QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso




I CONSUMI DEI MILLENNIALS RIVOLUZIONANO L’INDUSTRIA

LE NUOVE GENERAZIONI RIVOLUZIONANO I CONSUMI, L’INDUSTRIA E LA DISTRIBUZIONE. MEGLIO PER OGNI OPERATORE ECONOMICO E FINANZIARIO ATTREZZARSI PER TEMPO INTERPRETANDO LE NUOVE TENDENZE E CERCANDO DI CAVALCARLE

C’è un profilo di uomo nuovo che appare oggi sempre più distintamente all’orizzonte delle categorie sociologiche e comportamentali: quello dei “millennial”, cioè di quei ragazzi e ragazze che appartengono alle ultime generazioni, nate o cresciute a cavallo del nuovo millennio. In questi anni i millennial stanno terminando gli studi o si sono da poco avviati alla vita lavorativa, iniziano a costituire un insieme a sé di percettori di reddito e comunque si sono distinti da da tempo come nuova categoria di consumatori e, come forse non era così scontato immaginare fino all’altro ieri, condividono un sistema di valori, un insieme di preferenze e una serie di aspirazioni per il futuro che appaiono fortemente discordanti con quelle delle generazioni precedenti.

È dunque inevitabile che questo impatterà non poco sulle tendenze di fondo dell’industria, dei consumi e della distribuzione come è altrettanto inevitabile che ne rimarranno segnate molte altre tendenze, da quelle della moda, ai servizi, alla politica e alla cultura, con ovvie conseguenze sui settori dell’intrattenimento, dell’elettronica , del software e delle telecomunicazioni, come nell’ambito dei trasporti e dei beni di consumo durevole, sino agli investimenti finanziari.

UN’ONDA LUNGA NEI CONSUMI E NELLA DISTRIBUZIONE

Più che una vera e propria rivoluzione culturale -che per certi versi ne deriverà presto e inevitabilmente- il fenomeno legato alle differenti categorie comportamentali e aspirazionali dei millennial al momento si profila come un’onda lunga sul fronte dei consumi, uno tsunami silenzioso ma imponente, in grado di sradicare molta parte dell’attuale comparto manifatturiero, di rovesciare buona parte dei criteri del marketing e della pubblicità e di radere al suolo la quasi totalità dei precedenti sistemi di distribuzione e commercio. E se questo sarà il portato della silenziosa quanto travolgente sovversione in corso è forse bene che non la analizzino e se ne preoccupino soltanto i sociologi, i filosofi e gli artisti, ma anche e soprattutto gli economisti, i politici e gli imprenditori.

Che non si tratti -solamente- di uno dei mille volti della digitalizzazione dell’economia, della sua transizione verso il commercio elettronico, la condivisione in rete delle informazioni e la diffusione globale della conoscenza di una nuova lingua universale come l’inglese (tutti fenomeni assolutamente reali e dirompenti ma che appartengono invece alla generazione precedente) lo testimoniano alcuni cambiamenti di costume che ci apprestiamo ad esaminare con attenzione per cercare di delineare meglio ciò che sembra possa accadere all’economia del nuovo millennio.

COME CAMBIANO I GUSTI E LE ABITUDINI

L’Abbigliamento per esempio. Lo si è iniziato a notare con la ripresa economica che, avviata oltre oceano alla fine dello scorso decennio, arriviamo a toccare con mano sul fronte dei consumi solo negli ultimi dieci-venti mesi nel vecchio continente. Nonostante la spesa per consumi si riprenda, il settore dell’ “apparel” (che nell’accezione più comune comprende oltre agli articoli del tessile/moda in senso stretto anche gli accessori, i gadgets ornamentali e le dotazioni destinate all’esercizio fisico o al corredo d’abbigliamento ad uso lavorativo) sembra addirit8andare in senso opposto: verso il baratro.

I gusti e la cura della persona nelle nuove generazioni sembrano semplificarsi, limitarsi, tendere insomma all’essenziale, deprimendo le vendite ed esaltando l’essenzialità, il riciclo e l’omologazione dei prodotti che essi tendono ad acquistare. In poche parole è come se l’intero comparto dell’abbigliamento avesse perduto il suo fascino agli occhi delle nuove generazioni.

Le conseguenze economiche di una tale tendenza sono ovviamente dirompenti, soprattutto per Paesi e sistemi economici come il nostro, che tendono a contare non poco su questo comparto e sul design che lo anima. Quanto questo fenomeno di costume possa in ultima analisi farsi anch’esso risalire alle conseguenze ultime della digitalizzazione e della globalizzazione è arduo dire. E poi esula da questa indagine. Ma il dato di fatto rimane: se i consumi di questo settore crollano, interi sistemi-paese ne sono minacciati.

