GLI OPERAI ITALIANI LICENZIATI DALLE MULTINAZIONALI AMERICANE CON CHI DEVONO PRENDERSELA?

La storia degli ultimi quattordici anni parla chiaro sull’incapacità dello stabilimento (che occupava fino alla fine degli anni novanta 2500 persone) di incontrare i criteri di efficienza nei costi e di produttività che necessitano con l’arrivo della globalizzazione:

•già nel 2004 Embraco annuncia 812 esuberi. L’azienda apre uno stabilimento in Slovacchia e riduce il personale a a Chieri (To), ma la Regione stanzia 7,7 milioni e compra una parte dello stabilimento con l’obiettivo di affittarlo ad altre imprese, il governo mette altri 5 milioni e la Provincia di Torino eroga 500 mila euro per la formazione. In cambio, Embraco investe in automazione e fa ripartire la fabbrica con un miglioramento della produttività. Ma lascia a casa 420 addetti con la promessa (non mantenuta) delle autorità pubbliche che saranno assunti dalle aziende in arrivo nell’area;

•nel 2014 Embraco minaccia di nuovo di lasciare l’Italia. Per farle cambiare idea, la Regione firma un protocollo di intesa di due milioni di euro, e in cambio Embraco si impegna a fare nuovi investimenti. Nel frattempo i dipendenti hanno continuato a diminuire, fino ad arrivare ai 537 di oggi;

•la nuova crisi inizia a novembre del 2017, quando la società annuncia una riduzione della produzione e il numero di operai impiegati, per spostare gran parte della produzione in Slovacchia. Parte un duro coÈ notizia recente che la Whirlpool, nota azienda americana produttrice di elettrodomestici per un fatturato di 20 miliardi di dollari e con marchi arcinoti come Bosch, Beko, Miele, ma anche Electrolux e Indesit (acquisite in Italia) abbia deciso di delocalizzazione la produzione dei compressori frigoriferi che fino ad oggi avveniva in Piemonte in uno stabilimento, quello della EMBRACO (azienda brasiliana del gruppo a Whirlpool) che fino al 1985 apparteneva a Fiat;

•parte un Confronto sindacale al termine del quale a Gennaio Embraco decide di spostare totalmente la produzione in Slovacchia e tutti gli operai ricevono una lettera di licenziamento collettivo.

Ora in quattordici anni (da quando si è passati da 2500 a poco più di 500 dipendenti) di cose se ne potevano fare tante, così come ha fatto la Slovacchia che ha utilizzato i contributi pubblici europei per mantenere bassissime le tasse sul lavoro. Ma la politica italiana è abituata a fare solo promesse, tralasciando la concretezza della realtà a causa della retorica della lotta politica.

La vicenda segue di poco quella della Honeywell (multinazionale americana attiva nella meccanica e nei sistemi di controllo per i settori automobilistico, areonautico) : lo stabilimento di Atessa (Chieti) che aveva aperto anni addietro con i contributi pubblici e che ha deciso di fermare nei giorni scorsi, ha molte similitudini con quello di Chieri: dopo 8 mesi di trattative nei giorni scorsi lo,stabilimento che produce turbocompressori per motori diesel trova un accordo con il supporto del Ministero dello Sviluppo Economico per la cassa integrazione straordinaria di 380 lavoratori fino al febbraio 2019.


Nella sostanza lo stabilimento di Atessa chiude ugualmente per spostare anch’esso la produzione in Slovacchia dove la Honeywell annuncia contemporaneamente un investimento di 32,3 milioni di euro con 130 nuovi posti di lavoro nella sua fabbrica di Presov, che diventa così il secondo polo produttivo mondiale di turbosoffianti per motori diesel”.

Così come anni addietro era avvenuto in Italia una parte di questo investimento è a carico dello Stato Slovacco e può configurarsi anche come “aiuto di stato” oggi però espressamente vietato dalla normativa europea”.

La fabbrica di Presov attualmente occupa 1100 lavoratori, pagati con salari molto più bassi di quelli italiani e nacque nel 2012 con un sostegno del Governo slovacco di 19 milioni di euro. La Slovacchia per il suo sviluppo industriale riceve ingenti finanziamenti dalla Unione Europea, messi a disposizione dai grandi Paesi Europei e l’Italia è uno dei più grandi donatori.

Molti Paesi dell’Europa Orientale, entrati dopo il crollo del blocco sovietico, hanno beneficiato di ingenti aiuti producendo all’interno dell’Unione Europea una concorrenza sleale fatta di bassi salari e minori diritti contrattuali che hanno provocato una massiccia delocalizzazione industriale a scapito di Paesi come l’Italia.

Sino qui i fatti, la dura realtà della ricerca dell’efficienza delle imprese che si scontra con i problemi della competizione territoriale per attrarre lavoro e investimenti. La Slovacchia paga meno dell’Italia i suoi operai ma mostra un’economia che cresce nel 2017 del 5,4%, con una disoccupazione del 5,9% (la metà dell’Italia), ha bassissime tasse sul lavoro e la tassazione dei profitti d’impresa al 19%. Non a caso può vantare la più elevata produzione pro-capite di automobili e attira continuamente investimenti esteri.

