FINANZIARE UN’IMPRESA SENZA AVERE CREDITO

Quasi tutti gli imprenditori del mondo si sono chiesti, almeno all’inizio della propria avventura, come riuscire a finanziare il proprio business. Spesso il capitale sociale di partenza è minimo e le imprese neonate o recuperate da un dissesto appaiono difficilmente bancabili se non hanno ancora chiuso il primo bilancio oppure se le dimensioni sono troppo piccole. Molte nuove imprese magari rilevano attività esistenti e già avviate ma esse non sono normalmente “bancabili” se non possono parallelamente esibire adeguate garanzie patrimoniali a chi potrebbe finanziarle. Non c’è bisogno di perdersi d’animo in molti di questi casi perché spesso nelle attività di impresa esistono molteplici risorse nascoste o modalità alternative di fare affari che possono costituire una valida alternativa al debito bancario e sostenere l’impresa magari anche solo per qualche tempo.


LA CORRETTA DEFINIZIONE DI CAPITALE

Sicuramente un’impresa che nasce da zero -spesso una startup tecnologica- deve riuscire a dotarsi di un capitale di rischio di importo congruo con il proprio piano aziendale, sempre che ne faccia uno. Ecco, il piano aziendale è veramente importante perché se sviluppato correttamente fornisce indicazioni circa la necessità di cassa prospettica e spesso aiuta a reperire risorse chiarificando i rischi ed i rendimenti attesi dell’impresa. Quantomeno il piano aiuta a capire se il capitale di partenza sarà sufficiente a sostenere l’attività fino a quando non sarà possibile generare cassa ovvero accedere a nuove risorse finanziarie.

IL PIANO D’IMPRESA NON SI PUÒ DELEGARE DEL TUTTO AI CONSULENTI

Il piano però non è soltanto un foglio di calcolo, bensì la disamina approfondita delle variabili di partenza che determinano i risultati attesi e delle modalità di impiego delle risorse necessarie. Quando quelle variabili di partenza sono correttamente confrontate con la realtà e diventano ipotesi credibili alla base dello sviluppo numerico atteso, ciò che bisogna aggiungere sono la descrizione e la quantificazione dei rischi e delle modalità per delimitarne le conseguenze negative.

Un imprenditore “autentico” non può pensare di demandare a terzi il suo piano aziendale, bensì al massimo può farsi aiutare nel tracciarlo. Innanzitutto perché deve riuscire a comprendere se la sua attivitá aziendale consegue veri utili oppure genera perdite (cosa mai tanto scontata ex ante), e poi perché attraverso il piano egli inizia a prendere coscienza delle effettive necessità di investimento per sostenere l’attività (quanto può rendere l’impresa se si investe di più?) e infine per toccare con mano le esigenze di capitale circolante netto (che d’ora in avanti definiremo CCN, il cui importo deriva dalla somma algebrica del magazzino e del credito alla clientela, dedotto il credito di fornitura).

IL RUOLO DEL CAPITALE CIRCOLANTE NETTO

Più il CCN risulta elevato e più assorbe risorse finanziarie, che spesso non producono reddito. Più si riesce a ridurlo (magari aumentando vertiginosamente la velocità di rotazione delle scorte, oppure riducendo i tempi di incasso dalla clientela, o infine ottenendo per le ragioni più svariate dell‘ulteriore credito di fornitura) e meno risorse finanziarie serviranno all’impresa, soprattutto quando dovrebbe impiegarle altrove: nell’efficienza della produzione, nei sistemi di controllo e più che ogni altra cosa, nello sviluppo dei mercati di sbocco.

Il controllo efficiente del CCN è di solito il vero scoglio da superare per chiunque, tanto per il fatto che c’è sempre qualche modo ancora da scovare per ridurlo, quanto perché -se è fisiologico- c’è sempre qualche modalità alternativa per finanziarlo.

LE PIATTAFORME DI CREDITO ALTERNATIVE

Esistono infatti non solo le banche ma anche e soprattutto società di factoring di ogni genere (sino ai cosiddetti “marketplace” online) che si propongono alle imprese che vogliono smobilizzare i loro crediti commerciali verso imprese solide, e in qualche caso propongono persino di finanziare i loro fornitori (reverse factoring) e che in altre situazioni possono finanziare le consistenze di magazzino. Riuscire a coprire in questo modo le esigenze di CCN significa in molti casi trovare quelle risorse altrimenti non reperibili che fanno la differenza.

Volendo stressare al massimo il concetto (e chi non trova risorse alternative spesso non può fare altrimenti) è teoricamente possibile cedere la proprietà degli assets aziendali mantenendo l’uso di quelli più strategici e si può arrivare a ottenere risorse per gli investimenti portando il CCN a un valore negativo, cioè ottenendo più credito di fornitura di quanto ammonti la somma di crediti commerciali e magazzino. Con quella differenza l’impresa può teoricamente finanziare anche i propri investimenti, anche se ovviamente l’arrivare a finanziare l’impresa grazie ai fornitori è un atto estremo e può portare numerose conseguenze negative.