I numeri parlano chiaro soprattutto negli Stati Uniti d’America, che usualmente anticipano sempre le tendenze del resto del mondo: L’abbigliamento nel 2016 ha costituito soltanto il 3,6% del totale della spesa del consumatore medio americano, contro il 5,1% pagato per l’intrattenimento, l’8,5% per la salute e il 12,6% per il cibo.  Accorpando diversamente i dati viene fuori che la spesa per “esperienze” (dove comprendiamo viaggi, ristoranti e altre attività tipicamente di gruppo) ha raggiunto invece il 18% del totale mentre la sola spesa per le “tecnologie” (ivi compresi gli abbonamenti alle tv online e ai servizi online) supera il 3% (cioè quasi quanto l’intero comparto abbigliamento, accessori e calzature). E visto che parliamo della spesa del consumatore medio americano dobbiamo considerare ancora il basso impatto su quella media delle tendenze emergenti, legate alle preferenze delle nuove generazioni (ancora più dirompenti).

Ma legato al declino delle vendite nell’abbigliamento e negli accessori di moda e di costume vi sono quelli ancora più vistosi del commercio e della distribuzione tradizionale. Una vera ecatombe di negozi che chiudono, grandi magazzini e centri commercio che si ristrutturano (lasciando sempre più spazio al gioco, all’intrattenimento e alla cura della persona) grossisti e distributori internazionali che lasciano il loro spazio di mercato alle nuove forme di consumo online e alle grandi (e dilaganti) organizzazioni/società multinazionali che si occupano sempre più direttamente della vita, dei consumi, della sanità e delle assicurazioni del loro personale (soprattutto quello meglio retribuito).

Quello che si vede ad occhio nudo nella maggiore informalità dell’abbigliamento anche sul posto di lavoro si esprime in una vera e propria rivoluzione delle catene di negozi: crescono quelle in formato GDO (grande distribuzione organizzata) orientate al risparmio e all‘essenziale e si riducono quelle frequentate dal consumatore medio, i multimarca e persino il lusso. Presto la cravatta sarà un ricordo delle generazioni passate ma persino l’abbigliamento di scopo (tute da lavoro, divise, accessori di sicurezza ecc…) si comprime insieme al numero di persone occupate nell’industria manifatturiera (sempre più automatizzata), nell’agricoltura e nell’artigianato.

Ma anche nell’intrattenimento (musica, cinema, discoteche, club, ristoranti ecc…) è in atto una rivoluzione silenziosa e dilagante. Si sa che i millennial sono persone piuttosto schive, poco amanti dell‘ ostentazione e dei fenomeni da baraccone, dei ristoranti e del lusso esteriore (cerimonie di battesimo, compleanno, matrimonio e funerale comprese). I loro archetipi,si chiamano Mark Zuckerberg (Facebook), Jeff Bezos (Amazon), o se vogliamo proprio parlare di “mummie” redivive allora prendiamo il fondatore di Virgin, Richard Branson.

I millennial fanno relativamente poca attività fisica ma mangiano cibo integrale e biologico e assumono poco alcool, parlano le lingue straniere e il linguaggio delle macchine / della tecnologia ma sembrano amare la sobrietà, l’intimità, gli spazi funzionali e ordinati, i ritrovi segreti, i viaggi e gli appuntamenti all’altro capo del mondo, i messaggi in codice e i simboli, soprattutto quando sottemdono a una combinazione di culture, popoli, spiritualità e salute mentale.

COME CAMBIANO GLI INVESTIMENTI E LE PREFERENZE

Difficilmente comprano automobili e case (piuttosto le affittano per brevi periodi) mentre spendono fiumi di risorse in tecnologie di ogni genere e investono i loro denari sui mercati finanziari. Detestano però le banche tradizionali, i titoli a reddito fisso e la medicina tradizionale. Sembrano (ma è presto per dirlo) voler dedicare molto più tempo alla cura della salute, alla prevenzione dall’invecchiamento e si preparano a una cultura più consapevole e universale, ma anche più “tribale”, con la riscoperta delle antiche tradizioni di famiglia e il gusto per la ricerca delle proprie origini.

Cercano consigli online, trovano ogni genere di pubblicazioni e notizie gratis sulla rete e comunicano (per iscritto) come matti tra loro ma parlano meno e disertano le folle. Ma dopo che hanno trovato la loro aspirazione sembrano più fedeli alle loro idee, più orientati al lungo termine (anche perché si attendono in media una vita ultracentenaria) e in generale più favorevoli ad investire per l’utilizzo delle nuove tecnologie.

