ECCO PERCHÉ I MERCATI FINANZIARI NON BRILLERANNO

I recenti scossoni sui mercati finanziari stimolano il dibattito sulla durata e le possibili evoluzioni dell’attuale super-ciclo economico, ma l’osservazione delle più recenti tendenze dell’economia globale pone molti più interrogativi di quanti ne aiuti a risolvere.
Eppure le possibili risposte alle questioni che emergono appaiono estremamente stimolanti per riuscire a farsi un’idea di dove possono orientarsi i mercati finanziari.

 

Solo pochi mesi fa le borse valori sembravano dolcemente addormentate sopra un letto di fiori: le loro quotazioni, giunte e persistentemente piuttosto stabilmente ai massimi storici, avevano cancellato la tradizionale volatilità e il susseguirsi ininterrotto di notizie economiche positive aiutava la speranza che i livelli stratosferici di capitalizzazione delle borse potessero arrivare a una giustificazione razionale attraverso la crescita degli utili aziendali.

LE RAGIONI DI BREVE TERMINE

Poi alcuni “cigni neri” sono comparsi all’orizzonte :

– dapprima i timori d’inflazione (più volte rientrati),

– dopo è comparso lo spettro del protezionismo (anch’esso oramai di fatto fugato),

– infine lo scandalo del mancato rispetto dei dati personali da parte del più grande social network del mondo (purtroppo confermato) e i timori che possa presagire a una maggiore regolamentazione di tutta la sfera del business su internet.

 Tutti elementi che hanno condotto al ribasso le borse in generale e in particolare l’intero comparto dei titoli cosiddetti “tecnologici”, che sono ancor oggi quelli che esprimono i moltiplicatori di valore più elevati e pertanto sono più sensibili alle attese circa i profitti futuri.

Ma quanto i suddetti timori possono influire sulle quotazioni di lungo termine? La risposta è quasi ovvia: assai poco. Le vere ragioni per cui i mercati finanziari non brilleranno neanche nel prossimo futuro è da ricercarsi altrove.

LE RAGIONI DI LUNGO TERMINE

Agli analisti più attenti infatti le recenti vicende sono solo sembrate delle “occasioni” per scatenare vendite di titoli che forse sarebbero arrivate comunque. Da almeno un anno infatti quasi tutti i grandi gestori di portafogli indicavano  la volontà di assumere una posizione più prudente riguardo alle borse valori, ma sono spesso stati sopraffatti dagli ulteriori e importanti rialzi che queste hanno realizzato ancora in tutto il 2018 e sono talvolta dovuti correre ai ripari riacquistando ciò che avevano venduto.

I motivi di fondo della prudenza degli investitori erano molto più importanti :

– L’aspettativa di riduzione della grande liquidità in circolazione, dai più vista quale principale causa dei forti rialzi delle borse valori,

– L’attesa di passaggio alla maturità dell’attuale ciclo economico positivo americano, già durato straordinariamente più della media ma evidentemente non eterno, che comporterà una riduzione delle attese di profitto che oggi sono ancora molto alte,

– La dichiarata volontà delle banche centrali di avviare il rialzo dei tassi di interesse (qualcuna come la Federal Reserve Bank of America lo ha già fatto diverse volte, qualcun’altra come la Banca Centrale Europea lo ha solo ipotizzato per il prossimo anno), con le ovvie conseguenze che esso può portare in termini di attualizzazione dei rendimenti futuri.

Il grafico sotto riportato indica la strategia condivisa da molti di essi nel medio termine e, di conseguenza, la necessità di riuscire a monetizzare una quota importante del portafoglio azionario:

Il ragionamento degli investitori pertanto non fa una piega: se nel medio termine l’allocazione dei portafogli avrà un assetto più prudente, allora forse è meglio cominciare a vendere subito, prima che i prezzi scendano ulteriormente.