Ma è comunque astrattamente possibile, soprattutto quando lo si faccia per un breve periodo di tempo e per ragioni eccellenti.

IL RAGIONAMENTO DA “IMPRENDITORE SQUATTRINATO” AIUTA COMUNQUE

Un altro metodo per finanziarsi quando non si dispone di cassa è quello di ottenere da terzi senza pagare (in comodato, in noleggio o in cambio di altro) beni strumentali, spazi fisici o altre tipologie di strumenti di produzione (computers, veicoli ecc…). Se io prima pensavo che il capitale sociale di cui dovrei disporre in funzione del mio piano aziendale dovevo impiegarlo per acquisire tali beni e/o per finanziare il CCN ecco che, individuate forme diverse di reperimento di cassa, magari quel capitale potrebbe non servirmi più, o potrebbe servirne di meno o potrei pensare di investirlo meglio in altre direzioni.

Il ragionamento appena accennato, che io chiamo “dell’imprenditore squattrinato” vale infatti anche per chi non lo è davvero, ma può chiedersi se sta utilizzando nel modo migliore le risorse di cui dispone o se invece non varrebbe la pena di sostituire gli attuali metodi di finanziamento con alcuni di quelli indiretti qui citati per reperire risorse al fine di effettuare quegli investimenti che potrebbero risultare davvero strategici per il futuro del business. Molti imprenditori credono di aver fatto tutto il possibile ma dimenticano gli investimenti strategici o semplicemente non si arrischiano a farli perché non ritengono di disporre di sufficienti risorse. Ma si sono mai chiesti quanto è rischioso non farli?

LA NECESSITÀ DI CONTINUARE A CERCARE SOCI DI CAPITALE

Senza dubbio ciò che spesso risulta più odioso dal punto di vista dell’orgoglio dell’imprenditore è l’andare a reperire capitale da terzi investitori, mentre potrebbe da molti punti di vista risultare l’alternativa più sana per far soldi. Non necessariamente infatti allargare la compagine sociale significa aver fallito, anzi! Spesso è un problema strettamente psicologico o di mancata capacità di mettersi attivamente a ricercare i soggetti che potrebbero investire con lui. Le domande che questi ultimi faranno per decidere se investire nella sua impresa molto probabilmente risulteranno essere la miglior consulenza gratuita per un imprenditore che vuole ragionarci sopra.

Nuovi soci di capitale che disturbano perché possono voler dire la loro anche quando non hanno ragione o rischiare intralciare il business, spesso risultano comunque essenziali laddove i rischi del business risultino elevati ovvero poco razionali e dunque nessuna modalità di finanziamento (per quanto irrituale) è altamente indicata. Quando non sarebbe sano finanziarsi (anche indirettamente) la cosa da fare è raccogliere capitale di rischio, magari tramite piattaforme online (crowdfunding) o intermediari specializzati.

Senza parlare della necessità costante delle imprese di crescere e consolidare la propria posizione di mercato, per affrontare le sfide del futuro o anche solo per meglio remunerare degli investimenti che vanno comunque fatti a prescindere dalle dimensioni aziendali. Moltissime imprese italiane tralasciano di pianificare il proprio futuro.

LA NECESSITÀ DI PIANIFICAZIONE E ANALISI STRATEGICA

Qui però torna di attualità il piano aziendale e insieme ad esso la corretta definizione di rischio, rendimento, generazione di cassa e assorbimento di CCN: molte pratiche alternative di reperimento di risorse fuori del mercato dei capitali e del credito bancario possono generare oneri aggiuntivi, rischi e possibili vincoli strategici. Senza una visione strategica del mercato, della concorrenza, delle alternative di fornitura e dei mercati di sbocco, non si ottiene un’immagine nitida del proprio posizionamento e non si elaborano scenari alternativi. In tali casi pratiche come quelle citate, finalizzate al reperimento di risorse finanziarie “alternative”, possono risultare pericolose o più semplicemente possono indurre perdite economiche che non risultano recuperabili in tempi ragionevoli.

Molte imprese possono dunque “guardarsi dentro” e scoprire di disporre di tesori nascosti e capacità vitali inaspettate, ma nel farlo devono cercare di avere le idee chiare e la possibilità di generare valore per tutti i propri “stakeholders” nonostante tutto!