L’Italia non solo non riserva le stesse condizioni alle imprese che vengono a investire da noi ma soprattutto non fa nulla per incentivare la ristrutturazione industriale dele imprese già esistenti e moderare l’aspro confronto sindacale. Cosa che ovviamente scoraggia le multinazionali a proseguire l’attività sul nostro territorio.

La questione, più volte ripresa e poi abbandonata nel dibattito politico pre-elettorale, si chiama politica industriale. Di cui da noi manca praticamente tutto. Difficile prendersela con gli americani o con la Commissione Europea di Vestager…

Stefano di Tommaso




PERCHÉ IL DOLLARO SCENDE?

Superato il “sell-off”delle ultime settimane, Wall Street è tornata a toccare nuovi massimi, le statistiche più recenti diffuse dalle autorità americane forniscono riscontri più che incoraggianti e l’attesa per ulteriori incrementi dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve è addirittura cresciuta e, con essa, i rendimenti dei titoli obbligazionari ma, nonostante tutto ciò, il Dollaro continua a svalutarsi nei confronti di praticamente tutte le altre valute!

 

IN CADUTA LIBERA

L’anno scorso il biglietto verde si è svalutato infatti del 9% nei confronti delle principali valute di cambio, nonostante una crescita economica superiore alle attese e quest’anno in un mese e mezzo è sceso di un ulteriore 3% sebbene le prospettive del paese siano ancora migliori e si accompagnino a due fattori che dovrebbero migliorarne ulteriormente l’appetibilità : la forte riduzione delle aliquote fiscali e il conseguente rientro dei capitali detenuti all’estero dalle grandi multinazionali americane.

Ovviamente tutti si chiedono perché. La vicenda smentisce una serie di assiomi dettati da tutte le teorie economiche e, evidentemente, desta molti dubbi anche sulla possibilità che possa andare avanti a lungo.

LE POSSIBILI SPIEGAZIONI

Una prima risposta potrebbe venire dalla scarsa fiducia che i maggiori operatori vogliono mostrare sulla capacità dell’amministrazione Trump di tenere a bada il deficit di bilancio che deriverà dalle minori entrate fiscali (questi ha puntato sulla riduzione delle spese deducibili e sulla crescita del prodotto interno lordo per controbilanciarle). Ma l’eventuale ampliamento del debito pubblico americano non è di per se un forte argomento per vendere dollari, perché il primo risultato sarebbe quello di un’ulteriore crescita dei rendimenti dei titoli e quindi invoglierebbe ulteriori capitali a trasferirsi oltre oceano.

Una seconda risposta, questa volta più fondata, potrebbe arrivare dalle attese di inflazione per l’economia americana, che controbilancerebbero la salita dei tassi portandone a nullità l’effetto sui tassi reali d’interesse (al netto dell’inflazione) o peggio riducendoli. Si tratta tuttavia di illazioni non supportate dai fatti, dal momento che nessuno dispone di statistiche sui prezzi che non siano di pubblico dominio.

Ancor più fondati sarebbero però i dubbi sugli effettivi rendimenti degli investimenti finanziari sul mercato americano se sommiamo a quelli sui tassi d’interesse reali anche I dubbi sulla tenuta del mercato borsistico statunitense, oggettivamente sopravvalutato rispetto a tutti gli altri, sebbene questo fenomeno sia una costante da decenni (in compenso è sempre stato più liquido e più trasparente).

Chi vende allora i dollari sarebbero soprattutto gli investitori, i quali hanno ben a mente che veniamo da un periodo recente di grande risalita del biglietto verde e che sino a ieri avevano a lungo controbilanciato l’effetto depressivo sui cambi che deriva dal deficit strutturale commerciale e delle partite correnti tra USA e resto del mondo con l’allocazione di capitali stranieri sul mercato finanziario americano. Ma oggi -grazie anche alla globalizzazione dei mercati finanziari- essi trovano più interessante puntare altrove le loro scommesse.

IL RUOLO DELLA SPECULAZIONE

Ovviamente però a costoro si aggiunge la speculazione, che sembra abbia puntato in totale qualcosa come 13 miliardi di dollari in scommesse contro la valuta a stelle e strisce. Speculazione che spera di trovare nel tempo supporto nelle scelte degli investitori finali perché dovrebbe invece correre presto ai ripari qualora l’economia americana dovesse continuare a correre, Wall Street dovesse stabilizzarsi nuovamente e l’inflazione rimanesse entro i limiti fisiologici del 2-3% (cioè al di sotto della crescita del P.I.L.).