L’IMPORTANZA DELLA CURVA DEI TASSI DI INTERESSE

Ma la vera chiave di lettura dei mercati non riguarda le borse, bensì i titoli a reddito fisso, la cui dinamica esprime talune “singolarità” rispetto alla politica monetaria delle principali banche centrali (che prevede un rialzo generalizzato dei tassi):

– I rendimenti dei titoli a più lunga scadenza non crescono, anzi, scendono, dunque le loro quotazioni crescono, riflettendo una maggior domanda degli investitori più prudenti e, forse, l’aspettativa di una scarsa ricrescita dell’inflazione attesa;

– I tassi a breve invece crescono (principalmente nei paesi anglosassoni), indicando un appiattimento della “curva dei rendimenti” (il grafico dei rendimenti espressi dal mercato per ciascuna delle durate : dalla più breve alla più lunga). Normalmente l’inclinazione è positiva, dunque le durate più lunghe esprimono rendimenti più alti, in teoria grazie al maggior premio per la illiquidità dell’investimento.

Nei periodi nei quali il ciclo economico sta per invertirsi (segnalando una possibile recessione) spesso la differenza tra i rendimenti a lungo termine (tipicamente : a 10 anni) e quelli a breve termine (tipicamente : a 2 anni) si riduce molto, se non diviene addirittura negativa. Questo fenomeno si è dimostrato nel tempo come uno degli indicatori più affidabili dell’incombere di una possibile recessione (vedi il grafico storico 1977-2016 qui riportato):

Oggi -almeno in America- si è in effetti arrivati in zona di rischio, visto che oramai la differenza tra i tassi a breve e quelli a lungo termine è scesa sotto il mezzo punto (vedi grafico):

Ma se si guarda al grafico precedente si può chiaramente vedere che nessuna recessione recente è arrivata sino a quando l’inclinazione della curva è rimasta positiva.

Dal momento tuttavia che la disponibilità di credito e di capitali per gli investimenti risulta particolarmente importante per la salute dell’economia, la gestione dei tassi di interesse risulta cruciale per l’andamento del ciclo economico e questo è anche il motivo per il quale spesso le recessioni sono causate dagli errori di politica monetaria delle stesse banche centrali, molte delle quali hanno come unico obiettivo quello di mantenere basso (ma non negativo) il tasso di inflazione e tendono a rialzare i tassi quando temono che la dinamica positiva di consumi e salari possa surriscaldare l’economia e stimolare un aumento dei prezzi non controllato.

LA BOLLA DEI TITOLI “TECNOLOGICI”

Negli ultimi anni inoltre le banche centrali hanno toccato con mano i possibili danni che può provocare un crollo dei mercati finanziari, ragione per cui tendono a monitorarne da vicino l’andamento per evitare che si gonfino bolle speculative che poi esplodono recando danni all’economia reale. Questo è ad esempio il caso della Federal Reserve, che ha fino ad oggi pilotato abilmente la sua campagna di moderatissimi rialzi dei tassi di interesse proprio in questa direzione.

Ma le quotazioni raggiunte dal comparto “tecnologico” delle principali borse mondiali sono comunque andate oltre ogni ragionevole aspettativa, e non per niente oggi esse sono sotto feroce osservazione. Anche perché il peso che le capitalizzazioni di questi titoli ha acquistato di recente è cresciuto oltre misura sul totale dei principali listini di borsa.

Ecco un panorama dei moltiplicatori toccati dai principali di quei titoli intorno alla prima decade di Marzo:

E’ evidente che in molti di quei casi il mercato si è fatto prendere la mano, tanto da far sembrare titoli come Amazon neanche tra i più cari. Scandalo o meno, c’era da aspettarselo un ridimensionamento di moltiplicatori che in media andavano oltre le cento volte i profitti attesi!

Oggi, anche a causa della forte volatilità rilevata, alla conclusione del primo trimestre del 2018 gli indici delle principali borse mondiali sono (per la prima volta da molti trimestri) scesi al di sotto dei livelli raggiunti nel precedente trimestre (vedi grafico):

NON È’ COLPA DI FACEBOOK

Ma la colpa non è solo di Amazon e delle quotazioni stellari che hanno caratterizzato i titoli che esprimevano le maggiori aspettative di crescita. I recenti ribassi hanno radici nella strana ripresa economica che il mondo moderno sta vivendo.

Si prenda ad esempio la crisi delle vendite al dettaglio, dai più indicate quali vittime dell’insorgere del commercio elettronico. Ebbene, non è vero!

Le vendite online di Amazon, per esempio, nel mercato più sviluppato da quest’ultima (quello americano) contano solo per l’1,5%  del totale delle vendite al dettaglio USA (80 miliardi di dollari su un totale di circa 5.500 miliardi). Il totale del commercio elettronico oggi ammonta all’8,5% circa dei consumi al dettaglio, contro il 2% di dieci anni fa.

Le vendite di Apple in America ammontano a circa 100 miliardi di dollari, di cui due terzi sono relative agli Iphone, con una quota di mercato intorno al 44% dei 150 miliardi di dollari di vendite di telefonini, oltre ai quali ci sono le spese per accessori e servizi collegati (circa 200 miliardi di dollari in totale). Solo 10 anni fa quei 200 miliardi erano solo 10 miliardi di dollari.

Dunque i consumi americani si sono spostati verso i telefonini per circa 190 miliardi di dollari, superando il 3,5% dei consumi totali, cui si sommano altri circa 150 miliardi di dollari relativi agli abbonamenti dei telefonini e ai servizi di rete collegati (un altro 2,7% che porta il totale della spesa per cellulari in USA a circa il 6% dei consumi). Questi 350 miliardi di dollari sono ovviamente stati sottratti ad altri capitoli di spesa, quali l’abbigliamento e gli accessori.

Se prendiamo le spese per la salute e le cure mediche (circa 3300 miliardi di dollari, sebbene non siano catalogate insieme alle vendite al dettaglio), esse sono cresciute moltissimo e oggi ammontano al 60% delle vendite al dettaglio. E’ chiaro che hanno assorbito una parte importante del reddito degli americani e che questo ha contribuito a tenere basse le spese per consumi discrezionali (e quindi anche i livelli di prezzo di questi ultimi).

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI INCREMENTA LA VOLATILITÀ

E’ chiaro che quanto visto fin qui significa che il mondo moderno (di cui l’America è più o meno sempre un precursore) sta cambiando e con esso la profittabilità dei settori economici.

Nella tabella che segue possiamo prendere nota di quali settori industriali hanno fatto le migliori e le peggiori performances fino ad oggi:

Ma ancora una volta le prospettive oggi cambiano, il rischio di una maggior regolamentazione del trattamento dei dati personali tende a ridimensionare pesantemente le quotazioni dei titoli legati a internet (Google, ad esempio) e ai social network in particolare, e di conseguenza anche gli investimenti dei grandi gestori di portafogli devono ruotare.

Ogni importante rotazione dei portafogli tuttavia porta con sè degli inevitabili scossoni e non riesce mai a svilupparsi nella più assoluta “souplesse” perché I gestori cercano di vendere sui rimbalzi.  La volatilità che i mercati sembrano aver stabilmente acquisito in questi mesi è figlia non soltanto della necessità di vendere titoli ma anche della rotazione verso settori più “difensivi”.

E qui il discorso torna al punto di partenza: se tutti cercano di riposizionarsi verso una maggior prudenza alla fine le aspettative si autorealizzano. Difficile attendersi mesi di mercato “toro” con queste premesse!

Stefano di Tommaso




IL MESSAGGIO DEI MERCATI A TRUMP E FED

Fino al gennaio scorso la narrazione dei commentatori di tutto il mondo sembrava inequivocabilmente e stabilmente positiva: nonostante l’inflazione non si manifesti e i tassi d’interesse restino sostanzialmente bassi, la crescita economica globale stava incrementando il suo passo e questo non poteva che migliorare le prospettive per gli utili delle aziende americane, prospettive che sono alla base degli attuali livelli (stratosferici) delle valutazioni implicite nelle quotazioni delle borse valori (Wall Street e Nasdaq).
Il discorso non era proprio uguale per le altre borse, cresciute senza dubbio molto meno di quelle americane, ma in compenso le loro prospettive -almeno quelle europee- restavano anche più rosee.

 

Poi sono cominciati numerosi sussulti geo-politici, a partire dai primi segnali di una vera e propria guerra commerciale tra America e Cina, cui hanno fatto seguito altrettante oscillazioni delle borse di tutto il mondo le quali hanno riportato in forte ripresa l’indice della volatilità dei mercati borsistici, giunto ai nuovi massimi dell’anno, gli stessi toccati all’inizio di Febbraio, (VIX, detto anche “l’indice della paura”: vedi qui sotto).

LE PROSPETTIVE RESTAVANO BUONE

Tutti i commentatori ne avevano -correttamente- dedotto che i bei tempi in cui le borse che continuavano a crescere mentre la loro volatilità toccava nuovi minimi erano forse andati per sempre. Ciò nonostante quasi nessuno fino alla settimana scorsa aveva ancora preso sul serio la possibilità che i mercati finanziari potessero non solo avere aumentato la loro volatilità, ma anche essere giunti all’inizio di un percorso di discesa generale delle quotazioni, le cui avvisaglie registrate sino a quel momento non lasciavano ancora presagire importanti inversioni di tendenza.

Le prospettive di crescita dei profitti aziendali restavano infatti ancora positive, così come la crescita economica globale non ha fino ad oggi mostrato rallentamenti. Dunque non sembravano ancora esistere -tecnicamente parlando-  le condizioni perché potesse invertirsi la tendenza di fondo che ha sino a ieri animato i rialzi dei mercati finanziari negli ultimi anni.

LA SOPRAVVALUTAZIONE DI WALL STREET

Si veda tuttavia in proposito qui sotto il grafico fornito dall’Economist di questa settimana dell’indice CAPE (quello del rapporto medio prezzo/utili dell’indice della borsa americana ponderato sulla base della media mobile dei profitti degli ultimi dieci anni), pubblicato periodicamente dal gruppo del premio Nobel Robert Shiller per indicare l’andamento del rapporto prezzo/utili una volta smussare le valutazioni implicite espresse da Wall Street sulla base dell’andamento degli utili (se continuano a crescere abbassano il CAPE).

Dal grafico si legge bene che una settimana fa il rapporto tra l’indice SP500 e la media mobile a 10 anni degli utili delle aziende che ne fanno parte era arrivato quasi a 33volte, chiaramente un nuovo massimo, ai livelli della crisi del 1929 e poco sotto quelli dello scoppio della bolla della “New Economy”. Tanto per fornire una comparazione, quello della borsa canadese viaggia a 20volte, quello di Francoforte a 19volte e quello della borsa di Londra a 14volte.  Dunque Wall Street ha fatto molta più strada di tante altre borse, come si può vedere dell’indice cumulato delle borse europee qui sotto riportato (precipitato già a Gennaio e sceso ogni volta a nuovi minimi per ben due volte a Marzo:

GLI ELEMENTI DI “ATTENZIONE” DA PARTE DEGLI INVESTITORI

Se però fino alla settimana scorsa i principali investitori sui mercati borsistici globali restavano ancora moderatamente ottimisti, la loro prudenza era divenuta maggiore che non in passato, a causa della presa d’atto di numerosi fattori d‘ attenzione, quali:

– la maggior volatilità che avrebbe contraddistinto l’anno in corso,
 – la presumibile riduzione della liquidità in circolazione a causa della progressiva riduzione degli stimoli monetari introdotti dalle banche centrali,
 – la prospettiva di incremento dei tassi di interesse,
 – Il crescente costo di petrolio e energia, che fa temere un risveglio dell’inflazione,
 – la prospettiva di un generale ridimensionamento delle quotazioni dei principali titoli “tecnologici”, la cui capitalizzazione complessiva incide non poco sulla composizione degli indici delle principali borse americane e asiatiche,
 – la possibilità che il ciclo economico positivo sia giunto al momento di inversione.