Stefano di Tommaso




E-COMMERCE, PARCEL & LOGISTICA IN ITALIA

E-COMMERCE E FINANZA

L’ultimo Black Friday ha posto sotto gli occhi di tutti lo sviluppo tumultuoso degli acquisti online. Un fenomeno di cui i “retailers” italiani non stanno molto approfittando. La rivoluzione digitale passa anche dal commercio ma i suoi pionieri non sono certo i nostri connazionali, nemmeno sul mercato interno. Ben poche delle catene commerciali italiane hanno fatto qualcosa per adeguarsi alle nuove tendenze di mercato. Chi guadagna posizioni con il rimescolamento che ne deriva sono le grandi corporations multinazionali come Amazon o Alibaba. E mentre il commercio elettronico avanza esso condiziona anche i servizi ad esso collegati, come quelli della logistica e del trasporto.

 

Non è un vero problema di know-how, dal momento che procurarsi la tecnologia di un “market place” o di un sito di e-commerce è veramente alla portata di tutti. La ragione del ritardato sviluppo online degli operatori nazionali è casomai legata alle dimensioni degli investimenti pubblicitari che sono necessari per avere successo e che non si giustificano se non raggiungono l’intera nazione. Altro motivo del ritardato sviluppo online dei nostri operatori commerciali è poi l’ingiustificato timore di danneggiare i propri punti vendita fisici.

Dunque quando parliamo di ritardato sviluppo del commercio elettronico nel nostro Paese vediamo principalmente cause finanziarie e culturali, che sono due facce della stessa medaglia: se l’Italia vuole alimentare la sua industria deve riuscire a evitare che essa risulti incapace di vendere i suoi prodotti, a partire dal mercato domestico. Le motivazioni finanziarie tra l’altro sopravanzano di gran lunga quelle culturali perchè si può constatare chiaramente che gli operatori che oggi risultano leader nel settore del commercio online sono tutti passati dalle forche caudine di due o tre anni di perdita economica prima di veder affermato il proprio successo online.

in Italia con un mercato finanziario e borsistico assai poco capace di far affluire capitali di rischio a operatori dell’e-commerce che vogliano partire da zero e, più in generale. poco capace di avere a che fare con i rischi e le esigenze tipico delle start-up innovative, è più difficile che qualcuno si avventuri a fare vendite online con i quattrini dei soliti “family&friends” a fare vendite online.

IL “DIGITAL DIVIDE” ITALIANO (L’ARRETRATEZZA NEL MONDO ONLINE)

Dal punto di vista culturale il problema è forse ancora più grave: nonostante che per gran parte degli articoli che si possono reperire in rete esista un risparmio di prezzo dell’ordine del 20-40%, oggigiorno le vendite online in Italia appaiono ridottissime, anche perché solo una piccola parte della popolazione è entrata nell’ordine di idee di cambiare seriamente le proprie abitudini. Questo ovviamente riduce la domanda potenziale e di conseguenza l’attrattivitá del settore per chi ci potrebbe investire.

Nel 2016 soltanto un terzo degli italiani ha fatto almeno una volta shopping online, contro il 52% medio dei Paesi OCSE (cui apparteniamo anche noi). Mentre in rete naviga ancora solo il 69% dei connazionali e tra le aziende italiane solo il 71% di esse ha un proprio sito internet e solamente il 37% del totale è presente sui social networks.

Infine esiste un problema oggettivo: se un operatore è basato in America e propone un articolo o un servizio innovativo è molto probabile il mercato di sbocco per quell’articolo sia il mondo intero. Se lo fa in Italia è possibile che esso non risulti interessante nemmeno per certe aree geografiche dello Stato. Dunque il forte impatto sulle prospettive di business della dimensione del mercato potenziale non può che disincentivare quelle iniziative che non nascono subito globali. Per far decollare queste ultime però servono ancora più quattrini. Insomma non esistono in natura le pari opportunità, tantomeno nel commercio.

PARCEL & LOGISTICS (TRASPORTI E LOGISTICA DEL COLLETTAME)

Esiste poi tutta un’attività di supporto al commercio elettronico (stoccaggio, packaging, distribuzione ecc…) che solo ogni tanto affiora sulle prime pagine di giornali e telegiornali ma i cui investimenti e le cui dimensioni sono spesso ignote ai più.

Amazon quando è sbarcata in Italia ha comperato/ realizzato/ automatizzato un certo numero di piattaforme logistiche per potersi attrezzare per le consegne a domicilio, e ciò nonostante che persino nella situazione attuale si affidi ancora poi a operatori logistici e vettori terzi per le consegne.

Allo scorso Agosto Amazon dichiarava ai giornali di aver già investito oltre € 450 milioni e di aver dato lavoro a circa 2000 persone solo in Italia. Non si può certo investire (in tutto il mondo per di più) se non si dispone dei necessari capitali e finanziamenti per far concorrenza a giganti come Amazon.