Stefano di Tommaso




LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI RIVELA MINOR OTTIMISMO DI QUANTO ESPRESSO DAGLI INDICI DI BORSA

Per chi si chiede come andrà l’economia globale nel 2018 c’è un modo semplice di provare a rispondere: provare a guardare dove si orientano le grandi case di investimento nel mondo. Non soltanto è utile conoscere il loro livello di fiducia, la quota investita in azioni rispetto a ciò che è investito in titoli a reddito fisso e a quale percentuale di cassa mantengono la loro liquidità, ma soprattutto è interessante conoscere la ripartizione dei loro portafogli per settori industriali, quanta quota parte è investita in titoli proc-ciclici e quanta in titoli anti-ciclici (cioè che crescono o che decrescono quando l’economia “tira”). Ebbene i dati più recenti, relativi allo “stance” di Febbraio differiscono molto da quelli di solo un mese prima:

REDDITO FISSO

come ci si poteva attendere dai corsi dei titoli obbligazionari (tutti in discesa) la quota di titoli a reddito fisso non è cresciuta nei portafogli istituzionali, ma non sembra nemmeno essere scesa, dal momento che l’attesa generale è quella di una fortissima correlazione tra gli andamenti di azioni e obbligazioni (oltre il 90%);

LIQUIDITÀ IN PORTAFOGLIO

ciò che dunque sale è invece la cassa netta detenuta (al di sopra delle medie storiche) sul totale del portafoglio di investimenti (segnale di cautela di fronte all’incertezza dei mercati) ma soprattutto aumenta l’intenzione dei gestori di portafogli di liquidare talune posizioni appena possibile sfruttando eventuali rimbalzi delle quotazioni. Evidentemente l’ipotesi alla base è che il mercato azionario è ancora troppo caro;

SETTORI INDUSTRIALI

un forte segnale di avversione al rischio è la rinnovata preferenza per comparti notoriamente “difensivi” quali la sanità, le telecomunicazioni, le “utilities” (acqua, energia, servizi pubblici ecc…) mentre solo un mese fa ad essere favoriti erano soprattutto I comparti “pro-ciclici” come la meccanica e l’elettronica e le nuove tecnologie. E’ evidente che la scelta riflette l’aspettativa generale di un rallentamento dell’economia, mentre le statistiche sino ad oggi sembrano indicare il contrario.

MERCATI

dietro-front anche per i mercati emergenti, sui quali fino al mese scorso molti gestori di portafogli avevano puntato, evidentemente perchè si teme che la liquidità del mercato -chiaramente in restrizione- possa affliggere prima le piazze più remote del globo. Questo normalmente è un segnale di aspettativa di rafforzamento del Dollaro (principale moneta estera di scambio per i paesi emergenti) mentre non è un buon segnale per l’euro, che riflette l’andamento dell’Europa, che annovera le principali nazioni esportatrici di costruzioni, impianti e tecnologie industriali, le quali evidentemente non beneficeranno della ridotta disponibilità di capitali nei paesi emergenti. Tuttavia non possiamo evitare di notare che invece sono mesi che il Dollaro continua a scendere e che questo fatto tutto sommato controbilancia la fuoriuscita dei capitali dai paesi emergenti.


IL “GURU” DI OMAHA

interessante curiosità viene dall’orientamento di portafoglio del più famoso di tutti I gestori di investimento azionario: il quasi novantenne Warren Buffett. La sua notoria avversione ai titoli finanziari e a quelli tecnologici viene ribaltata dai fatti: il bilancio di Berkshire Hathaway vede nell’ultimo trimestre 2017 un accrescimento significativo della partecipazione in Apple (tecnologia) e in banche come Wells Fargo, Bank of America, Bank of New York Mellon e US Bancorp. Altro settore dove ha effettuato una pesante scommessa è quello dell’agricoltura, incrementando negli ultimi mesi la quota di azioni già detenuta in Monsanto. In effetti è difficile dargli torto: Apple sta performando molto bene e risulta una delle società più solide e meglio gestite di Wall Street, la tendenza al rialzo dei tassi si sta confermando e ne risultano inevitabilmente favorite le banche che vedono crescere la loro forbice (tra tassi attivi e tassi passivi) e infine i prezzi delle principali derrate alimentari stanno crescendo e ciò favorisce i titoli del settore.


MORALE

la corsa delle borse degli ultimi anni è stata accompagnata da un prolungamento del ciclo economico positivo ben oltre le più rosee aspettative che, anche per la sua lunga durata è riuscito a sincronizzare l’economia americana (il cui orologio va notoriamente avanti di mesi rispetto al resto del mondo) con quella europea e quella dei principali Paesi in via di sviluppo. Questa sincronia ha dato nuovo impulso alla crescita economica globale e, ovviamente, gli indici delle borse di tutto il mondo non hanno potuto che registrare l’ottimismo che si andava diffondendo. Oggi però i principali investitori, nonostante le buone notizie sul fronte dell’economia reale, ritengono ugualmente le borse sopravvalutate e orientano verso la prudenza la composizione dei loro investimenti, rivolgendosi verso titoli anticiclici e aumentando la quota di liquidità.

È interessante notare che questo non significa necessariamente che le borse scenderanno ma solo che tra gli investitori si diffonde maggior prudenza visto che possono permetterselo. I recenti lauti guadagni possono infatti far dimenticare loro il rischio di beneficiare meno delle prossime risalite. E, così come è già accaduto nell’ultimo anno e mezzo, questo fatto è positivo perché riduce la possibilità di eccessi speculativi e aiuta a dare stabilità al mercato azionario.

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso