bensì anche da quelli per cui il mercato si attendeva già un’ottima performance, come ad esempio l’ “information technology” o le cure mediche, che già andavano benissimo l’anno precedente.

DUE POSIZIONI CONTRASTANTI

Il punto però è che il mercato azionario nel corso del 2017 è appunto cresciuto in media del 20% e che, dunque, quel risultato lo aveva già scontato l’anno prima. Come dire che l’ufficialità della conferma degli utili attesi potrebbe non commuovere affatto Wall Street ma anzi, al contrario, farle dubitare fortemente che le medesime brillanti performances del 2017 (registrate nell’Aprile 2018) potranno risultare ancora migliori nel corso del 2018 (quelle che saranno registrate nella primavera 2019).

E qui -com’è ovvio- gli analisti si dividono in due scuole di pensiero: da una parte quelli che tenendo conto delle buone notizie concernenti l’andamento globale dell’economia reale (da tanto tempo le notizie non erano così positive) ritengono che il super-ciclo economico sia tutt’altro che esaurito (e dunque le borse continueranno a correre anche nel 2018) e dall’altra parte coloro che ritengono che le borse guardino uno-due anni avanti e che le attuali quotazioni azionarie già incorporino le straordinarie attese di profitti in corso (e che pertanto nel resto dell’anno le borse non brilleranno).

LE DIVERSE MOTIVAZIONI

A dare manforte a questa seconda scuola di pensiero peraltro sono i più, e con ottime argomentazioni, quale ad esempio lo scostamento tra i due grafici (utili e quotazioni) che si è accumulato nell’ultimo anno e mezzo:

A dare conforto alla prima tesi (gli ottimisti) peraltro ci sono soggetti molto autorevoli come ad esempio le maggiori banche d’affari del mondo e con un ragionamento che, anch’esso, sembra non fare una piega:

Se infatti le aspettative per l’indice SP500 sono quelle proiettate “dal basso” dagli analisti sulla base degli utili attesi, non si può non tenere conto del fatto che la medesima proiezione con il medesimo approccio “dal basso” per i periodi precedenti ha funzionato benissimo, come mostra il grafico seguente:

D’altra parte i moltiplicatori degli utili attesi, dopo l’ultimo pesante storno di Wall Street e con le prospettive di profitto per I 12 mesi successivi che oggi si vedono, sembrano essere divenuti molto convenienti, come mostra il grafico qui sotto riportato:

Dunque basterebbe una piccola variazione in senso positivo al contesto generale ( che prevede contemporaneamente: prospettive di guerre commerciali, disordini geopolitici, aumento dei tassi di interesse e dei deficit pubblici) perché gli investitori possano tornare ad un relativo ottimismo.

LA CONCORRENZA DEI FONDI MONETARI

Ma un’altra variabile rischi di rovinare loro la festa: la maggior convenienza a tenere in portafoglio strumenti di mercato monetario che non azioni o obbligazioni, come dimostrano i grafici qui sotto comparati:

Se si tiene conto del fatto che i rendimenti di questi ultimi appaiono completamente privi di rischio (tranne ovviamente quello delle quotazioni del Dollaro in cui sono denominati), si capisce perfettamente che, qualora le banche centrali si spingeranno troppo oltre nel rialzare i tassi d’interesse a breve termine, potrebbe aumentare la convenienza per chi investe ad abbandonare i mercati borsistici (che sono quelli che portano risorse fresche alle imprese) per concentrarsi su depositi a brevissimo termine. Il vero nemico dell’investimento azionario non sono dunque le obbligazioni (i cui corsi hanno un’elevata correlazione con quelli dei titoli azionari), bensì i depositi di liquidità a breve durata.

IL DISCRIMINE LO FANNO L’INFLAZIONE E LE BANCHE CENTRALI

È ovvio che, in assenza o quasi di fiammate inflazionistiche la cosa non avrebbe molto senso poiché aumenterebbero i rendimenti reali e dunque il costo netto del capitale, ponendo un freno all’economia. Il rischio è quantomai reale e, anzi, è noto che parecchie delle ultime recessioni sono proprio state scatenate da politiche troppo restrittive delle banche centrali!

La morale è perciò solo una : le borse potrebbero performare ancora bene ma solo se gli aumenti dei tassi programmati dai banchieri centrali troveranno riscontri nell’incremento corrispondente dell’inflazione effettiva, oppure se verranno posticipati.

Altrimenti con quei rialzi non proteggeranno da un’inflazione ampiamente già sotto controllo bensì faranno da freno alla crescita economica, e sarebbe un vero peccato visti i risultati positivi ottenuti fino ad oggi dai medesimi banchieri centrali nella lotta alla disoccupazione!

Stefano di Tommaso