In realtà Amazon è un commerciante online sbarcato in borsa già vent’anni fa (1997), e oggi per le sue dimensioni, per la sua visibilità, per la capillarità della propria pubblicità e per mille altri motivi pratici appare essere piu visibile di tanti altri grandi operatori. Amazon è dunque solo la punta di un iceberg ben più massiccio che riguarda gli oligopolisti del commercio elettronico, destinato a costringere numerosissime altre imprese ad adeguarsi alle nuove tendenze. (Nel grafico l’incremento di valore solo fino a Maggio scorso).

Ad esempio i corrieri espressi italiani, già presenti da anni sul territorio e in precedenza attivi per altri tipi di consegna, si stanno attrezzando non poco per beneficiare (e anche per resistere all’impatto) di volumi decisamente crescenti nel settore delle consegne a domicilio. La loro appare come un’attività piena di insidie ma con forti prospettive di crescita e con la necessità di incrementare l’automazione dei processi, per mantenersi competitivi!

COME CAMBIANO LE CONSEGNE B2C (BUSINESS TO CONSUMER)

Innanzitutto parliamo delle consegne ai privati, i quali spesso non sono in casa. Quelle consegne devono perciò adeguarsi a tale fattispecie e necessariamente avvenire fuori degli orari di lavoro più comuni. Poi prendiamo in considerazione tutte le problematiche relative alla consegna, spesso impossibile perché spesso, nonostante essa avvenga agli orari concordati, capita ugualmente che all’indirizzo di destinazione non ci sia nessuno al momento dell’arrivo del corriere, generando un traffico di ritorno per il quale nessuno paga nulla. Parliamo infine delle tariffe di consegna, oggi sempre più stracciate per venire incontro alle esigenze commerciali.

Come fa un corriere espresso a consegnare merce di peso (e valore) molto limitato a costi bassissimi per il cliente senza andare in rosso? Può riuscirvi quasi solo con l’ausilio di grandi volumi e dell’automazione (il rilevamento digitale di ogni passaggio, come: picking, deposito, spedizione, logistica e smistamento, consegna) e deve disporre di grande potenza nei sistemi informativi, che devono oggigiorno “dialogare” con il mittente (soprattutto quando è un colosso come Amazon o Zalando) e deve obbligatoriamente riuscire a mostrarne online il “tracking” (cioè deve far vedere in ogni istante all‘acquirente che si collega al sito della Amazon di turno dove si trova in quel momento il suo pacco).

Dimensioni aziendali e automazione sono dunque elementi essenziali anche per i corrieri espressi perché i conti tornino loro in tasca, sebbene la forte crescita del mercato delle consegne di acquisti online ai privati non accenni a flettere e possa quindi ampiamente giustificare la montagna di investimenti ed efficientamenti che risultano necessari per potervi operare.

Se ne può facilmente dedurre che l’intero settore dei trasporti ne subirà uno scossone rimescolando le carte della competizione e facendo rimanere a galla solo i migliori operatori. Ma per qualcuno di essi sarà anche l’occasione di emergere e fare profitti.

Stefano di Tommaso




LA RIVINCITA DEL REDDITO FISSO

A circa dieci anni dallo scoppio di una delle più grandi bolle speculative della storia sui mercati finanziari essi hanno raggiunto nuovi massimi storici e oggi, mentre le quotazioni di borsa faticano a superare determinati limiti di valutazione, i titoli a reddito fisso raccolgono molta della liquidità ancora in circolazione che non vuole più scommettere sulla giostra delle borse. Però mentre le quotazioni dei bond di conseguenza salgono e i loro rendimenti scendono, i banchieri centrali pensano a rialzare i tassi a breve termine per recuperare spazio di manovra in vista della prossima recessione. Il risultato è un pericoloso appiattimento della curva dei rendimenti, uno degli indicatori storicamente più probabili nell’anticipare l’arrivo di una recessione (peraltro non imminente).

LA CURVA DEI RENDIMENTI

La “curva dei rendimenti” è quel grafico che si ottiene ordinando per scadenze crescenti i tassi di interesse ottenibili sui mercati. La sua normalità è un‘ inclinazione positiva perché per investire a scadenze più lunghe normalmente il risparmiatore vuole vedere rendimenti maggiori. L’appiattimento dei rendimenti a prescindere dalla durata (o peggio, l’inversione della curva) segnala la presenza di fattori distorsivi che spingono chi investe a preferire l’illiquiditá momentanea dell’investimento a lungo termine persino in presenza di suoi rendimenti più bassi di quelli ottenibili a breve. Nel caso che osserviamo oggi chiaramente questi fattori distorsivi corrispondono all’interventismo delle banche centrali.

Oggi il combinato disposto di un costante eccesso di liquidità sui mercati finanziari e di elevatissimi livelli di valutazione dei titoli azionari quotati nelle principali borse del mondo ha fatto si che molti risparmiatori tornassero negli ultimi tempi a preferire di liquidare in parte o tutto il proprio portafoglio di titoli azionari per preferire quelli a reddito fisso (quasi tutti a medio-lungo termine) limandone indirettamente i rendimenti al crescere del loro valore di scambio.

Con la prospettiva di un’ascesa dei tassi a breve termine dovuta alla volontà dei banchieri centrali di far tornare a crescere il livello dei tassi di interesse, e la contemporanea discesa di quelli a medio e lungo termine (per effetto della domanda di bond sul mercato) il risultato che osserviamo è un innaturale abbattimento delle differenze (spread) tra rendimenti a breve e a lungo termine e la tendenza verso addirittura un valore negativo del relativo spread tra breve e lungo termine.

Ora gli analisti e gli studiosi di economia non dimenticano che negli ultimi sette cicli economici, diversi mesi prima dell’arrivo di una recessione, si è potuto statisticamente osservare un appiattimento o un‘inversione della curva dei rendimenti, sebbene non esistano tuttavia certezze e causalità forti nella correlazione tra i due fenomeni.

LA NON PERFETTA SINCRONIA DEI MERCATI GLOBALI

Cerchiamo allora di comprendere meglio lo scenario globale del mercato finanziario: mentre nell’intero mondo anglosassone le principali banche centrali (Federal Reserve in testa) hanno espressamente dichiarato la loro volontà di veder crescere di almeno un punto percentuale in un anno i tassi di interesse a breve termine (quelli da loro meglio controllati attraverso il meccanismo di rifinanziamento delle banche), nel resto del mondo il ciclo economico è più arretrato nel suo sviluppo naturale e sono ancora in corso programmi di “Quantitative Easing” (QE, vale a dire di acquisto di titoli sul mercato secondario) che per definizione hanno un effetto di compressione sul loro rendimento e, al tempo stesso, contribuiscono al successo del collocamento di nuovi titoli di stato in rinnovo di quelli in scadenza.

Questa differenza temporale bei comportamenti delle banche centrali accade perché rispetto al resto del mondo il QE è stato lanciato con anni di anticipo nei paesi anglosassoni e di conseguenza la ripresa economica si è manifestata lì in anticipo. Dunque nel resto del mondo al momento la situazione di più recente ripresa economica e di limitata inflazione dei prezzi, sebbene molto monitorata dalle altre banche centrali, non le ha ancora portate a dichiarare altrettanto esplicitamente la volontà di una stretta monetaria come è invece accaduto nei paesi anglosassoni. Oggi dunque i rendimenti reperibili nell’area dollaro e dintorni sono decisamente più elevati di quelli -quasi a zero- dell’Eurozona e per di più in assenza di indicazioni altrettanto chiare al rialzo.


Questa deriva ha persino delle conseguenze paradossali: se osserviamo il rendimento delle obbligazioni considerate “ad elevato reddito” emesse dalle imprese europee con rating basso, esso oramai è sceso così tanto da coincidere con il rendimento dei titoli di stato americani!


BUONE NOTIZIE SUL CONTINENTE EUROPEO

È evidente che si tratta di una piccola assurdità, ma il tasso di insolvenza per queste obbligazioni dovrebbe restare ancora per qualche tempo sui minimi storici. L’agenzia di rating Moody’s anticipa per quest’anno un tasso d’insolvenza del 2,3% per il debito high yield europeo, in discesa dal tasso storico corrente del 2,8% e si può ritenere che tale stato di cose proseguirà.Un’obbligazione può non essere ripagata perché l’emittente non è in grado di ripagare il debito alla scadenza, non ha liquidità o non può finanziarsi. Oppure l’emittente non riesce a pagare gli interessi maturati sul debito emesso. Al momento, tuttavia, i tassi di finanziamento europei sono bassissimi e, benché potrebbero prima o poi aumentare, sembrano destinati a rimanere rasoterra ancora per qualche tempo.

Neanche in America i tassi di interesse espressi dalle obbligazioni a più lungo termine salgono parallelamente al rialzo dei tassi pilotato dalla Fed, anzi! Se guardiamo alla differenza fra I rendimenti espressi dai titoli di stato americani alla durata di 2 anni e quelli alla durata di 10 anni di vede che non c’è quasi più differenza (0,6%).


LE RAGIONI DELLA FEDERAL RESERVE, DEL DOLLARO E DELL’EURO

Quali ragioni portano a questa situazione? Probabilmente perché la manovra della Federal Reserve è “innaturale” mentre la liquidità abbondante sui mercati e l’assenza o quasi di inflazione non fanno si che i rendimenti a più lungo termine si adeguino alla risalita di quelli a breve termine. Ma la realtà è più difficile da accettare: il lungo ciclo economico positivo è oramai “maturo”ma nessun banchiere centrale ha voglia di dichiararlo apertamente e (prima gli americani e poi sempre in ritardo lo faranno gli europei) semplicemente si cerca di mettere fieno in cascina per poter mantenere una futura capacità di intervento. La manovra inoltre così concertata favorisce la possibile rivalutazione del dollaro (che ne avrebbe bisogno) e la contemporanea compressione delle quotazioni dell’Euro, utile anch’essa a mantenere in positivo la bilancia commerciale dei membri più deboli dell’Unione.

IL TRAINO ARRIVA DAL SOL LEVANTE

Esiste però uno iato tra quanto accade nel vecchio e nel nuovo continente (Europa e America), e ciò che invece si registra in Asia, il continente oggi più dinamico dal punto di vista della crescita economica e quello che ha più bisogno di veder crescere la propria base monetaria per dare fiato alla vigorosa crescita dei consumi: il continente asiatico (India e Cina in testa) deve fare i conti con la necessità di non svalutare troppo le proprie divise monetarie (e il Q.E. ha purtroppo un tale effetto) perché già in passato questo ha provocato la corsa all’esportazione dei capitali, mentre al tempo stesso deve riuscire ad aumentare la propria base monetaria. La soluzione è l’espansione (quasi) indiscriminata del moltiplicatore del credito, con tutti i rischi che ne conseguono.

D’altronde la crescita economica (trainata anche da quella demografica) lì è così potente da attenuare il rischio dello scoppio di eventuali eccessi speculativi, non supportati da sufficiente capitale di rischio. È quella crescita nel continente asiatico tuttavia che oggi sostiene un ciclo economico globale così positivo (con i grassi profitti aziendali che le multinazionali ne derivano) ed è il conseguente eccessivo livello di indebitamento del settore privato che la mette decisamente a rischio.

Il mondo gira più veloce, insomma, ma la sua forza è tenuta da un filo di lana. Anche questo contribuisce ad evitare che si accenda una spirale inflativa, oltre che spingere gli investitori verso i titoli a reddito fisso: in assenza di inflazione e nel caso di inversione del ciclo economico in corso essi risulterebbero senza dubbio essere stati la scelta più prudente!

Stefano di Tommaso




TESLA DIVIDE GLI ANALISTI FINANZIARI

Tra le “singolarità” più importanti che si riscontrano sul mercato azionario americano vi è sicuramente Tesla, la società di Elon Musk che produce veicoli e altri sistemi elettrici basati sulle batterie al litio. Tesla è vista dai più (e a ragione) come una sorta di buco nero che brucia cassa e vive essenzialmente di continue richieste al mercato di finanziamenti e nuovi aumenti di capitale, in nome della rivoluzione tecnologica e delle più svariate iniziative che porta avanti, ma al tempo stesso mostra un approccio così innovativo e radicale che viene indicata da altri come il nuovo paradigma industriale del secolo, generando entusiasmo e fidelizzazione tra analisti ed utenti per le aspettative che continua a generare sino ad essere definita la nuova Apple dei veicoli elettrici. Probabilmente sono vere entrambe le interpretazioni ma è per questo che non è facile capire se le azioni Tesla risulteranno l’affare o il buco del secolo.

 

Eppure per effetto della combinazione della normativa che limita le emissioni dei veicoli a combustione interna e dei progressi fatti nell’efficienza dei veicoli elettrici, questi ultimi stanno registrando una crescita delle vendite che è stata del 45% nel 2016 e che può addirittura accelerare nei prossimi anni. Ovviamente Tesla sarebbe in prima fila nel beneficiare di questa tendenza di mercato e nel riuscire a ottenere un lauto profitto dalle sue “supercars”, se non fosse per i suoi (grossi) problemi nel riuscire ad ampliare la capacità produttiva e rispettare i tempi di consegna.

Chi ha ragione: quelli che la danno per morta tempo un anno o due o coloro che ci vedono il paradigma futuro dell’industria moderna? Proviamo insieme ad esaminare le motivazioni dell’una e dell’altra parte per farcene un’idea.

I DETRATTORI

A vantaggio di quelli che la danno per morta a breve termine c’è sicuramente la forte dipendenza della Società di Elon Musk dalla salute dei mercati finanziari globali. Tesla continua ad aver bisogno di nuove iniezioni di liquidità per finanziare i propri progetti. Per un’azienda già arrivata quasi alla soglia dei 400 dollari per azione e oggi rimbalzata a poco più di 300 (dunque comunque molto cara rispetto ad una redditività inesistente ancora per i prossimi anni) e dove l’azionista medio si è visto diluito del 43% dal 2013 ad oggi a causa del frequente ricorso al debito e dei continui aumenti di capitale, le prospettive possono risultare molto dire se i mercati finanziari non continueranno a vedere tassi molto bassi e a inanellare nuovi record!

Difficile infatti pensare che i dividendi di Tesla potranno divenire presto il punto di riferimento di chi oggi acquista il titolo, mentre la prospettiva di venire ulteriormente diluiti è reale e quella di dover emettere nuovi bond per rifinanziare quelli esistenti più che mai concreta.


Nel terzo trimestre del 2017 la prima casa automobilistica della storia che è nata nella Silicon Valley ha evidenziato una perdita di 619 milioni di dollari, contro l’utile da 22 milioni del corrispondente periodo del 2016. Gli analisti hanno però sottolineato il fatto che nel medesimo trimestre sono stati bruciati 1,42 miliardi di dollari di cassa: una cifra sconvolgente ! Forse è per questo che il suo fondatore, nonostante abbia raccolto oltre 3 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi, sta di nuovo facendo il giro del mondo per trovare i finanziamenti per costruire nuovi stabilimenti e andare avanti (vedi:

http://www.auto.it/news/news/2017/11/11-1191657/caslo_tesla_musk_cerca_risorse_da_erdogan/

e

http://punto-informatico.it/4408251/PI/News/tesla-nuovo-stabilimento-shangai.aspx

 

Se vogliamo tradurre tutto ciò in un solo concetto: bruciando cassa e continuando a posporre le date di consegna delle proprie vetture sulle quali ottiene un margine sino ad oggi piuttosto risicato Tesla continua invece a investire in mille direzioni diverse per ciascuna delle quali (qui sotto l’elenco) essa richiede al mercato cospicui contributi. Se almeno rispettasse le promesse recenti relative alla capacità produttiva e alla tempistica di completamento dei nuovi modelli gli analisti potrebbero indulgere maggiormente sulle iniziative più estemporanee. Secondo i suoi detrattori così facendo Tesla non sembra invece produrre alcun valore per i suoi azionisti.

I PROGETTI “NON-CORE”

La società ancora oggi origina quasi il 90% dei propri ricavi dalla vendita di tre tipologie di veicoli elettrici, due delle quali sono già disponibili sul mercato (la Model S e la Model X) mentre la terza (la Model 3) è in arrivo ma ha già ottenuto dai futuri utenti un cospicuo contributo di “prenotazione”. Una quarta tipologia (la Model Y, nell’immagine) relativa a un nuovo concetto di SUV leggero, sembra invece che non vedrà la luce prima del 2020.


Ciò nonostante il suo fondatore è stato bravissimo nell’affascinare il mercato finanziario anche con un numero elevato di “altri progetti“ che sono solo parzialmente o non sono affatto interconnessi con la produzione di veicoli elettrici: dalla “Gigafactory” di batterie al litio (che anche per le sue elevatissime dimensioni non è ancora entrata in funzione e dovrebbe rappresentare il nuovo standard di produzione nel settore degli accumulatori), alla creazione di “Autopilot”, un sistema proprietario di guida automatica delle proprie vetture, fino a ciò che il mercato finanziario ha spesso definito vere e proprie “distrazioni” rispetto al core business.

Progetti a ciascuno dei quali Elon Musk ha voluto associare concetti innovativi e visioni futuristiche, insieme a denominazioni particolarmente stimolanti e dove sta spendendo cifre iperboliche in progettazione e investimenti senza alcuna certezza di ritorni economici a breve termine. Vale a dire la costruzione di:

-pannelli solari (SolarTiles)
-batterie per uso domestico (PowerWall)
-sistemi integrati di alimentazione elettrica domestica (SolarCity)
-camion elettrici (Truck)
tunnel sotterranei di nuova concezione (Tunneling)
sistemi innovativi di diffusione della musica online (MusicStream)
circuiti di trasporto di persone e cose basati sul concetto di posta pneumatica (HyperLoop)
sistemi di trasporto aereo basati sul concetto di missile terra-aria (SpaceX)
Niente male nemmeno per un assiduo lettore di fumetti futuristici! Peccato che sino ad oggi nessuno di essi abbia portato un contributo tangibile alla creazione di valore del titolo quotato al Nasdaq e in alcuni casi vi siano seri dubbi sulla capacità di realizzarli davvero. Ciò nonostante il mercato sembra credere in Elon Musk più di quanto i fatti e i numeri suggeriscono. Difficile dunque dare torto ai detrattori di Tesla e del suo fantasmagorico leader sulla base di quanto qui riportato!