Difficile racchiudere nelle poche parole di un articolo tutto quello che ne potrà conseguire in termini di consumi, di infrastrutture, di investimenti e di tendenze sociali ma una cosa è certa: il futuro che sembra delinearsi sarà quantomai dirompente per quasi tutti i business tradizionali, per i beni di lusso, i locali notturni e le professioni liberali, i beni di consumo durevole e l’edilizia. Difficile anche presumere quali settori sembrano “tirare” maggiormente, perché il fenomeno è piuttosto recente. Ma se va avanti così è agevole pronosticare il successo di coloro che condurranno ricerche di mercato: ce ne sarà bisogno praticamente per chiunque!

Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso




BOOM DEI MINIBOND: AUMENTA LA LORO DURATA, SE NE RIDUCE IL COSTO E CRESCE IL NUMERO DI IMPRESE EMITTENTI

Continua a crescere il numero di Mini-bond emessi e sottoscritti (sia private placement che public offering) grazie al crescente numero di imprese che scelgono di prendere le distanze dai tradizionali canali bancari (tipici della nostra cultura) sperimentando opportunità di finanziamento alternative capaci di riservare molteplici vantaggi nonché quello di sconfiggere le timidezze e diffidenze che gli imprenditori ancora oggi nutrono verso i mercati finanziari.

 

Un fattore che potrebbe aver stimolato questo exploit, è quasi certamente la “caduta” di diversi istituti bancari (soprattutto a Nord-Est) che per decenni hanno monopolizzato e centellinato l’erogazione di risorse finanziarie.

Di seguito il grafico delle emissioni di Minibond quotati al comparto Extra Mot Pro della Borsa Italiana fino al 31.12.2016.

Se fino a quella data avevamo assistito a una crescita costante dello strumento, è nell’ultimo trimestre del 2017 che si è registrato un vero e proprio boom sui minibond, privilegiati soprattutto dalle Pmi rispetto alla Borsa e all’intervento del Private Equity anche grazie alla piena deducibilità degli interessi (entro i limiti del 30% del Reddito Operativo Lordo) e alla scarsa “invasivitá” dello strumento nella gestione e nella “governance aziendali.

Nel solo periodo Ottobre-Dicembre Il numero delle emissioni è fortemente cresciuto: quelle inferiori ai 50 milioni di euro sono state 28 per 147 milioni. Dato che ha portato ad un ammontare complessivo erogato nel 2017 a quota 1,805 miliardi e sono guidate principalmente dal comparto manifatturiero, seguite poi da quello del Food&Beverage, Utilities e Media & ICT.

Ma anche le operazioni di taglio molto grande (più di 150 milioni) sono aumentate, facendo registrare in totale a fine 2017 oltre 300 emissioni per più di 14 miliardi.

Parallelamente alla forte crescita registrata, si è assistito anche ad una contrazione del taglio medio dei bond (sceso a 7.3 Mio), nonché ad una cedola media scesa al 5.13% ed infne ad un “time to maturity” (durata) finalmente superiore ai 5 anni.

La riduzione del ticket evidenzia una maggiore attenzione ed interesse da parte delle PMI verso il mercato del debito e dei capitali riservato, fino a pochi lustri fa, alle sole realtà di maggiore dimensione. Difatti, se fino a pochi anni fa il campione emettente di minibond era presidiato da realtà con fatturato superiore ai 100 Mio., da pochi anni a questa parte, questo è cambiato radicalmente tanto da portare a 40 il numero complessivo delle società emittenti con ricavi inferiori ai 10 Mio. Anche la durata media è cresciuta, sebbene il maggior numero di operazioni si sia concentrato sulla scadenza dei 5 anni.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

Un altro interessante aspetto dei Minibond é la presenza di possibili opzioni di riacquisto o rimborso, come mostrato da questa statistica:

Ecco di seguito una tabella dei principali investitori:

ASPETTI FISCALI E COSTI:

§ Deduzione dei costi inerenti l’emissione ‘per cassa’ (esempi: commissioni , costi società di rating, provvigioni di collocamento, costi Advisor, compensi legali e altri);

§ Richiesta codice ISIN a Banca d’Italia (in caso di dematerializzazione del titolo) e accentramento dei titoli presso un ente autorizzato: costo iniziale c.a. 2.000 € e di mantenimento c.a. 1.500€/anno

§ Certificazione bilancio di esercizio: circa € 15.000

§ Fee Advisor: Una Tantum tra 1% e 2.5% del collocato

§ Fee Arranger: Una Tantum tra 0.5% e 1.5% del collocato

§ Studio Legale: da € 15.000 a € 25.000

§ Emissione del Rating: da € 15.000 a € 20.000 per le PMI. Dal secondo anno -40%.

Di seguito l’elenco completo delle emissioni fino a 50 milioni di controvalore e la loro ripartizione per settori industriali di appartenenza:

 

Stefano di Tommaso

Giorgio Zucchetti