Ecco al riguardo alcuni grafici:


Poi è arrivata l’ennesima manovra protezionista del presidente Trump, che ha generato il maggiore “sell-off” degli ultimi tempi delle borse americane, più intenso e violento del solito, con il quale sono stati interamente cancellati i guadagni registrati sino ad oggi nell’intera prima parte del 2018.

I “TIMORI” GEO-POLITICI

Contemporaneamente sono anche discese le quotazioni di numerose “commodities” (materie prime e derrate agricole) ed è invece ulteriormente salito il prezzo del petrolio, il primo di solito a prendere un balzo quando iniziano a fischiare venti di guerra o prospettive di disordine internazionale, che -indubbiamente- si sono manifestate al riguardo di:

 – timori di una guerra commerciale tra USA e Cina
 – Ipotesi di confronti più serrati sulle politiche commerciali con l’Europa
 – possibili nuove tensioni in Medio Oriente, e in particolare in Siria, dove la tensione con i paesi come l’Iran, storicamente collegati alla Federazione Russa sembra accrescersi giorno dopo giorno
 – ancora incerte prospettive sul confronto militare con la Corea del Nord
 – ulteriori tensioni commerciali con Messico e altri paesi americani aderenti al NAFTA.

Ecco un grafico che spiega i timori di Wall Street per una guerra commerciale:

IL ROVESCIAMENTO DELLE ASPETTATIVE

Alla fine della settimana scorsa quindi, dopo una delle peggiori settimane finanziarie di sempre,  i pareri degli investitori istituzionali e professionali hanno iniziato a cambiare, alcune loro certezze sono venute a mancare e le prospettive di proseguire la precedente direzione di rotta nella navigazione, seppur attraverso mari più increspati dalla crescente volatilità, sembrano alla fine infrangersi quando si sommano così tanti fattori di incertezza.

Per completare il quadro generale occorre ricordare che una crescita economica a pieno regime è contemplata tra le ipotesi fortemente necessarie perché gli attuali livelli di debito complessivo (privato e pubblico) siano compatibili con le prospettive di crescita dell’economia globale che sino a ieri erano tracciate dalla maggior parte degli economisti.

Il fatto che i mercati però stanno perdendo la loro fiducia, basata sino a ieri sulle aspettative di crescita economica globale, lo si può leggere dal fatto che negli ultimi giorni persino i titoli a reddito fisso vengono venduti per detenere liquidità o altri beni-rifugio, prendendo atto del sommarsi di un po’ troppe questioni economiche e geo-politiche che potrebbero congiurare tutte insieme per invertire lo scenario incantato che si era registrato in precedenza, proprio mentre la Federal Reserve (la Banca Centrale americana) sembra invece testardamente intenzionata a proseguire con il rialzo dei tassi e la cessione dei numerosi titoli acquisiti in portafoglio ai tempi del Quntitative Easing.

Si è detto che spesso le recessioni (o comunque le inversioni del ciclo economico) deflagrano a causa della scintilla delle politiche restrittive delle banche centrali, inultimente o tardivamente preoccupate per la possibilità che rispunti l’inflazione. Questa volta potrebbe essere assai poco diverso: a questo punto della storia i mercati sembrano non avere molto altro spazio per continuare a correre ancora, e le banche centrali (soprattutto quella americana, che è sempre anni avanti alle altre nella politica monetaria) farebbero bene a tenerne conto, vista la dimostrata forte influenza che le quotazioni dei mercati possono avere sull’economia reale.

Stefano di Tommaso




LO SCANDALO FACEBOOK ACCENDE I RIFLETTORI SULLA VOLATILITÀ DEI TITOLI TECNOLOGICI

Nella sola giornata di borsa di lunedì i 6 più famosi tra I titoli cosiddetti “tecnologici” (FAAMGN: Facebook, Apple, Amazon, Google, Netflix e Microsoft) hanno perduto valore per complessivi quasi 12 miliardi di dollari (100 miliardi di euro).  L’occasione che ha acceso la scintilla delle vendite è stata sicuramente il ribasso sul titolo Facebook, a causa del fatto che la polemica sull’elezione di Donald Trump l’ha coinvolta per aver permesso l’accesso ai dati personali di 50 milioni di suoi utenti a una società di consulenza che lavorava per l’elezione del futuro presidente. Ma la caduta nel valore di capitalizzazione di Facebook è valsa solo 39 miliardi di dollari, mentre gli effetti complessivi sui FAAMGN sono assommati a tre volte tanto.

L’evento, per nulla inusuale sui mercati borsistici internazionali quando si parla di titoli a larghissima capitalizzazione e legati alla sfera di Internet (vedi tabella)

ha comunque scatenato una caterva di timori, considerazioni e commenti da parte degli analisti di borsa, e non a caso.

Molti segnali di allarme circondano i mercati finanziari da quando i valori di borsa sono andati alle stelle e soprattutto riguardo ai titoli tecnologici, che sono quelli cresciuti maggiormente nell’ultimo anno.  Bisogna infatti ricordare che l’intero comparto è cresciuto nell’ultimo anno del 31% e che l’indice dei titoli tecnologici (lo SP500 Information Technology Index) è arrivato a una valutazione media di quasi 19 volte gli utili attesi, il 12% della sua media di lungo periodo (15 anni).

Da tempo diversi investitori con una filosofia di approccio di tipo etico hanno iniziato a dismettere le loro partecipazioni in questo genere di azioni quotate, nel timore di qualche scandalo, mentre anche Apple sta da tempo fronteggiando perplessità legate alla tenuta della sua filiera di approvvigionamento di materiali e componenti pregiati (vedi grafico)

Rimangono inoltre irrisolti i dubbi sulla possibilità che un’ondata di nuove regolamentazioni possano limitare le aspettative di crescita del commercio elettronico e dei social media e poi in molti si interrogano circa la validità della scelta della Federal Reserve Bank of America (la banca centrale americana) di alzare ancora una volta i tassi di un altro quarto di punto (sapremo mercoledì se lo farà davvero) nonostante l’inflazione non abbia ancora dato segni preoccupanti e le borse appaiano decisamente più caute.

Ma soprattutto i dubbi degli investitori si concentrano sulla possibilità che i picchi raggiunti dalle quotazioni negli ultimi mesi possano scatenare sulle quotazioni borsistiche le medesime conseguenze che ebbe all’inizio del nuovo millennio lo scoppio della bolla speculativa dei titoli della “new economy” detta anche “bolla delle Dot Com” (vedi grafico). Dall’inizio dell’anno ad oggi I titoli del settore “public utilities” (acqua, elettricità, servizi pubblici eccetera) sono scesi del 5% mentre I titoli tecnologici sono saliti del 7% e mostrano spesso valutazioni completamente scollegate con gli usuali criteri finanziari.

Continueranno a scendere fino a creare una vera e propria valanga ? Probabilmente no: non sembrano esserci le condizioni perchè si formi una vera e propria voragine sui mercati. Ma come già altre volte abbiamo già preso atto, quest’anno la volatilità sembra essere di nuovo protagonista, e non è detto che il futuro non ci riservi nuove terribili sorprese!

Stefano di Tommaso




L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE È LA “NUOVA ELETTRICITÀ“ E LA CINA NE VUOLE IL PRIMATO

Ecco forse un buon motivo perché non scoppierà l’attuale bolla speculativa dei titoli tecnologici: l’intelligenza artificiale è la nuova frontiera delle start-up tecnologiche e qualsiasi cosa un essere umano possa fare in meno di un secondo, già oggi è facilmente replicabile dall’intelligenza artificiale.

 

È ovvio che ciò cambierà l’intero scenario industriale così come l’elettrificazione l’ha cambiata all’inizio del ventesimo secolo e dunque c’è un disperato bisogno di accaparrarsi queste tecnologie per rimanere efficienti.

Già oggi l’intero comparto industriale della robotica è in pieno fermento, a causa del fatto che l’industria non può rimanere indietro nell’efficienza dei costi di produzione, ma questo non significa ancora aver varcato la soglia dell’intelligenza artificiale : le macchine che apprendono da sole e che si organizzano per eseguire lavori complessi saranno figlie dell’ “internet delle cose”, capace di generare una notevole mole di informazioni che saranno poi processate dall’intelligenza artificiale allo scopo di poterle usare come base dati di partenza.

Sì perché lo sviluppo dell’intelligenza artificiale si basa sulla possibilità di riuscire a esaminare una gran mole di dati per dedurne una serie di comportamenti “intelligenti”, appunto. Per riconoscere I volti umani, per interloquire con loro, per prendere decisioni “razionali” i processori devono realizzare copiose “inferenze” statistiche, sulla base delle quali potranno risultare affidabili. Dunque anche la problematica della velocità del trasferimento dei dati e della loro elaborazione è cruciale per poter realizzare la base dell’intelligenza artificiale: i “sistemi esperti”. Dunque la dimensione delle informazioni disponibili è l’aspetto che permette di evolverli.

E’ noto ad esempio che nella battaglia per il primato nella guida autonoma delle autovetture è Tesla al comando, perché ha il maggior numero di mezzi in circolazione con già al loro interno i sistemi per rilevare e inviare i dati rilevati nelle varie situazioni stradali incontrate. Dunque più automezzi Tesla con sistemi più o meno parziali di guida automatica saranno in circolazione e più Tesla sarà in grado di trasformare i miliardi di informazioni raccolte in miglioramenti dei propri sistemi di guida.

Lo stesso criterio ci porta a immaginare che molto presto sarà la Cina a vincere la battaglia per il primato dell’intelligenza artificiale applicata al commercio e all’industria. La Cina ha infatti la più estesa base industriale installata al mondo e il maggior numero di utenti internet. Questo può fornirle un grosso vantaggio notevole nella corsa alla prossima rivoluzione industriale: acquisire la più ampia base dati e applicarla nello spettro più ampio possibile delle attuali tecnologie .

Le principali società tecnologiche cinesi (Baidu, J.D., Tencent e persino Alibaba) hanno già a disposizione un‘ amplissima base dati della loro clientela “retail” (che in molti casi rasenta il miliardo di individui) e stanno investendo moltissimo nell’intelligenza artificiale per poterla utilizzare in ogni direzione, esattamente come oggi sta già facendo Google. Ma il continente asiatico raccoglie quasi dieci volte la popolazione di quello americano, e con una sete di progresso nemmeno paragonabile.

 

D’altra parte se ne capisce anche la motivazione: se l’intelligenza artificiale è destinata a cancellare il 20-30% degli attuali posti di lavoro e ben pochi suoi abitanti possono oggi vivere con una rendita finanziaria, è altrettanto necessario che quei posti di lavoro di industria e commercio siano rimpiazzati con quelli nella gestione delle tecnologie. Ogni tanto la pianificazione centralizzata dell’intero apparato industriale cinese presenta anche qualche vantaggio per il Paese!

Stefano di Tommaso