GLI ESTIMATORI

Chi invece vede il bicchiere mezzo pieno fa notare innanzitutto che la sfida di Tesla nei confronti dell’industria automobilistica si dispiega su tre fronti: quello dell’automazione produttiva, quello dell’autonomia su strada e quello della guida autonoma. Riuscire a combinare al meglio queste tre capacità può fornire a Tesla un importante vantaggio competitivo sulla concorrenza, che rimane soprattutto focalizzata sui veicoli a combustione interna.

Secondo i più favorevoli commentatori Tesla è di fatto una società di software, tanto per ciò che concerne la capacità di gestire il sistema di accumulo delle batterie (BSM: battery management system) e quello della trasmissione dell’energia alle ruote (PT: power train), quanto per i sistemi che consentono alla vettura la rilevazione delle situazioni esterne e la loro elaborazione ai fini del risultato della guida autonoma, quanto infine per ciò che concerne la gestione dell’automazione in fabbrica. La capacità di generare autonomamente il software di cui ha bisogno è insomma il punto di forza di Tesla e quello che le consentirà di vincere la sua sfida all’industria automobilistica tradizionale.

Questa visione della strategia di Elon Musk può aiutare a spiegare la volontà di diversificare le iniziative di Tesla nelle più disparate direzioni (quelle che più sopra abbiamo sopra definito “non-core”): il punto di contatto sono le possibili sinergie a livello di software.

LE POTENZIALITÀ DELL’AUTOPILOT

 

Il fatto inoltre che le vetture Tesla in commercio già incorporano il sistema di guida autonoma consente all’azienda di totalizzare un gigantesco numero di miglia percorse, nel corso delle quali il software aggiunge all’enorme database ogni genere di situazioni di rischio. Si veda il grafico qui riportato:

Nel grafico sono assunte le seguenti ipotesi di produzione: 5000 Model3 alla settimana a partire da Aprile 2018 e il doppio a partire da Aprile 2019. Per quanto potente sarà il software sviluppato dalle altre grandi industrie, a partire dal 2020 Tesla sarà l’unica ad aver collezionato oltre 11 miliardi di miglia terrestri percorsi con le telecamere e il software di rilevamento dati attivi e questa è esattamente la soglia stimata dalla Rand Corporation quale misura di un sufficiente numero di rilevazioni statistiche per poter assicurare un numero di incidenti accettabile (vedi: Princeton University e vedi: eBook RAND ). La velocità presumibile di miglioramento del software di guida autonoma Tesla è perciò molto più alta di quella che altre case automobilistiche potranno esibire.


Quanto vale in termini finanziari poter assumere la leadership delle automobili che guidano da sole? Moltissimo, si presume. Soprattutto per l’utilizzo di tali veicoli per scopi diversi da quello del “leisure”: taxi, furgoncini per le consegne e sistemi urbani compositi di gestione del traffico sono solo alcuni dei campi di applicazione di veicoli davvero capaci di autogestirsi.

LA FABBRICA AUTOMATICA

Un altro settore dove Tesla ha impiegato davvero ingenti risorse e dal quale si aspetta importanti futuri vantaggi competitivi è quello dell’automazione industriale. La capacità di sviluppo autonomo di robot di produzione gestiti da sistemi software proprietari Tesla è particolarmente cara a Elon Musk a causa della possibilità teorica di accelerare la loro velocità di esecuzione a livelli oggi mai visti a causa del fatto che il sistema-fabbrica deve risultare compatibile con le fasi della produzione non automatizzate. Nel momento in cui la fabbrica può risultare completamente automatica allora la velocità dei robot può accelerare moltissimo, giungendo a livelli di produttività oggi impensabili e ad una decisa compressione dei costi di produzione.

Ovviamente si tratta di un obiettivo finale decisamente in là nel tempo e difficile da raggiungere, che può inoltre cozzare con una non sufficiente integrazione del controllo della qualità dei componenti impiegati, così come con la difficoltà di armonizzare nell’ambito dell’automazione ogni genere di personalizzazione dell’output finale di produzione.

Obiettivi come quelli descritti tuttavia possono portare nel tempo a vantaggi competitivi molto forti, che aiuterebbero a ridefinire il concetto di “industria 4.0” fino a farcelo apparire come decisamente antiquato. Tesla ha dunque scelto di giocare d’anticipo una partita molto difficile le cui complicazioni lungo il percorso potrebbero decisamente minacciare la fiducia che il mercato finanziario vi ha riposto.

Ce la farà? Difficile dirlo oggi, alla vigilia di possibili manrovesci sui mercati finanziari, perché in questo momento è messa fortemente in discussione la capacità di Tesla di riuscire a completare i suoi programmi prima di esaurire le risorse finanziarie già raccolte nonché quella di conservare la fiducia del mercato per fornirgliene di ulteriori nei prossimi mesi.

Eppure quella di Tesla sembra una delle storie industriali più intelligenti, belle e romantiche dei nostri anni…

Stefano di Tommaso